SINISTRA E' CONSERVAZIONE?
di Riccardo Achilli
E’ noto che la sinistra,
spiazzata nei suoi riferimenti ideologici dalla crisi, pressoché contemporanea,
del comunismo e della socialdemocrazia classica, abbia maturato un rapporto
tormentato e sostanzialmente insoluto rispetto alla modernità del pensiero unico
che si è imposta negli ultimi trent’anni. Anche semanticamente, termini come
“riformismo” e “progressismo”, che sembravano essere nel DNA stesso della
sinistra, sono divenuti il grimaldello con il quale l’avversario storico ha
smantellato il capitalismo welfaristico dei Trenta Gloriosi.
Questo spinge molti a riflettere
sul nesso fra la ricostruzione/riaffermazione dei valori e del radicamento
sociale della sinistra in termini di difesa, o possibilmente ricostituzione,
del sistema di tutele e di diritti che, seppur in forte destrutturazione già a
partire dalla metà degli anni Ottanta nei Paesi anglosassoni(e nel nostro Paese
in realtà sin dai primi anni Ottanta, con il regresso e l’indebolimento del
movimento sindacale conseguente allo shock petrolifero del 1980) è sprofondato
definitivamente con il riordino neoliberista susseguente alla crisi del 2008.
Il ragionamento più definito in tal senso l’ho ascoltato, recentissimamente, in
un convegno cui ho partecipato. Il succo è questo: il processo di ristrutturazione
neoliberista degli ultimi trent’anni ha devastato i riferimenti sociali
tradizionali cui la sinistra si rivolgeva. La classe operaia ha perso il suo
ruolo propulsivo, irretita da nuove organizzazioni del lavoro che da un lato la
precarizzano, riducendo il legame di classe con i mezzi di produzione, e
dall’altro ne spezzano l’unitarietà, ed infine le conferiscono valori tipici
della borghesia (i criteri del kai zen e del toyotismo, come anche la
variabilizzazione del salario legata alla compartecipazione agli utili
aziendali, spesso presente nelle grandi imprese di fatto, producono
collaborazione di classe ed introiezione di valori come la competizione,
l’efficienza, la partecipazione attiva al miglioramento continuo).
D’altro
lato, il ceto medio impiegatizio sprofonda nella precarietà e
nell’impoverimento, dividendosi fra mito dell’autoimprenditorialità
conferitogli dal capitalismo e rancore politicamente miope tipico del
sottoproletariato (finendo in pasto ai populismi). Rimane solo un piccolo segmento
di classe media altamente istruita e non di rado professionalmente fortemente integrata,
e quindi di fatto pienamente inserita dentro i meccanismi di riordino del
capitalismo, ad esprimere una adesione ad un concetto “soft” di sinistra lungo
le stesse direttrici ideologiche del capitalismo stesso. Crisi ambientale e
sociale vengono quindi declinate come necessità di “sviluppo ecosostenibile” e
“diritti individuali e civili”, il pacifismo e la tradizione socialista di
cooperazione internazionale e di solidarietà fra popoli finiscono per
puntellare la globalizzazione neoliberista in nome di una utopistica ed innocua
richiesta di “governo” della mondializzazione, priva di strumenti per essere
esercitata. Il popolo che in Italia dà il 2-3% di consenso alle microscopiche
organizzazioni di sinistra.
