BERGAMO, 2 FEBBRAIO: RELAZIONE INTRODUTTIVA
di
Norberto Fragiacomo
Parlare, oggidì, di diritto del lavoro significa tornare indietro nel tempo,
rimpiangere una perduta età dell’oro, riesumare una civiltà scomparsa.
Se intendiamo questa branca dell’ordinamento
come una semplice congerie di norme ci tocca concludere che, formalmente, la
disciplina esiste ancora; se invece guardiamo alla sostanza, e identifichiamo
il diritto del lavoro in un complesso di tutele che garantiscono al lavoratore
dipendente un pieno diritto di cittadinanza, dobbiamo tener conto, nel
formulare un giudizio, che dette tutele sono state quasi interamente
smantellate nel corso degli ultimi anni, in ossequio ad un’ideologia ben
precisa – quella liberista.
E’ stato un processo rapido e silenzioso quello
che ha portato alla cancellazione o allo svuotamento di istituti giuridici ideati
nel dopoguerra: ancora nella prima metà degli anni ’90 ben pochi ardivano contestare
la preminenza accordata dall’ordinamento alla contrattazione collettiva nazionale,
la regola del tempo indeterminato, il principio della tutela reale in materia
di licenziamenti ed il divieto di intermediazione nelle
prestazioni di lavoro, sancito dalla legge 1369 del 1960.
Le riforme in
senso proprio degli anni sessanta e settanta non avevano realizzato un
mondo perfetto – residuavano vuoti normativi e disparità di trattamento – ma
andavano nella direzione che reputiamo giusta, quella dell’espansione dei
diritti concessi al cittadino-lavoratore; a partire dall’ultimo decennio del
secolo, tuttavia, sotto la spinta di un’Unione Europea formatasi allo scopo di
favorire gli interessi delle lobby private transnazionali, il legislatore ha
invertito la rotta in modo repentino, ripristinando, passo dopo passo, il
potere assoluto del datore di lavoro sulle maestranze (significativamente
ribattezzate “risorse umane”), ed espellendo da fabbriche e uffici qualsiasi
anelito democratico.
Di questa involuzione reazionaria sono
egualmente responsabili centrodestra e centrosinistra, entrambi eterodiretti da
potenze economiche (e quindi politiche)
che agiscono su scala globale, e che attualmente traggono vantaggio da una
crisi che, attraverso l’imposizione dell’austerità, loro stesse alimentano.
Perché una cosa deve risultare chiara: gli arretramenti vengono accettati
passivamente dalle masse solo se il sistema riesce, da un lato, a distrarre
l’attenzione quotidiana, dall’altro a convincere le classi subordinate del
sussistere di un’emergenza, meglio se permanente, che rende determinate misure
indifferibili. “Abbiamo vissuto al di
sopra delle nostre possibilità” e “i
costi del sistema pensionistico sono ormai insostenibili” sono nient’altro
che messaggi psyops volti a catturare
le menti e a porre psicologicamente l’individuo con le spalle al muro.
Senza rubare troppo tempo agli altri relatori,
vedremo di esaminare, per sommi capi, alcuni episodi normativi, unificati
dall’emergere di una comune finalità; cercheremo poi di sbozzare delle proposte
da sottoporre, ovviamente, a quelle forze politiche e sindacali che sinistri
personaggi in malafede bollano di “conservatorismo” (anche il capovolgimento
del significato delle parole è una tecnica di guerra psicologica) solo perché
si azzardano a discutere i dogmi del credo liberista e a pretendere un minimo,
ma proprio un minimo, di equità sociale.
Merita iniziare questa succinta disamina
proprio dalla legge 1369 prima menzionata, che, nell’articolo 1 (ce n’erano
nove in tutto, brevi e leggibili: anche questo ci dà la misura delle
trasformazioni verificatesi in pochi lustri), fa divieto ai datori di lavoro
pubblici e privati di affidare in appalto a terzi “l’esecuzione di mere
prestazioni di lavoro (anche a cottimo) mediante impiego di manodopera assunta
e retribuita dall’appaltatore o dall’intermediario”. Si ha mera prestazione di
lavoro, precisa il terzo comma, quando “l’appaltatore impieghi capitali,
macchine ed attrezzature fornite dall’appaltante”; tra i possibili intermediari
sono molto opportunamente comprese le società cooperative che, come recente
esperienza insegna, spesso nascondono, sotto la maschera bonaria del
mutualismo, condizioni di sfruttamento esasperato. La sanzione minacciata
appare efficace: i prestatori di lavoro occupati in violazione del divieto sono
considerati, a tutti gli effetti, alle dirette dipendenze dell’imprenditore che
di loro si serva.
