di
Norberto Fragiacomo
Dando vita, nei primissimi anni cinquanta, alla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA) Adenauer, De Gasperi e Schuman dimostrarono, ritengo, più generosità che lungimiranza. Certo, il loro sforzo unitario fu encomiabile: in un’Europa semidistrutta dalla guerra, e segnata da freschi rancori, mettere in comune il residuo potenziale economico-produttivo poteva apparire come un primo passo incoraggiante verso la rinascita del continente e, in prospettiva, la costruzione di un’identità condivisa. L’approccio cauto, “funzionalista” – imposto dalle circostanze – si rivelò tuttavia foriero di conseguenze negative, pienamente avvertibili solo al giorno d’oggi: quegli accenni alla concorrenza e a libertà squisitamente economiche, contenuti nei Trattati istitutivi, divennero, col tempo, ragion d’essere e ideologia del nuovo organismo il quale, man mano che si ingigantiva, sempre più accentuava la propria lontananza dalla popolazione europea cui, come interlocutore, venivano preferite le lobby dei produttori e degli affaristi.
Difficile individuare il momento in cui la mutazione si compie: potremmo indicare, per semplicità, la metà degli anni ottanta (L’Atto unico è dell’86), anche se il processo giunge a maturazione nel ’92, in una graziosa cittadina olandese chiamata Maastricht. Quel Trattato, di cui tutti parlano senza conoscerne il contenuto, rappresenta il punto di non ritorno sulla strada dell’unificazione doganale, economico-finanziaria e, per l’effetto, politica. La Comunità/Unione ci venne fantasiosamente presentata come un tempio greco, sorretto da tre pilastri: il primo era la vecchia Comunità economico-doganale, il secondo la politica estera e di sicurezza comune (PESC), il terzo la cooperazione nel campo della giustizia e degli affari interni. Il termine “cooperazione” è significativo, perché svela la natura ibrida della neonata Unione. Per quanto riguarda affari esteri, sicurezza interna ecc. essa assume la natura di una conferenza permanente sovranazionale, in cui i governi discutono e – senza troppo impegno – cercano accordi; è nella materia lato sensu economico-finanziaria, invece, che si manifesta l’unicità a livello globale della UE, organizzazione sovranazionale capace di imporre le proprie scelte a popoli e governanti.
Quanto al “tempio”, non bisogna fermarsi ad ammirare la facciata, ma guardarci dentro: esso contiene, ormai lo sappiamo, una statua crisoelefantina della Dea Suprema, la Concorrenza economica. In effetti, è proprio con gli anni novanta che gli ordinamenti nazionali divengono totalmente permeabili alla normativa comunitaria, che stravolge e rimodella in senso liberista gli istituti esistenti. Citiamo solo due esempi: la materia dei servizi pubblici che, malgrado la previsione dell’articolo 43 della Costituzione, va incontro a una rapida privatizzazione, e quella degli appalti, in cui una procedura ideata per tutelare il committente statale (l’evidenza pubblica) si piega alle esigenze delle imprese concorrenti. La creazione, in sede europea, di mostri giuridici come l’avvalimento (che consente a chi non ha i requisiti di partecipare a una gara pubblica facendoseli prestare da terzi) e le associazioni temporanee di imprese (a.t.i.), più che agevolare la libera competizione, sembra favorire il rafforzarsi di alleanze imprenditoriali (leggi: cartelli), ma il punto centrale è il seguente: l’Unione ormai detta legge, e la “primazia” dei suoi atti si sostituisce a quella tradizionalmente riconosciuta alle Costituzioni statali. Cosa comporta questo? Un irreversibile arretramento dei diritti economici e sociali dei cittadini (cui in cambio viene offerta una manciata di “diritti civili” a costo zero): attaccando, un paio d’anni fa, l’articolo 41 della Costituzione - che subordina l’iniziativa economica privata all’utilità sociale e al rispetto di libertà, dignità e sicurezza – Berlusconi altro non faceva che dar voce allo spirito dei tempi. Un discorso analogo può farsi per l’articolo 81, riscritto a tempo di record da politicanti di destra e di “sinistra” (celio, ovviamente: la sinistra è fuori dal Parlamento da un paio di legislature almeno, e il PD è destra travisata) che, pur di conformarsi al micidiale Fiscal Compact da 40-50 miliardi l’anno, hanno reso inattuabile l’intera Costituzione economica (art. 35-47). Che io stia esagerando? Può darsi, ma leggete cosa sta scritto sul compendio Simone di diritto costituzionale, opera di AA.VV. che dubito siano agitatori comunisti: “Ciò che distingue maggiormente la Costituzione economica italiana dai principi ricavabili dai Trattati europei, è il risalto dato al lavoro., alla solidarietà e alla funzione sociale dell’iniziativa economica privata e della proprietà, meno diretto e assai più attenuato nei secondi. L’Unione, di fatto, sacrifica sull’altare dei principi economici la spinta alla realizzazione dello “Stato sociale” che costituisce la linea guida della Costituzione repubblicana” (pagg. 146-147).
