Una rivoluzione “contro” Marx?
Dal “lavoratore collettivo
cooperativo” al partito-avanguardia.
di PASQUALE SETOLA
Il
soggetto della transizione in Marx.
Karl
Marx (come Friedrich Engels)[1] nutriva la convinzione che la rivoluzione comunista si sarebbe imposta inizialmente
nei paesi a più avanzato sviluppo capitalistico (Inghilterra,
Germania, ecc.)[2], dove sarebbero esplose con forza le
contraddizioni insite al modo di produzione capitalistico ― che da un lato
produce la socializzazione delle forze produttive, e dall’altro le assoggetta
alle istanze della valorizzazione del capitale ―, e quindi si sarebbe
diffusa al resto del mondo. Sarebbero
state le stesse forze produttive che il capitalismo, per valorizzarsi al
massimo, crea, a costituire i suoi
“affossatori” storici, ossia
il “soggetto rivoluzionario della trasformazione anticapitalistica”. Ma, qual
era, per Marx, questo “soggetto rivoluzionario anticapitalistico” strutturale che aveva in sé, nella sua essenza sociale, la capacità di
superamento del capitalismo?
Come è ampiamente noto, tale soggetto era identificato dalla
teoria classica “marxista” (marxista e non marxiana, poiché furono Engels e
Karl Kautsky a sistematizzare il primo paradigma teorico marxista negli anni
1875-1895, cosa che Marx non fece mai) nella classe operaia salariata, che, a
sua volta, era identificata con la classe proletaria generale. Per quanto
riguarda il pensiero originale di Marx, invece, le cose erano alquanto diverse.
Nell’elaborazione marxiana, nel Manifesto del Partito
Comunista (1848), scritto insieme ad Engels, e anche in altre opere
successive, il
“soggetto rivoluzionario” era effettivamente la
classe proletaria, operaia e salariata [3], composta dai lavoratori manuali, e
in particolare quelli della grande industria. Si prevedeva una sempre maggiore
crescita del proletariato di fabbrica, con una tendenziale scissione della
società in due grandi classi antagonistiche, la Borghesia e, appunto, il Proletariato,
con quest’ultima classe destinata a diventare sempre più numerosa anche a causa
della crescente proletarizzazione dei “ceti medi”. Lo sviluppo del modo di
produzione capitalistico ad un certo punto avrebbe prodotto, da un lato, la
centralizzazione nelle mani di pochi capitalisti della proprietà dei mezzi di
produzione, e, dall’altro, la forte estensione della classe proletaria, operaia
e salariata, contraddistinta al suo interno da condizioni di lavoro e di vita
sempre più simili tra i suoi componenti, che sviluppavano una comune “coscienza
sociale” (si formava una “classe in sé e per sé”). In tal modo, il capitalismo
avrebbe creato esso stesso le condizioni per la sua trasformazione
rivoluzionaria e la transizione al comunismo. In realtà, sul piano storico-empirico
non si è concretata la prevista proletarizzazione dei cosiddetti “ceti medi”,
ma, vi è stata, invece, una sempre maggiore estensione di questi ceti, mentre
la classe proletaria, operaia e salariata, seppur maggioritaria nella società,
non sarebbe mai potuta diventare la classe universale capace di rappresentare
gli interessi generali della società, e questo proprio a causa della posizione
subordinata che essa occupa all’interno del processo lavorativo, che le
impedisce di acquisire una visione critica complessiva della riproduzione
sociale capitalistica.
A
partire almeno dal 1867 (il Capitale), per Marx, il “soggetto rivoluzionario
anticapitalistico” non era più la classe proletaria, operaia e salariata, ma
era invece il “lavoratore collettivo cooperativo” (secondo la formulazione
dello studioso di formazione marxista Gianfranco La Grassa), che andava dal
direttore di fabbrica all’ultimo manovale [4], e che si sarebbe alleato
con le potenze mentali generate dalla grande produzione capitalistica, da Marx
indicate con il termine inglese di "general intellect". In
questo soggetto si realizzava la ricomposizione (a livello collettivo e non più
individuale come nel vecchio artigiano) tra direzione ed esecuzione, tra
potenze mentali della produzione e lavoro manuale; un soggetto che, de facto,
rappresentava la stragrande maggioranza della società, a fronte di un pugno di
proprietari, ormai allontanatisi sempre più dai processi produttivi, fino a
divenire dei semplici rentier. Era questo [5] il “soggetto rivoluzionario
anticapitalistico” ― di cui la classe proletaria, operaia e salariata
rappresentava solo l’avanguardia politicamente organizzabile [6] ― che avrebbe espropriato i
capitalisti, per sostituirli alla guida di quello stesso sistema industriale
avanzato [7] che il capitalismo aveva messo in
moto, e attuare così la transizione ad un modo di produzione comunistico,
basato sull’appropriazione sociale (ed il controllo) delle condizioni della produzione [8].
