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mercoledì 13 marzo 2013

SOCIALISMO E COMUNISMO: DICOTOMIA O ENDIADI? di Norberto Fragiacomo





SOCIALISMO E COMUNISMO: DICOTOMIA O ENDIADI?
di
Norberto Fragiacomo


Parto da un ricordo personale, ormai sbiadito, per introdurre una questione che interessa a una minoranza di connazionali: quella del rapporto (conflittuale, a giudicare da certi scambi di “gentilezze” sui social network) tra socialismo e comunismo. Metà anni ’80: seduto a un banchetto di scuola media, sono alle prese con un tema in classe di italiano. Non rammento il titolo; ma ad un certo punto, nell’aula che guardava ai platani di viale XX Settembre, mi trovai a tratteggiare i lineamenti della società ideale. Parlai di egualitarismo, giusta suddivisione dei beni, meriti da premiare non tanto con il soldo, quanto con maggiori responsabilità – e verso la fine del componimento mi chiesi, provocatoriamente: “è comunismo, questo?” “Niente affatto”, scrissi, rispondendo a me stesso, “questo è Socialismo” (con la maiuscola, credo, ma è roba di quasi trent’anni fa, magari l’autocitazione è imprecisa).
L’enfatica distinzione fatta da un fanciullo tredicenne rivive oggi, quotidianamente, nei reciproci anatemi lanciati da parabalani dell’una e dell’altra “scuola” con sicumera da parrocchetti: al posto di una feconda dialettica, offese assortite. Come si è giunti a questo? interrogo il me stesso di allora. Semplice, sentenzia il saputello: il Socialismo è pacifico e democratico, mentre il comunismo russo è una spietata dittatura espansionista; inoltre, dove governano i comunisti la gente è povera, lavora male e fa le file per comprare da mangiare, mentre sotto il Socialismo stanno tutti abbastanza bene, la persona capace viene lodata e l’infingardo rimproverato (o bocciato). Gratta gratta, emerge il peccato originale di Lenin: costringere la gente a vivere ammassata nei komunalka, gli alloggi comuni, è una porcheria. In estrema sintesi: benessere, pace e democrazia da una parte, povertà, violenza e tirannide dall’altra.
Sentire oggi individui che si presumono adulti replicare il mio manicheismo di allora, con la provvidenziale aggiunta della Corea del Nord bombarola, fa un certo effetto, ed offre spunti per un’indagine da svolgere, si spera, in un prossimo futuro. Stavolta mi contenterò di imbastire un rapido excursus propedeutico, affidato alla memoria traballante e perciò senza l’ausilio di note e virgolettati: chiedo venia in anticipo per approssimazioni, lacune ed errori.

Iniziamo dalle parole, pescate nel latinorum appreso al liceo, e in pochi anni dimenticato (la vita è una sequela di sforzi a vuoto). “Socialismus” era un termine sconosciuto agli antichi romani, che vivevano però in una societas di uomini liberi e avevano, tra i popoli vicini, dei socii, cioè degli alleati. Comunismo deriva invece da communio, comunione di beni: non a caso, in diritto, il comproprietario di una res (suddivisa, se non altrimenti stabilito, in parti eguali) viene definito anche “comunista”. Da un lato, quindi, un’alleanza di esseri umani (sottolineatura dell’elemento soggettivo); dall’altro, la sussistenza di un diritto, tendenzialmente paritario, su cose (elemento oggettivo) – senza peraltro scordare che la società commerciale è nient’altro che una comunione di beni produttivi. Ad ogni modo, comunismo e socialismo hanno di latino solo la radice linguistica, malgrado la rivolta di Spartaco (I° sec. a. C.) ci mostri come il sogno dell’egualitarismo nasca con l’uomo.
La comunanza dei beni, con connesso ripudio “ideologico” della proprietà individuale, è caratteristica delle comunità cristiane delle origini; quando però la Chiesa approfondisce le radici e si organizza, essa viene confinata entro le mura dei monasteri, o diventa vessillo di sette ereticali. Fra’ Dolcino è uno dei tanti che, in epoca medievale, si batte per un ritorno alla primitiva purezza, massacrando qua e là ricchi prelati; il contrasto tra santa povertà e ostentazione curiale è presente però anche all’interno dell’istituzione, come ci svela Umberto Eco, riportando – ne “Il nome della rosa” – l’animato dibattito tra spirituali e principi della Chiesa a proposito della veste di Cristo: il Salvatore ne era proprietario oppure no? Un dilemma da filosofi perditempo, vien da dire, ma riflettete: una grezza tunica senza valore venale può decidere il destino di un vero e proprio regno (non di quello dei cieli, sia chiaro). Il potere mette la museruola ai critici, ma l’Europa cristiana è sempre in fermento: quando Lutero condanna gli eccessi papali, qualcuno va ben oltre, e prova a sovvertire il sistema. L’eresiarca Thomas Müntzer non è un predicatore qualsiasi, ispirato da Scritture finalmente “liberalizzate” ma immutabili: Dio ci parla in ogni momento, senza bisogno di intermediari – afferma - e Dio pretende eguaglianza e giustizia. La funzione dei principi e dei nobili è quella di difendere il gregge: se abusano del potere concessogli, la spada va rivolta contro di loro. L’autorità è un munus, la legge divina, di fronte alla quale tutti gli uomini sono uguali, deve regnare pure sulla terra. Siamo ben oltre Dolcino: Müntzer si rivolge a minatori e contadini, chiamandoli “compagni”, e ai grandi sottopone, minacciando sfracelli, richieste di schietto sapore politico-sociale. La sua bandiera è l’arcobaleno, la rivendicazione – resa celebre da “Q” del collettivo Luther Blisset/Wu Ming – inequivocabile: “Omnia sunt communia”! Duro fino alla spietatezza, disinteressato, nemico di ogni forma di proprietà, rivoluzionario: il Magister è senz’altro un comunista ante litteram. Anche un socialista? Tre decenni fa avrei emesso un no scandalizzato, oggi replicherei con una domanda: socialista in che senso?
L’Illuminismo è un vento di tempesta, che spazza via polvere e incrostazioni millenarie: quasi un’eresia laica, trionfante, che muta il corso della storia europea, “scindendola” da quella degli altri continenti. Rousseau maledice la proprietà, due francesi – Mably e Morelly – progettano a tavolino società comuniste, senza torcere un capello ad alcuno (e senza risultati apprezzabili).

