di Carlo Felici
L'atto dimissionario del pontefice della chiesa romana cattolica, o meglio, come si addice nel linguaggio che riguarda non solo un papa, ma anche un re, come di fatto egli è, anche se in maniera elettiva, la sua abdicazione, non ci interessa tanto per i suoi precedenti o per la sua specificità, ma di più per riflettere sullo stesso operato di Benedetto XVI.
In particolare, cercheremo di ripercorrere alcuni elementi della sua peculiarità dottrinale, arrivando a quello che ci appare come il cuore del suo messaggio.
Per capire bene l’intento che sta alla base del significato dottrinale delle encicliche di questo pontefice, bisogna prendere in considerazione la coerenza dell’operato e degli scritti di questo Papa
Non vi
è nulla di nuovo infatti nelle sue recenti posizioni, o in quelle
messe in atto durante il suo pontificato, che ribadiscono per altro
dei principi già noti e più volte resi pubblici nei
precedenti documenti ufficiali della Chiesa Cattolica.
Quel
che a molti pare dunque un irrigidimento ed un ritorno indietro, è
invece, dal punto di vista di Joseph Ratzinger, la diretta
espressione di una continuità di fede e di pensiero già esplicitata
fin dai suoi primi scritti.
La sua
concezione della fraternità cristiana è ben nota già da uno dei
suoi primi libri del 1958, e che reca appunto il medesimo titolo: “La
fraternità cristiana.”
Egli
vede la fraternità cristiana estrinsecarsi soprattutto nella
comunità degli apostoli, piuttosto che nelle folle che seguirono
Gesù e alle quali fu rivolto il suo insegnamento. Essa dunque si
esprime nella fede e nell’operato di “pochi” al servizio di
molti.
Egli
dice esplicitamente nel suo scritto: “Stando alle parole
del Signore i discepoli di Gesù rimarranno sempre “pochi” e si
contrapporranno come tali alla massa, ai “molti” così come Gesù,
l’uno, sta di fronte ai molti, vale a dire a tutta l’umanità”
Pochi
son quelli che attraversano la porta stretta (Mt. 7,14). Pochi sono
eletti (Mt.22,14) Piccolo è il gregge (Lc.12,32).
E’
vano dunque attendersi da questo Papa, che è così fermo nei suoi
principi dottrinali, una sorta di evangelismo delle masse, che si
badi, non era proprio nemmeno del precedente, poiché i riferimenti
in fondo erano gli stessi, ma non invece il modo di esprimerli.
La
stessa concezione dei due pontefici si può intendere nel rapporto
dei pochi verso i molti e cioè nel servizio e nella testimonianza
che il piccolo gregge dà ai molti che costituiscono le masse.
Però,
mentre Giovanni Paolo II enfatizzava l’apertura ai molti, Benedetto
XVI tende invece ad enfatizzare la purezza dei pochi, senza la quale
non ci si può rivolgere ai molti, anzi si rischia di essere quasi
contaminati da loro. E ciò è particolarmente vero in un contesto in
cui i molti sono rappresentati dai mezzi di comunicazione di massa, i
quali non fanno che accentuare la loro appartenenza ad un mondo
rispetto al quale il cristiano non deve ritenersi posseduto
Ecco,
io credo proprio che il cuore della spinta evangelica di questo Papa
vada ricercato nella cura di rendere i pochi esenti dal rischio
dell’appartenenza ad un mondo che sembra sempre più orientato
verso una sorta di globalizzazione del pensiero unico mediatico.
Ciò è
un rischio ed una grande sfida allo stesso tempo che torna a
riproporci, a distanza di millenni, l’interrogativo sul perché i
pochi abbiano a poco, a poco, convertito i molti, fino ad imporsi
come guide.
E qui
evidentemente torniamo all’origine di tutto e cioè alla croce,
essa sola infatti resta il tramite trai pochi ed i molti, essa stessa
è la porta stretta; allora come oggi, senza di essa, i pochi restano
pochi ed i molti restano molti, indifferenti ed incommensurabili,
però, gli uni agli altri. Senza di essa, la Chiesa sarebbe rimasta
sempre una sorta di setta come tante se ne sono viste avvicendarsi ed
anche permanere nei secoli, rigidamente endoteriche.
Ma la
Chiesa, ecco il punto, porta ancora la sua croce? I pochi sono ancora
quelli che si immolarono al seguito di Gesù, per rendergli
testimonianza?
Certamente
sì, anche se non sono loro però in molti casi a rivolgersi ai
tanti, anzi quelli che lo fanno, che veramente si immolano,
o trascorrono la loro vita nelle comunità crisitane di
base, passano quasi inosservati e nascosti, persino da quei
pochi che vorrebbero rivolgere la loro dottrina ai molti.
La
loro santità resta misconosciuta come vediamo per esempio nel caso
del vescovo Romero.
I
pochi che si rivolgono ai molti solo nelle parrocchie, restano
nella maggior parte dei casi confinatì nel loro piccolo "recinto",
e non vanno in mezzo ai molti, e dei molti condividono poco o niente.