Scriveva Marx: “Il monopolio del capitale diventa un vincolo del modo
di produzione, che è sbocciato insieme ad esso e sotto di esso. La
centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro
raggiungono un punto in cui diventano incompatibili col loro involucro
capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l’ultima ora della proprietà
privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati.”[9]
Le
forze produttive, potenzialmente in grado di arricchire tutta la società,
costrette nei rapporti capitalistici determinavano invece ondate di povertà e
miseria per buona parte dei suoi membri. Le forze produttive sociali perciò
reclamavano rapporti di produzione tra gli uomini corrispondenti a questo loro
carattere, reclamavano cioè l’abolizione della proprietà privata da parte del
capitalista e l’appropriazione da parte della società dei produttori. Questo
compito doveva essere assolto dalla rivoluzione comunista. La riappropriazione
del controllo dei mezzi di produzione, da parte dell’intero corpo lavorativo,
avrebbe messo in moto il processo di rivoluzionamento e la trasformazione
radicale del capitalismo. Si sarebbe concretato, in tal modo, “il movimento
reale che abolisce lo stato di cose presente”. In ogni caso, per Marx, la
transizione al comunismo era un fenomeno essenzialmente sociale, e solo in via
subordinata politico-statuale.
Nella Critica al programma di Gotha, scritta nel 1875, alla
vigilia del congresso di unificazione della socialdemocrazia tedesca, Marx,
attualizzando, perfezionando e calibrando le intuizioni già espresse in suoi scritti
precedenti, indicava alcuni elementi della futura società comunista. In questo
testo, Marx indicava anche i limiti della sovranità giuridico-politica borghese
e della forma della repubblica democratica. Una democrazia limitata nel
ristretto quadro dello sfruttamento capitalistico, e, quindi, una democrazia
per la minoranza, per le sole classi possidenti. Secondo Marx, bisognava
confermare il passaggio necessario, il periodo politico di transizione, tra
Stato democratico rappresentativo e società comunista, in cui si sarebbe
realizzata una trasformazione globale della società, e in questo periodo politico di transizione lo Stato non poteva
essere altro che la “dittatura rivoluzionaria del proletariato”. Una volta
compiuta la transizione alla società comunista, quando i capitalisti sarebbero
scomparsi, e con loro anche la divisione in classi, lo Stato, in quanto
espressione della classe dominante, si sarebbe “estinto” (rimaneva, però,
indeterminato il momento in cui sarebbe avvenuta questa estinzione, né era
indicato l’organismo al quale dovevano essere trasferite le funzioni esercitate
dall’apparato statale, e se e in quale misura esse dovevano ancora sussistere),
e si sarebbe attuata una democrazia veramente completa. Marx distingueva la
società comunista come si sarebbe sviluppata sulla propria base dalla società
comunista come sarebbe emersa dalla vecchia società, di cui recava ancora
le “macchie”. Nella prima fase del
comunismo (che solo dal marxismo successivo era indicata come fase socialista),
il produttore singolo avrebbe ricevuto esattamente ciò che dava; quindi, si
affermava una piena proporzionalità tra il compenso ottenuto dai produttori e
le loro prestazioni di lavoro. Nella fase più avanzata del comunismo, invece,
il quadro mutava: scompariva il contrasto tra lavoro manuale e intellettuale, e
con esso l’asservimento degli individui alla divisione del lavoro; il lavoro
non serviva più solo alla riproduzione sociale ma diventava il “primo bisogno
di vita”; lo sviluppo onnilaterale degli individui portava a un tale incremento
della produzione e della ricchezza sociale che era possibile superare la stessa
misurazione dei prodotti in lavoro (la legge del valore). In queste nuove
condizioni, la società poteva sostituire al principio della prestazione di
lavoro obbligatoria quello che richiedeva a ognuno di fornire un contributo
secondo le sue capacità e assegnare a ciascuno secondo i suoi bisogni [10].
Kautsky: dalla rivoluzione all’integrazione.