Non tornerò, in questa sede, sulla genesi dei parametri di Maastricht, numeri caduti dal cielo, né sulle ragioni di un’accelerazione liberista che segue, guarda caso, il crollo del blocco orientale (rapidamente inglobato, malgrado le affermate deficienze strutturali): preferisco dedicare qualche riga all’assetto uscito dal Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel 2009.
In fondo, sostengono i fan della UE, le politiche europee sono decise dai singoli governi, in base ai reciproci rapporti di forza. Questo è vero fino a un certo punto, anzi: è abbastanza falso. Lisbona ha posto fine al dualismo UE-CE, ed ha sicuramente messo un po’ d’ordine nelle caotiche istituzioni europee, ufficializzando il Consiglio europeo (da non confondere con il quasi omonimo Consiglio dei ministri, v. ECOFIN) e regalandogli un Presidente/gran cerimoniere, ma non ha intaccato i preesistenti rapporti di forza. Alla base della piramide sta l’inutile pachiderma per cui andremo a votare tra un anno: il Parlamento europeo, con i suoi (previsti) 750 membri più uno. A cosa serve un’assemblea i cui componenti non hanno potere di iniziativa legislativa, e che in ogni caso – ad essere generosi - legifera a metà, visto che condivide la funzione col Consiglio dei ministri? A niente, specie se si considera che il suo coinvolgimento è previsto solo nella procedura legislativa ordinaria, e che le proposte di atti legislativi sono riservate alla Commissione la quale, in caso di modifiche apportate dai “legislatori”, ha facoltà di ritirarle senza spiegare il perché. Proprio la Commissione è il vero dominus della macchina europea: oltre al potere di iniziativa, esercita la vigilanza sui Trattati (Fiscal Compact compreso) e dispone di un’arma micidiale: la procedura di infrazione, con cui ridurre all’obbedienza gli Stati recalcitranti. Inoltre, adotta – nel chiuso delle sue stanze, visto che le sedute non sono pubbliche – i c.d. atti non legislativi (procedura legislativa speciale), tra i quali quelli in materia di concorrenza. Dal prossimo anno il numero dei commissari sarà diminuito di un terzo: questo accentuerà ancor più il distacco tra membri della Commissione e Paese di provenienza, già oggi assicurato da un insieme di garanzie e dal potere pressoché assoluto del Presidente nei confronti dei sottoposti, revocabili in quattro e quattr’otto. Questo direttorio, sostanzialmente legibus solutus, può permettersi qualsiasi cosa, anche di innalzare l’orario massimo di lavoro in ambito UE a 60 (!) ore settimanali, senza che il Parlamento eserciti l’unica arma teoricamente a disposizione, la censura/sfiducia – a voler cercare un paragone storico, viene spontaneo quello con la potente confraternita dei Templari che, finché non incorsero nelle brame (di soldi, ironia della sorte) di Filippo il Bello, tennero in pugno l’Europa medievale.
Nel quadro brevemente descritto a mancare sono la democrazia e i diritti: i cittadini non hanno strumento alcuno per controllare l’operato dei tecnocrati che, chiusi nella loro torre eburnea, rendono conto solamente alle lobby economico-finanziarie da cui sono stati scelti. Lobbyche, peraltro, determinano pure le politiche economiche e sociali (v. controriforme delle pensioni, del lavoro e dell’assistenza pubblica) delle grandi coalizioni insediatesi – e non è casualità - in mezza Europa. Una cosa è chiara a chi scrive: questa struttura non è riformabile, perché è sorta (probabilmente) e si è sviluppata (senz’alcun dubbio) per perseguire un interesse che, anziché collettivo, è particolare, egoistico, di classe.
Oggidì l’Europa è la “prigione dei popoli” – una prigione in cui masse crescenti di diseredati (il 90% almeno dei cittadini, forse più) sono destinate a languire, sfacchinando in cambio di un’elemosina a beneficio di un’elite che ha appreso alla perfezione le regole della lotta di classe.
Chi ama sinceramente l’Europa, le sue conquiste e la sua cultura, deve adoperarsi a edificarne una nuova, prima che gli effetti di Fiscal Compact, Redemption Fund e altre diavolerie ci precipitino nella disperazione di un incubo senza fine, annunciato oramai da segni visibili anche a chi rifiuta di guardare in faccia la realtà, sperando – sciocca illusione – che anche lei volga lo sguardo altrove.
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