Quindi, sostengono i fautori
della sinistra come “conservazione” (e riporto qui esattamente i termini con i
quali l’ho ascoltato al convegno di cui sopra) i riferimenti sociali della
sinistra sono macerie. Residui. Proprio così sono stati definiti. Residui. E la
sinistra avrebbe il ruolo, diciamo così infermieristico, di prendersi cura di
questi residui. Come una crocerossina che accudisce i soldati mutilati sul
campo di battaglia. Offrendo loro una prospettiva di difesa di quel poco che
rimane delle costruzioni sociali, politiche ed istituzionali del Ventesimo
secolo, e un sogno in cui sognare una possibile, chissà mai quando,
ricostruzione di ciò che è stato distrutto. Insomma, occorre che la sinistra
sia “conservatrice”, in contrasto al “riformismo” neoliberista. Riecheggia in
queste posizioni una profonda, triste, corda: la corda della sconfitta storica,
di una malinconica presa d’atto di un tempo che è passato, per cui si può
tutt’al più cercare di puntellarlo, mantenendo le macerie in stato di
conservazione accettabile, mettendo le impalcature sui pochi muri ancora in
piedi, peraltro muri separati l’uno dall’altro.
E’ interessante notare come il
conservatorismo sia un atteggiamento che tende a risorgere proprio sui crinali
di grandi cambiamenti storici. Il termine “conservatorismo” fu ideato da François de Chateaubriand, nel 1818, ovvero
in piena restaurazione dell’ordine pre-rivoluzionario conseguente alla
sconfitta di Napoleone ed al Congresso di Vienna. Un tentativo neo-feudale che
sarà spazzato via in pochi anni dall’affermazione definitiva del nuovo ordine
borghese e liberale emerso dalla Rivoluzione industriale. Il conservatorismo di
Churchill si sviluppa nella fase in cui l’imperialismo coloniale della prima
metà del Novecento inizia a sgretolarsi.
Con questo non intendo dire che
non occorra puntellare i muri ancora in piedi, che non occorra difendere ciò
che ancora resiste. Evidentemente, il cambiamento delle forme sociali del
capitalismo non modifica in niente i valori di fondo, di eguaglianza,
solidarietà, pacifismo, giustizia e liberazione (non ho detto libertà, ho detto
liberazione, i due concetti sono diversi) che sono alla base del pensiero di
sinistra. Ed è quindi evidente che, quando tali valori sono minacciati dal
“riformismo” borghese, vada fatta una battaglia assoluta di difesa di questi
valori. Come nel caso, attuale, del referendum costituzionale, in cui votare No
significa tutelare i valori profondi che la sinistra deve custodire, per non diventare
vuoto social-liberismo.
Intendo dire che una retorica più
vicina ad una Sovrintendenza per i beni archeologici che ad un partito politico
che ha l’ambizione di inserirsi attivamente dentro la società è insufficiente.
Non basta puntellare i muri, questa è solo la condizione necessaria. Bisogna
costruire la casa. La casa si costruisce con i materiali che la realtà, in un
dato momento storico, fornisce. Certe miniere di materiali da costruzione sono
esaurite. Altre si aprono, ed occorre vedere i segnali deboli, inizialmente
poco percepibili, della loro apertura. Ed usare la nostra storia ed i nostri
riferimenti culturali, maturati per oltre due secoli, per valorizzare le nuove
miniere.
In altri termini, più espliciti:
non si può eludere una fase faticosissima di analisi delle condizioni di classe
e delle possibili evoluzioni di tali condizioni, cavandosela a buon mercato con
la difesa dei “residui” della fase oramai chiusa del capitalismo welfaristico e
socialdemocratico. Non parlo nemmeno di coloro che se la cavano ancor più a
buon mercato, ipotizzando un fronte unico fra mondo del lavoro e
sottoproletariato, ignorando l’elementare lezione marxista della “classe
propulsiva” ovvero della classe centrale che con la sua azione trascina dietro
anche le altre, irretite da scarsa cultura politica o da egemonia culturale
borghese. Occorre piegarsi a guardare dove stia rinascendo una classe
emarginata emergente. Che evidentemente inizialmente appare un fenomeno
limitato, piccolo. Ma che cresce, fino a diventare modello per la
ristrutturazione dell’intero mondo del lavoro. Guardate che il proletariato
industriale, che è stato la base sociale propulsiva della sinistra del
Novecento, non è mica disceso dall’alto dei cieli già formato e numericamente e
culturalmente egemone. Marx lo spiega benissimo nel capitolo 24 del Capitale:
la formazione del proletariato industriale inglese inizia solo nei primi anni
del Sedicesimo secolo, con la progressiva usurpazione dei terreni dei piccoli
contadini indipendenti, e con la rivoluzione agricola. Un processo che dura più
di un secolo, prima di avere una classe operaia in senso capitalistico di
rilevanti dimensioni, in grado di essere la base per una sinistra egemonica.