Mentre, sul piano empirico, il processo capitalistico non
conduceva per nulla nella direzione del “lavoratore collettivo cooperativo”, e
in Europa sembrava allontanarsi la
prospettiva rivoluzionaria [11], il movimento operaio e
socialista [12], costituitosi in partiti
e sindacati, e in forte ascesa soprattutto in Germania (nel 1875, al congresso di Gotha,
nasceva il partito operaio socialdemocratico tedesco, che unificava socialisti
marxisti e lassalliani) [13], abbracciava una
“politica del doppio binario”, basata sulla rivendicazione parziale, sul
tentativo di assicurarsi vantaggi all’interno della società esistente e nello
stesso tempo nel mantenere la prospettiva e la speranza rivoluzionaria (che col
tempo sarebbe diventato un richiamo sempre più formale). L’obiettivo, quindi,
diventava quello di cambiare lo Stato borghese dall’interno, sfruttando le
possibilità offerte dal suffragio universale. Si pensava, de facto, a
una transizione “pacifica” [14] al comunismo, oramai
denominato socialismo (termine che godeva di una maggiore accettabilità,
evocando semplicemente l’immagine positiva della costruzione di una nuova
società, mentre il concetto di comunismo, a partire dagli anni Cinquanta, era
divenuto in Germania sinonimo di rovesciamento rivoluzionario), da ottenersi
mediante la conquista del potere politico, per via di maggioranze elettorali e
parlamentari. Dominava la tesi che, in una società altamente
industrializzata, la maggioranza degli elettori alla fine sarebbe stata
costituita da lavoratori dell’industria, che avrebbero sicuramente votato per
il partito che ne rappresentava gli interessi, cioè il partito socialista. Il
partito, una volta conquistato il potere politico, poteva effettuare il
passaggio al socialismo mediante provvedimenti legislativi come la
nazionalizzazione dell’industria e della terra, l’istituzione di un sistema
fiscale severamente progressivo e simili. Quindi, se Marx “preconizzava” la
proprietà “collettiva” dei produttori liberamente associati, utilizzanti i mezzi produttivi in comune, e, inoltre, la
graduale estinzione dello Stato, la linea perseguita dai “socialdemocratici”
era invece quella di accentrare nelle mani dello Stato gli strumenti di
controllo economico, togliendoli dalle mani dei capitalisti privati. Dunque, si imponeva la concezione del
socialismo come proprietà statale dei mezzi produttivi.
Teoria
di riferimento del movimento socialista diveniva il paradigma “marxista”
elaborato prima da Engels e poi da Kautsky (detto anche il “papa” rosso), che
trasformavano in un sistema dottrinario chiuso il “cantiere aperto” di Marx,
che si caratterizzava come “work in progress” in cui le categorie
concettuali erano continuamente messe alla prova e ridefinite. La critica
marxiana era, alla fine, capovolta in visione “marxista” del mondo. Con
Kautsky, in particolare, il “marxismo”, oltre a subire una torsione
“economicistica” (ritenendo centrale lo sviluppo delle forze produttive),
diventava una vera e propria teoria evoluzionistica della società, che considerava la fine del capitalismo e la transizione alla
società socialista come l’esito inevitabile della storia, intendendo questa
transizione non come il frutto di una rivoluzione incentrata sulla violenza, ma
piuttosto come il naturale esito di un’evoluzione graduale e necessaria. Il
risultato finale era rappresentato ― e non poteva essere diversamente ― da un
processo di progressiva incorporazione strutturale della “socialdemocrazia”
negli apparati dello Stato borghese-capitalistico.
Per
quanto riguarda l’oggetto principale di questo breve scritto, e cioè il
“soggetto della transizione anticapitalistica“, il “marxismo” faceva “sparire”
letteralmente dalle pagine di Marx il “lavoratore collettivo cooperativo”,
l’autentico soggetto marxiano della rivoluzione (per Marx solo supporto storico
materiale possibile della produzione e distribuzione comunista [15], senza cui si sfociava
inevitabilmente nello statalismo), per sostituirlo con la classe proletaria,
operaia e salariata, ritenuta titolare di una sovranità assoluta, attribuitale
dall’oggettualità della storia, in quanto unico e legittimo soggetto della
trasformazione rivoluzionaria della società capitalista in società socialista.
Compito del partito era unicamente quello di rappresentarla, garantendo che il
suo progressivo avanzamento non fosse ostacolato dalle provocazioni degli
opposti estremismi [16]. Purtroppo, la storia di oltre un
secolo ha ampiamente dimostrato che la classe proletaria, operaia e salariata è
strutturalmente incapace di condurre una transizione intermodale ad altra forma
societaria, e tende, anzi, ad una sempre maggiore integrazione nei meccanismi
della riproduzione capitalistica.