E’ evidente quale fosse la ratio sottesa alla previsione normativa: si trattava di combattere
il drammatico fenomeno del caporalato, e di assicurare al dipendente la
possibilità di far valere le proprie legittime pretese nei confronti di un
imprenditore “autentico”, sgombrando il campo da enti e uomini di paglia
sprovvisti, sovente, di mezzi propri.
Il divieto di interposizione, considerato un principio generale del diritto del lavoro,
subisce un primo attacco ad opera della legge 196/1997 (c.d. “Pacchetto Treu”)
che, ai tempi del Governo Prodi, inventa il lavoro interinale, e viene
definitivamente abolito dal decreto legislativo 276/2003, introduttivo (art.
20) del contratto di somministrazione di lavoro.
Per la verità, il “lavoro in affitto” –
largamente sfruttato anche dalle pubbliche amministrazioni – è solo una delle
innumerevoli forme assunte dal precariato: almeno altrettanto
diffuse sono le collaborazioni coordinate e continuative (co.co.co), regolamentate
– come prestazioni a progetto – dal citato decreto 276. Semplificando
all’eccesso, potremmo definire queste tipologie contrattuali “lavoro
senza diritti”, perché abbandonano, di fatto, il lavoratore alla mercé
del padrone, che neppure figura come datore di lavoro.
Questo proliferare di fattispecie atipiche sancisce,
verso la fine del ventesimo secolo, lo sgretolamento di un altro principio
giuslavoristico, quello del rapporto full
time a tempo indeterminato come regola generale, che ammette pochissime e
puntuali eccezioni. Le deroghe cominciano a moltiplicarsi, e ad inizio
millennio l’eccezione è già divenuta regola: il contratto a tempo indeterminato
è sulla strada dell’estinzione. In questo quadro si inserisce la complessa
vicenda dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, normativa che per i suoi
contenuti progressisti rappresenta, agli occhi dei reazionari sparsi tra destra
dichiarata e destra postcomunista, un totem da abbattere. Senza addentrarci in
pleonastiche spiegazioni tecniche, diremo solamente che la c.d. tutela reale consente al dipendente
ingiustamente licenziato di farsi reintegrare dal giudice nel posto di lavoro
oppure di optare, a sua insindacabile scelta,
per un congruo risarcimento economico. La norma presenta almeno due gravi
difetti: il primo è che non si applica alle realtà lavorative con 15 dipendenti
o meno, per le quali esistono previsioni legislative assolutamente
insoddisfacenti; il secondo è che, per quanto riguarda il licenziamento per
giustificato motivo oggettivo (cioè per soppressione del posto,
riorganizzazione aziendale ecc.), il giudicante non può entrare nel merito
della decisione imprenditoriale, dovendo limitarsi ad accertare la rispondenza
al vero di quanto dichiarato dal datore di lavoro. L’articolo 18 ha però un innegabile
pregio: costringe il padrone, a certe condizioni, a sottostare alla volontà dei
suoi dipendenti e, più in generale, pone seri ostacoli al suo strapotere nei
luoghi di lavoro. E’ proprio a causa di questo contenuto democratico, e non certo perché rappresenti un freno agli
investimenti (argomento ridicolo, prima ancora che smentito dai fatti), che la
disposizione è nel mirino delle destre fin dal 2002: allora la mobilitazione
sindacale ne impedì lo scempio, perpetrato, pochi mesi fa, dal Governo Monti
con la complicità del PD di Bersani.
La controriforma Fornero (legge 92/2012)
tipizza e circoscrive le ipotesi di reintegro in caso di licenziamento
ingiustificato, ponendo un tetto massimo – di dodici mensilità – all’indennizzo
spettante al prestatore, su cui grava altresì l’onere di dedicarsi “con
diligenza” alla ricerca di una nuova occupazione; laddove la reintegrazione sia
preclusa, al lavoratore espulso senza giusta causa o giustificato motivo
soggettivo toccherà accontentarsi di una o al massimo due annualità di
stipendio. Se a determinare il recesso è stata invece una scelta aziendale, la
reintegrazione potrà essere disposta solo nell’eventualità di “manifesta
infondatezza del fatto posto a base del licenziamento” – cioè mai, come ammise a suo tempo lo stesso
Mario Monti.