Noi oggi ci troviamo in una fase
di ristrutturazione del capitalismo, iniziata da poco meno di cinquant’anni,
sotto diverse spinte: una spinta geopolitica, data dall’irrompere sullo
scenario mondiale di economie emergenti sorte dalla decolonizzazione e
dall’indebolimento dell’ordine mondiale di USA e URSS, e poi dall’impossibilità
per gli USA di divenire l’unico custode dell’ordine mondiale dopo la caduta del
muro, con l’emergere di uno scenario multipolare, che mette in crisi i
tradizionali modelli keynesiani ad economia chiusa ma anche la concezione
liberale occidentale da “esportazione di democrazia” resa impossibile dalla
risorgenza di tradizionalismi etnici e religiosi, una spinta economica, data
dalla fine di Bretton Woods e dal parallelo irrompere di un capitalismo sempre
più finanziarizzato, da una spinta tecnologica, in cui la rivoluzione
informatica degli anni Ottanta ha fatto da battistrada per una più ampia
rivoluzione industriale (che passa oggi sotto il nome di Industria 4.0) fatta
della convergenza di piattaforme tecnologiche come l’informatica, l’elettronica,
le comunicazioni, i trasporti, l’aerospaziale, la robotica, l’intelligenza
artificiale, i nuovi materiali, la micromeccanica, la microbiologia e la
genetica.
Questo gigantesco “remue-ménage”
sta producendo fenomeni sociali enormi: liquefazione dei blocchi sociali
tradizionali, nuove forme di organizzazione produttiva che trovano nel risorto
neoliberismo ottocentesco una ideale sovrastruttura ideologica, nuovi assetti
istituzionali che, sul modello russo, o quello ungherese, riducono gli spazi della
democrazia e del parlamentarismo in nome di un semi-autoritarismo carismatico,
e così via. Nel mondo del lavoro, dove sussiste l’analisi di classe, tali
cambiamenti producono una destrutturazione complessiva dei riferimenti del
lavoro ottocentesco. Si precarizzano i rapporti contrattuali, si liquefa il
concetto di orario di lavoro e si cancella la differenza fra luogo di lavoro e
luogo di vita (si veda anche la recente introduzione del “lavoro smart”
nell’ordinamento giuslavoristico italiano) si sposta il valore aggiunto dal
lavoro manuale e routinario (che in un futuro non lontano sarà svolto da
macchine “istruite e cognitive”, perché le macchine “intelligenti” nel senso
umano non esisteranno mai, con buona pace degli apologeti del pensiero
cibernetico) a quello basato sulla produzione e manipolazione di informazioni e
conoscenze. Si tratta di fenomeni che riguardano ancora una minoranza di
lavoratori (neanche troppo piccola, secondo uno studio Assolombarda il lavoro
cognitivo, ad esempio, coinvolge circa il 42% degli addetti nell’economia
lombarda), ma che si estendono sempre più ad una velocità impressionante, che
sono maggioritari fra le nuove leve del mercato del lavoro, cioè fra i giovani,
e che, francamente, la sinistra non ha la forza di impedire. Con enorme sforzo
e con un consenso molto più ampio di quello che si ha oggi, tali fenomeni si
possono tutt’al più rallentare. Ma le condizioni attuali della sinistra, non
solo italiana, difficilmente possono anche solo rallentare il processo.