All’interno
del movimento socialista, divenuto ormai riformista e gradualista, tra la
seconda metà dell’800 e l’inizio del ‘900 operavano, comunque, anche dei
socialisti rivoluzionari, che vedevano nella immediata abolizione della
proprietà privata dei mezzi di produzione l’obiettivo primario del socialismo,
da conseguire non certo per via elettorale (la via parlamentare, chiamata, con
disprezzo, “parlamentarismo”), ritenuta un via lunga e comunque impraticabile
(“la democrazia borghese non permetterà mai ai proletari di vincere”), ma
attraverso l’insurrezione e la rottura rivoluzionaria. Il contrasto tra
rivoluzionari e riformisti caratterizzava più o meno tutti i partiti
socialisti e
socialdemocratici (uniti fino al 1914 nella Seconda Internazionale),
accentuandosi dopo la “Prima guerra mondiale” (l’immane massacro) e con lo
scoppio della “rivoluzione russa” nell’ottobre 1917. La “socialdemocrazia”, che
nel 1914 abbandonava la propria bandiera per seguire quella del nazionalismo
imperialistico, lasciava il campo al bolscevismo rivoluzionario.
Il
cambio di paradigma di Lenin.
Nel
1917 in Russia (un Paese che si trovava in condizioni disperate, a causa della
guerra in cui era stato trascinato dallo zar Nicola II nel 1914) non c’era
nessuna delle condizioni indicate da Marx o dal “marxismo” successivo per la
rivoluzione anticapitalista, e cioè il predominio del
proletariato industriale e un apparato produttivo che, nelle mani dei
produttori, poteva non solo cessare lo sfruttamento ma anche guidare la società
oltre i confini del sistema capitalista. Vladimir Ilyich Lenin, che capeggiava la frazione
“bolscevica” dei socialdemocratici russi,
era pienamente consapevole che la rivoluzione, così come prospettata da Marx
nei paesi industrializzati, in Russia non era possibile. Egli teorizzava che, essendo entrato il capitalismo nella sua
fase imperialistica (da lui definita “fase suprema” del capitalismo), con una
progressiva concentrazione monopolistica della produzione, la crisi della
libera concorrenza e il predominio del capitale finanziario, sarebbero
inevitabilmente scoppiate continue crisi e conflitti; da cui la necessità di
una forzatura politica rivoluzionaria, da perseguire non necessariamente dove
il capitalismo era più sviluppato. Il capitalismo operava, ormai, su
scala mondiale e per provocarne il crollo il socialismo rivoluzionario doveva
anch’esso acquisire dimensioni mondiali, e quindi non limitarsi ad essere
attivo nei soli paesi che, secondo la concezione “marxista” classica,
risultavano maturi per il passaggio al “socialismo” (da Lenin identificato con
la prima fase della società comunista). Quindi, i rivoluzionari dovevano
cogliere ogni occasione che gli si presentava per rovesciare il capitalismo,
anche se ciò significava l’impossibilità di istituire immediatamente una
“società socialista”[17]. Il “marxismo morente”
della Seconda Internazionale veniva così rimpiazzato dal “marxismo vivente”
prodotto dall’elaborazione teorica e dalla prassi politica leninista, e la
particolare interpretazione che Lenin dava del “marxismo” (Lenin, pur senza esserne
pienamente consapevole, aveva edificato un’altra teoria, diversa da quella di
Marx e del marxismo successivo) sarebbe divenuta in seguito quella dominante anche
nei punti più alti del capitalismo. Il “soggetto rivoluzionario
anticapitalista” leninista era il partito bolscevico, organizzazione di quadri
rivoluzionari che facevano coscientemente della rivoluzione lo scopo e
l’attività prioritaria della loro vita, i cui rapporti erano
regolati da una rigida disciplina che subordinava tutti i militanti alle
decisioni della maggioranza e che avrebbe assunto il nome di “centralismo
democratico”. Tale soggetto doveva essere considerato l’espressione consapevole degli interessi
della classe proletaria, operaia e salariata che, secondo il
rivoluzionario russo, se lasciata a se stessa, poteva al massimo raggiungere
una coscienza economica, “tradeunionistica”, non certo rivoluzionaria, e pertanto compito dei “marxisti rivoluzionari”