Giovanni
Paolo II ha preferito collocarsi tra quei pochi che sono sempre
stati in mezzo ai molti, anzi i molti li ha cercati fin all’ultimo
respiro, con una corrispondenza indissolubile tra popolo e suo
“pastore” che ha reso necessaria e inevitabile la sua
sovraesposizione, fino alla consunzione finale, metafora di una
croce, dai profondi chiodi mediatici
Ecco
Benedetto XVI ci è sembrato piuttosto rivolgersi ai molti, pur
restando sempre tra i pochi e quindi inevitabilmente si è esposto ad
essere meno efficace nella sua testimonianza, almeno sul piano
mediatico, anche se, su quello filosofico e teologico, sarà
solo la storia a dire quanto e come avrà potuto incidere nel cammino
millenario della chiesa cattolica. Ma una vera testimonianza può
limitarsi ad essere filosofica o mediatica?
Eppure
egli scrive ne “La fraternità cristiana”: “Proprio
quando è chiamata a soffrire per gli altri la Chiesa adempie la sua
missione più intima, vale a dire lo scambio di destino con il
fratello errante e ottiene così la sua nascosta riammissione nella
figliolanza piena e nella piena fraternità”
Quanti
sono infine quei pochi che ribadiscono con fermezza i principi
dottrinali, e non con la sicumera del giusto, quanto piuttosto con la
sofferta condivisione del cireneo?
Pochi?
In realtà non lo sappiamo bene perché essi rischiano di essere,
almeno nella concreta e visibile testimonianza, ancor meno, sempre di
meno, tanto da risultare quasi invisibili.
Specialmente
se si sa già a priori che i pochi non diventeranno mai molti, anche
perché forse fa comodo che non siano granello di senape destinato a
fruttificare, ma piuttosto piccolo ovile di un recinto dove le pecore
sono già scappate e non è possibile riprenderle. E quindi è meglio
che quelle rimaste restino lì, poche ma buone, a belare di saggezza
ai tanti che restano fuori, a costringerli a seguire il loro belato,
ma a distanza e senza raggiungerle mai.
Questo
però può essere il passaggio più subdolo ed efficace della vera
scristianizzazione
Perché
il numero, nella concezione di questo papa abdicante, non conta mai
veramente nella Chiesa “in base al suo numero esteriore essa non
sarà mai pienamente cattolica, cioè non abbraccerà mai tutti, ma
rimarrà in fondo piccolo gregge e lo rimarrà addirittura in misura
maggiore di quanto la statistica lasci presagire, perché la
statistica mente, quando cataloga come fratelli molti che in realtà
sono semplicemente pseudoàdelphoi, cristiani solo di nome e in
apparenza. Ma nella sua sofferenza e nel suo amore essa continua a
stare sempre per i “molti”, per tutti. Nel suo amore e nel suo
patire essa supera tutti i confini ed è veramente
cattolica” (Ratzinger: La fratellanza cristiana)
Possiamo
dunque supporre come il testo di questo pontefice lascia intendere,
che ci siano “falsi fratelli”, ovvero coloro che non sono
conformi pienamente alla dottrina della chiesa cattolica? O non è
vero forse che i veri “fratelli nella fede” sono solo coloro che
continuano un cammino di “metànoia”, di rovesciamento cioè
della dimensione della “pochezza” di un vivere conformi a
dettami, dottrine e catechismi, in nome di una concreta e oblativa
capacità di accogliere l'altro nella sua immediatezza e specificità?
Per essere cioè con l'altro “nel mondo” e non “del mondo”
Un
mondo che, nella sua concupiscenza diabolica, può assumere le vesti
del gran seduttore mediatico o anche quelle di una saggezza
dottrinale calata dall'alto, magari assai ammirabile sul piano della
“mondanità accademica”, ma assai povera e del tutto incapace di
coprire situazioni spesso assai più meschine e corrotte, che non si
superano certo né con le denunce e tanto meno con il rinnovamento
gerarchico, ma con la pura, semplice e trasparente testimonianza.
Essa è
sempre “apertura”, è quell' “effatà” che si disvela
veritativamente nell'accoglienza dell'altro, fino al “supremamente
Altro”, perché il cammino cristiano non è una salita ascetica a
vette supreme, ma piuttosto una “kènosis”, uno spogliamento
progressivo di tutte le sovrastrutture mentali, materiali e
soprattutto dottrinali, che incrostano la nostra psiche e il nostro
agire. Solo così, l'agàpe diventa amore condiviso e al tempo stesso
pienezza del vivere, solo così la Resurrezione acquisisce, dopo
quella Croce che si configura nell'assumere su di sé un destino che
non è solo nostro ma anche quello che ci viene incontro con la
prossimìa, specialmente del più povero e sofferente, la fisionomia
della piena potenziazione della nostra capacità di essere pienamente
umani, poiché totalmente disvelati alla meraviglia dell'infinito e
dell'eternamente Altro.
Auguriamo
quindi a questo papa che la sua "rinuncia" corrisponda
a questa "kènosis"
Ma
ecco dunque svelato il motivo vero per cui, nonostante i suoi
sforzi, la Chiesa non arriva più tanto al cuore della gente, non
viene capita nei suoi sforzi di evangelizzare con un amore esigente;
il motivo è che non soffre e non ama abbastanza e “La
messe è molta ma gli operai sono pochi…”
Che
fare è nel seguito: “…pregate perciò il padrone della
messe che mandi operai alla sua messe”
Operai
capaci di amare, soffrire e soprattutto condividere.
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