Allora, va benissimo puntellare i
muri, votiamo in massa No al referendum, lottiamo per contrastare le riforme
del mercato del lavoro, ma precarizzazione, superamento della barriera fra
tempi e luoghi di vita e di lavoro, alienazione cognitiva e creativa del lavoro
sono i tratti tipici di una classe emergente, una classe che con tutti i Jobs
Act e gli Hartz del mondo sta divenendo un paradigma per l’intero mondo del
lavoro.
Una classe di invisibili nella rappresentanza politico-sindacale. Perché
sono loro a fornire il consenso ai populismi grillini, per reazione all’assenza
di una rappresentanza nei partiti e nei sindacati tradizionali.
Una classe cui
viene negata un idea di futuro, proprio come per gli operai delle filature
inglesi ottocentesche.
Classe abbandonata ad una cultura
dell’autoimprenditorialità e della meritocrazia per un motivo molto semplice:
abbandonata dalla sinistra e dal sindacato, è stata alimentata spiritualmente
dal capitalismo. Ma proprio l’esempio di Sanders, che i suoi consensi li
ottiene soprattutto dai millennials, tipicamente invasi in massa da queste nuove
forme di lavoro, offrendo loro ciò che tradizionalmente la sinistra offre
(sanità pubblica, casa, sicurezza del reddito) senza omogeneizzarli all’antico
proletariato, ma anzi valorizzandone le specificità (la richiesta di
autorealizzazione individuale, l’esigenza di trovare forme e luoghi di
espressione della propria personalità) ci dice che è lì che dobbiamo andare.
Questa classe emergente la chiamo
precariato del general intellect, si può chiamare precariato cognitivo, la
possiamo chiamare anche sarchiapone. L’importante è capire che non è
semplicisticamente un residuo del crollo dei ceti medi. E’ qualcosa di nuovo,
che, se ascoltato, avanza una domanda sociale assimilabile all’offerta tradizionale
di sinistra: vogliono stabilità reddituale fra un incarico e l’altro, vogliono
ferie e congedi parentali, vogliono la pensione che sanno di non poter avere,
vogliono casa ed assistenza sanitaria, e scuola. Un qualcosa che vuole cioè un
nuovo welfare pubblico su sua dimensione (come ad esempio il reddito di
inserimento/reinserimento), ma che avanza anche istanze di merito, di impegno
professionale e civile, di realizzazione personale, che sarebbe sciocco
ignorare o disprezzare. In fondo, il sentimento anti-Kasta non è altro che la
degenerazione, utile per i poteri forti che hanno bisogno di fare ricambio di
classi dirigenti, di un desiderio di sbloccare, per i più bravi, un meccanismo
sociale che, paradossalmente, la retorica liberista dell’individuo nonfa altro
che cristallizzare.
Mutatismutandis, un discorso
analogo vale per la battaglia referendaria. Siamo poi così sicuri che basti il
No per reinsediarci nei presidi della società? Che non serva anche, dopo il No,
una idea di riforma costituzionale di sinistra, basata sul vincolo
proporzionalistico e quindi sulla connessa possibilità di Governi di minoranza
e di sfiducia costruttiva, sulla costituzionalizzazione dell’intoccabilità dei
beni comuni o della cogestione aziendale, oppure sulla costituzionalizzazione
del principio del deficit spending nelle fasi recessive?
Stiamo attenti. O
stiamo nel mondo con una nostra proposta che guarda alle sue storture reali e
propone nuove soluzioni, o ci chiudiamo in modo crepuscolare nel mondo che ci
piacerebbe tenere in vita. Facendo la fine dei Sioux in riserva, cui la
possibilità di evadere con i fumi del whisky non viene mai negata. E chi scrive
ha 46 anni, non è giovane e nemmeno giovanilista (anzi, credo che i giovani
attuali siano pure piuttosto mediocri, in media).
La vignetta è del Maestro Mauro Biani
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