era quello di portare nella classe operaia “dall’esterno” la coscienza
comunista tramite il loro intervento. De facto, il partito finiva per
sostituire la classe come soggetto rivoluzionario. Nel febbraio 1917 crollava
lo zarismo e vi era la formazione di una “repubblica democratica”. Lenin, vista la
debolezza dei governi provvisori, e le divisioni e l’immobilismo di menscevichi
(gradualisti) e socialrivoluzionari, “costringeva” i bolscevichi (i cui
dirigenti, nella quasi totalità, erano contrari all’insurrezione) a forzare
militarmente la situazione per raccogliere il malcontento delle masse russe (in
particolare di settori operai e dell’esercito che reclamavano la fine della
guerra), e così portava al potere i bolscevichi, che pure erano in minoranza
sia nei soviet (consigli) che nel Paese; riusciva, in tal modo, a portare la Russia fuori dal bagno
di sangue della “Prima guerra mondiale”. Lenin pensava che questa rivoluzione,
che non era una rivoluzione sociale mossa contro un vero Stato capitalista, ma
una rivoluzione contro un’autocrazia semifeudale, avrebbe acceso la scintilla
di un processo rivoluzionario che doveva allargarsi ai paesi industriali più
avanzati, in cui sussistevano le condizioni per la transizione al socialismo (e
quindi al comunismo). Dunque, Mosca doveva essere solo la sede temporanea del
socialismo. Ma, quando appariva chiaro che il processo rivoluzionario non si
innescava nei paesi avanzati, la scelta più razionale sembrava, a quel punto,
essere quella di trasformare un Paese profondamente arretrato in una potenza
industriale moderna, poiché l’instaurazione di un’economia
socialista necessitava di una base industriale avanzata. Il socialismo
diventava così un programma per trasformare un Paese arretrato in un Paese
avanzato e moderno. Era, quindi, il partito
bolscevico (dal 1918 denominato comunista) che doveva compiere,
attraverso lo Stato, la rivoluzione borghese che la esigua borghesia russa non
era stata in grado di fare, e sorgeva, quindi, la necessità di attuare la trasformazione dell’apparato statale ereditato
dal regime zarista. Col tempo, però, il ruolo del partito finiva con l’intrecciarsi sempre più con quello dello Stato, e gli apparati di questa sorta
di partito-Stato estendevano il loro potere a tutte le sfere della vita
sociale, trasformandosi per questa via in nuova classe dominante; mentre le
nuove forme di oppressione e sfruttamento erano occultate dal mito statalista
del socialismo. Comunque sia, nel “nuovo” Paese “socialista” (ove c’era la
necessità di costruire un’industria moderna, e di modernizzare l’arretrata
società russa), la trasformazione avveniva, ed era
grandiosa, realizzata in tempi che forse non hanno precedenti nella
storia [18], ma i costi umani erano enormi,
anche a causa dell’instaurarsi del sistema di potere “staliniano” (dopo la morte di Lenin, avvenuta nel 1924, Josif Stalin, grazie
alla sua abilità politica e al ruolo di segretario generale del partito, aveva
assunto progressivamente il potere supremo nel Paese), che praticava la
coercizione e la violenza in dosi massicce. Ma, storicamente, tutte le
rivoluzioni industriali sono avvenute sempre a caro prezzo, da chiunque siano
state condotte (borghesia capitalista o Stato socialista). La domanda che
occorre porsi è se la Russia (poi URSS) sarebbe mai potuta diventare una
moderna potenza industriale, in così poco tempo, attraverso mezzi pacifici e
democratici.
In
questo immenso Paese, la fase di transizione temporale fra capitalismo e
comunismo, in cui doveva trovare attuazione la cosiddetta “dittatura del
proletariato” ― in Marx concepita come dittatura democratica di maggioranze
capaci di autogoverno politico e autogestione economica, e non di un partito
che si autorappresentava come “portatore degli interessi storici della classe
proletaria, operaia e salariata” ―, diveniva invece una lunghissima fase in cui si concretava una
vera e propria “dittatura sul proletariato”. Non era sicuramente questo l’esito
auspicato da Lenin.