Il secolo d’oro degli “utopisti” è però l’Ottocento: FourierOwen e Saint-Simon sono i vessilliferi (noti, se non altro, ai liceali) di una vasta schiera, che comprende anche Etienne Cabet, il tedesco WeitlingBlanquiBlancProudhoun ecc. La fama dei primi tre è legata ai giudizi – altamente positivi, sia detto per inciso - di Marx e Engels, che li ribattezzarono “socialisti utopisti” solo perché ancorati, nei loro progetti, ad una visione volontaristica ed incapaci di intendere rettamente le leggi dello sviluppo storico. Attenzione, però, a non fare di ogni erba un fascio: Owen e Fourier (soprattutto il secondo, che forse invidiava la popolarità raggiunta dal magnifico gallese) polemizzarono duramente in vita, e proposero sistemi assai differenti. Il francese, irripetibile connubio di genio e follia, intuì l’utilità di una sana competizione (all’interno di regole ben precise e “razionali) ai fini dello sviluppo generale, nonché l’esigenza, per il singolo, di praticare più attività; nei suoi falansteri immaginari, tuttavia, la diseguaglianza di condizioni economiche persiste, e perfino le mense sono separate. Robert Owen preferiva l’impegno concreto alle astrazioni: a New Lanark costruì un ambulatorio e una scuola per i suoi operai (riteneva che la malvagità fosse conseguenza dell’ignoranza), e in seguito si sforzò di dar vita a colonie comuniste. Fermamente contrario a matrimonio (anche se lui si sposò, e amò profondamente la moglie), proprietà privata e religione, si mise a capo, all’inizio degli anni ’30, del primo grande sciopero a oltranza, e tentò, non per finta, di abbattere il capitalismo; vista la mala parata si dedicò, successivamente, allo sviluppo del sistema cooperativo. Socialista democratico? Un leader sindacale lo descrisse, all’interno della sua fabbrica, come un dio benevolo ma onnipotente che, al posto delle punizioni, usava la persuasione.
Se Owen è un comunista (ma la pubblicistica dell’epoca definiva i suoi seguaci “owenisti”), e Fourier un riformatore che a stento potrebbe dirsi socialista, com’è possibile che Marx ed Engels li accomunino sotto la stessa etichetta? In realtà, ogni utopista fa storia a sé: Cabet la pensa pressappoco come Owen, Proudhoun condanna la grande, ma non la piccola proprietà, mentre Blanqui si concentra sul momento insurrezionale ecc. In mezzo a questo guazzabuglio di idee e ragionamenti, penso proprio che lo scolaro tredicenne avrebbe alzato bandiera bianca: dove sono spariti i komunalka, rassicurante confine tra il giusto e l’ingiusto?
L’unico elemento che accomuna questi pensatori e uomini d’azione è la ripulsa nei confronti del modello esistente, giudicato iniquo dal punto di vista morale e inefficiente da quello economico.
Domandiamo lumi a Karl Marx, padre riconosciuto del c.d. “socialismo scientifico”. Socialismo o comunismo? Per il filosofo di Treviri il quesito è privo di senso: le due parole sono sinonimi, ed egli le alterna tranquillamente nelle sue opere. Semmai si può parlare di due fasi successive: nella prima permangono retaggi borghesi – e dunque si valorizza il merito individuale –; nella seconda, l’”uomo nuovo” lavora per sé e per gli altri, senza richiedere contropartite egoistiche. Si badi, però, che premessa di entrambe è l’espropriazione degli espropriatori, invocata ne “Il Capitale”: un tanto implica che già ai tempi del comunismo/socialismo c.d. imperfetto i mezzi di produzione sono di proprietà collettiva.
Seguendo rigidamente lo schema marxiano, dunque, dovremmo escludere dal novero dei socialisti chi ammetta diseguaglianze che non derivino dal lavoro prestato (Fourier, Proudhoun ecc.): in ogni caso, il modello social-comunista vede la luce dopo l’esproprio e la dittatura del proletariato.
A semplificare - o piuttosto a ingarbugliare – le cose provvede Lenin, che ribattezza la prima fase “socialismo” e la seconda “comunismo” realizzato: per additare il traguardo definitivo sarà lo stesso leader russo, alla vigilia della Rivoluzione d’Ottobre, a cambiare il nome del suo partito da “socialdemocratico” in “comunista bolscevico”. Il problema sta nel fatto che per approdare a destinazione sono necessari decenni, forse secoli: né Vladimir Il’ich né i suoi epigoni (da Mao a Castro) oseranno mai vantarsi di aver raggiunto il lido. Il comunismo, la fase finale resta un orizzonte lontano, una promessa per il futuro: ergo, imputare ad esso i crimini di certi governanti è come accusare il paradiso per le streghe bruciate sul rogo - un’idiozia pura e semplice.
Tutto si riduce allora ad una diatriba tra partiti, che scoppia nel ’17: da una parte i seguaci di Lenin, rivoluzionari; dall’altra i riformisti, quelli che confidavano di trasformare il sistema dall’interno. Si noti che per entrambi gli schieramenti il punto d’arrivo era rappresentato dalla seconda fase marxiana (il socialismo/comunismo “perfetto”): le divergenze, di natura tattica, concernevano esclusivamente gli strumenti da adoperare, cioè l’alternativa secca rivoluzione o riforme. La democrazia non c’entrava nulla: riformisti, massimalisti e bolscevichi, per restare fedeli a Marx, dovevano concordare sul fatto che quella borghese è la democrazia meramente formale degli abbienti.
Rapidamente – e ben oltre le intenzioni degli stessi antagonisti originari – il solco si allargò, divenne presto incolmabile. Avversione e livore produssero reciproche accuse di tradimento, e qualcosa di ancora più grave: confusione ideologica. Ad un militante proletario degli anni ’20 la contrapposizione tra l’idea socialista e quella comunista sarebbe apparsa un assurdo: la polemica sui mezzi non sfiorava i fini.