A cosa è servito il restyling normativo di primavera? Di sicuro non ad attrarre investitori
esteri, come testimonia il fatto che, nell’autunno 2012, la disoccupazione in
Italia ha toccato la percentuale record dell’11,1%; molto banalmente, la norma
Fornero ha funzionato come segnale rivolto a imprese e lavoratori, ed
inequivocabile avallo governativo alla condotta autoritaria di Marchionne e dei
suoi emuli piccoli e grandi. Più che una riforma, un manifesto ideologico, che in qualche modo riassume una stagione la
quale, per il diritto del lavoro, rassomiglia all’inverno.
Come si vede, gli interventi susseguitisi negli
ultimi 15-20 anni – che sono molti di più di quelli che abbiamo fuggevolmente
citato - hanno di mira non l’aumento dell’efficienza produttiva, bensì
l’asservimento e l’umiliazione di una classe lavoratrice sempre più debole e
sempre più divisa, dunque disposta ad accettare qualsiasi imposizione
rassegnatamente, senza moti di rivolta. Nonostante gli sproloqui su creatività
e innovazione, la scommessa sulla crescita futura è affidata all’allungamento
degli orari (si pensi alla liberalizzazione delle aperture degli esercizi
commerciali e, prima ancora, al tentativo della Commissione europea di
cancellare di nascosto il limite massimo di 48 ore di lavoro settimanali), alla
riduzione di festività e ferie, alla penalizzazione delle malattie, al blocco
delle retribuzioni sia nel pubblico che nel privato, al ricatto delle
delocalizzazioni aggravato dalla demolizione degli ammortizzatori sociali, ad
un clima intimidatorio nelle aziende e negli uffici che l’esecutivo favorisce
anziché combattere. Si vuole importare non il prodotto, ma la mentalità cinese, prima che nel Paese di
Mezzo gli operai riescano a strappare qualche concessione – e in quest’ottica è
pienamente logico che Sacconi, una presunta tecnica e un paio di sindacati
gialli si accaniscano, con pari determinazione, contro la contrattazione
collettiva nazionale, unica sede in cui le rappresentanze dei lavoratori hanno
un potere contrattuale paragonabile (pur se comunque inferiore) a quello dei
datori di lavoro.
C’è poco da illudersi: stimati manager non
hanno vergogna a invocare un giorno in più di lavoro settimanale a parità di
salario, e chiunque arrivi al governo intossicato dall’ideologia liberista – si
chiami Monti, Berlusconi o Bersani – farà del suo meglio per compiacerli.
Cosa possiamo fare noi, come Sinistra?
Anzitutto dobbiamo redigere un programma démodée, che parli di potenziamento
della contrattazione collettiva, ampliamento dei diritti e ripudio delle
controriforme. Non basta però abrogare l’articolo 8 o la legge Fornero: i
vecchi istituti vanno rivitalizzati, non meramente dissepolti. L’articolo 18,
ad esempio, deve essere esteso alle piccole imprese; sempre ricollegandoci a
quanto affermato sul punto, le scelte in materia di riorganizzazione aziendale
ecc. non possono essere affidate all’arbitrio dell’imprenditore, ma è opportuno
che siano sottoposte al vaglio dei rappresentanti dei lavoratori e di
funzionari competenti. Un tanto implica, a sua volta, meccanismi di cogestione
degli stabilimenti produttivi, primo passo verso la loro socializzazione, e
l’avvio della programmazione economica su vasta scala: effetti a catena dunque,
poiché tutela del lavoro, welfare, democrazia ed organizzazione dello Stato
sono vasi tra loro comunicanti.
E’ scontato che i poteri nazionali, europei e
mondiali scatenerebbero una violenta persecuzione contro simili eresie, ove
queste – evadendo da sottoscala carbonari – incontrassero il favore popolare: invero,
se si rimane prigionieri della ragnatela liberalcapitalista, nemmeno piccole
battaglie di retroguardia avranno speranza di successo.
Per salvarci, abbiamo l’onere di mettere in
discussione il sistema, e scuoterlo dalle fondamenta.
Forse, se un Paese delle dimensioni dell’Italia
condizionasse il suo indispensabile contributo economico all’Unione Europea ad
una sua effettiva democratizzazione (sottoposizione della Commissione al Parlamento,
unificazione del diritto del lavoro e di quello tributario ecc.), si potrebbe
conseguire qualche risultato positivo; ma è inutile, qui e ora, avventurarci in
terra incognita.
In chiusura, ribadiamo un solo concetto – l’erosione delle tutele giuslavoristiche è
destinata a proseguire, perché è resa obbligata, al pari della soppressione del
welfare, dallo sviluppo della società in senso autoritario/privatistico – prima
di cedere volentieri la parola ai relatori, che avranno modo e agio di scendere
nei dettagli.
Grazie.
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