La
rivoluzione russa, che ha rappresentato il più grande tentativo storico di
superare i rapporti capitalistici di produzione (ed è proprio questa la
ragione per cui viene demonizzata), e
che ha dato avvio alla nascita di un’inedita formazione sociale durata 74 anni
(alla cui implosione è seguita la transizione a un capitalismo predatorio), non
aveva certo condotto al “comunismo”, se per comunismo intendiamo non
semplicemente la statizzazione dei mezzi di produzione (Marx comunque parlava
di proprietà collettiva, cosa ben diversa), ma anche l’affermazione di una
società complessa, in cui sia garantito lo sviluppo onnilaterale della persona
umana e l’espansione di tutte le libertà [19]. Essa fu effettivamente una
rivoluzione “contro” Marx, o, almeno, contro il Marx del Capitale [20], il teorico del “lavoratore
collettivo cooperativo” (alleato con il “general intellect”), e che
“profetizzava” la rivoluzione nei punti alti dello sviluppo capitalistico, ma
fu sopra ogni cosa una rivoluzione che
trovava la sua legittimazione nel diritto dei popoli e delle classi dominate a
ribellarsi contro l’oppressione e la guerra, un diritto assoluto, che va ben al
di là, quindi, di Marx e del “marxismo”.
NOTE
[1] Engels, sempre considerato
una sorta di “secondo violino” rispetto a Marx, fu pensatore notevolissimo,
capace di intuizioni assolutamente originali.
[2] Nell’ultima fase della sua
vita però questa convinzione sembrava quasi vacillare. Infatti, nel 1881 (due
anni prima di morire), in una lettera indirizzata alla marxista russa Vera
Zasulič, Marx sembrava ammettere la possibilità di una transizione diretta
dalla comune rurale russa al comunismo, saltando la tappa del capitalismo.
[3
Sul piano concettuale Marx identificava il
Proletariato, classe filosofica a cui era affidata la funzione storica di emancipare
l’intera umanità, e la classe economica dei salariati, a cui veniva estorto il
plusvalore.
[4]
Questo soggetto rivoluzionario, storicamente non si è
mai formato, poiché le dinamiche produttive capitalistiche più che cooperazione
creano crescenti divaricazioni, orizzontali e verticali, nel corpo lavorativo.
[5] È filologicamente
dimostrabile che sia stata questa l’autentica teoria marxiana del soggetto
rivoluzionario anticapitalistico.
[7]
Marx aveva una concezione “neutralistica” della
tecnica e della scienza, convinto che solo il loro utilizzo capitalistico le
rendesse strumenti di oppressione.
[8]
Marx era stato piuttosto parco nel
descrivere i caratteri della futura società senza classi. Infatti, mentre nei
suoi lavori aveva dedicato migliaia di pagine alla critica della società
capitalistica, solo poche decine erano quelle nelle quali l’argomento era la
futura società comunista, il suo funzionamento e la sua struttura.
[10] Ferruccio Andolfi, Lavoro
e libertà, Edizioni Diabasis, 2004.
[11]
Nel 1871 c’era stato il tentativo, durato poche
settimane, di autogoverno popolare intrapreso dalla Comune di Parigi, poi
soppresso in un bagno di sangue.
[12]
A partire dalla Prima Internazionale, fondata nel
1864, i partiti operai prendevano la denominazione di socialisti o
socialdemocratici, pur se continuavano ad avere come testo di riferimento il “Manifesto
comunista” di Marx ed Engels.
[13] Marx era molto critico con
la linea politica del partito, ed esprimeva i motivi del suo dissenso nella
nota “Critica al programma di Gotha”.
[14]
In Marx, la tesi prevalente era sicuramente quella
dell’abbattimento violento dello Stato borghese, ma è anche vero che egli
sosteneva anche altre posizioni. Marx, a un certo punto della sua elaborazione
introduceva una distinzione tra l’Europa, in cui la rivoluzione, almeno nella
maggior parte dei paesi, doveva essere necessariamente violenta, poiché in essi
vi operavano apparati burocratici civili e militari oppressivi, e l’Inghilterra
e più in generale il mondo anglosassone, dove in più di un’occasione faceva
intravedere la possibilità di un passaggio legale e pacifico al socialismo, dal
momento che nella società anglosassone si erano formate istituzioni
democratiche.
[15] Costanzo
Preve, La fine dell’URSS, Editrice C.R.T., 1999.
[17]
Lenin, diversamente da Marx,
operava una distinzione tra socialismo e comunismo, identificandoli,
rispettivamente, con la prima e la seconda fase della futura società comunista
preconizzata da Marx. Inoltre, Lenin concepiva l’economia socialista in termini
di proprietà sociale dei mezzi di produzione che, ancora una volta diversamente
da Marx (che parlava in termini di proprietà collettiva), egli identificava con
la proprietà statale.
[20] Antonio Gramsci scriveva un
acutissimo articolo sulla rivoluzione russa, intitolandolo “La rivoluzione
contro il Capitale”, intendendo per Capitale l’opera di Marx.
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