Poi le cose mutarono. I partiti comunisti al potere rilessero Marx a loro uso e consumo, storpiandolo; ma molti socialisti occidentali fecero di peggio: lo ripudiarono. Alla disperata ricerca di surrogati ideologici, esplorarono polverose biblioteche: Bettino Craxi riesumò addirittura Proudhoun, una specie di anarchico piccolo-borghese, che auspicava una modesta ridistribuzione della ricchezza tra i ceti. Si ritornava ad un presunto socialismo premarxista – cioè: si focalizzava l’attenzione su qualche pensatore isolato, che offrisse garanzie di moderazione (bisognava sfondare al centro) e democratica mitezza. Questo socialismo geneticamente modificato, privo di radici storiche, era un pacco infiocchettato, ma vuoto, che poteva, all’occorrenza, contenere riformine e controriforme di ogni genere (da qui l’equazione socialismo=riformismo, irresolubile per l’indeterminatezza della seconda espressione), e ben si sposava con aggettivi alla moda (ad esempio, “liberale”).
Ognuno poteva avere il suo socialismo preferito, fregandosene altamente della Storia e dei paletti messi da Marx; nel frattempo, lontano dai convegni e dalle aule (non solamente scolastiche), il Capitale faceva i suoi porci comodi.
La conclusione provvisoria è anch’essa un’alternativa: o accettiamo la teoria marxiana – che presenta l’insignificante vantaggio, rispetto ad altre elucubrazioni, di spiegare l’attualità – o è il caso di scovare qualcuno, in giro, che offra soluzioni originali a problemi impellenti e drammatici. Un “socialismo” compito, innocuo, democratico e cortese (col suo grazioso fiocco all’europea) è utile, oggi, ai ceti subalterni tanto quanto uno Yorkshire Terrier al pastorello circondato dai lupi.
Ho l’impressione che i socialcomunisti Müntzer e Owen converrebbero su questa banale constatazione, e che anche il me stesso di trent’anni orsono, malgrado la sua cocciutaggine, finirebbe per riscrivere il tema.  


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