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domenica 28 aprile 2013

FETICISMI



di Fausto Rinaldi



Preso a prestito dall’antropologia e dalla storia delle religioni, il termine “feticismo” vuole indicare la tendenza a proiettare sugli oggetti una serie di significati e di valori ideali, assumendone una sorta di dipendenza funzionale, prodotta dall’accumularsi di suggestioni, di induzioni valoriali provocate dalla manipolazione ideologica attuata dalla società, intesa nella sua sostanziale essenza organizzativa.


Il feticismo delle merci si crea laddove esista una doppia natura della merce, cioè, dove il valore di mercato (rappresentato dalla quota di denaro necessaria per acquisirne la proprietà, nelle presenti condizioni della compravendita) determina la formazione dei rapporti sociali - fondati sullo scambio economico – e lasciando al valore d’ uso un ruolo, di fatto, secondario e subordinato.
Il processo di accumulazione capitalistica si impossessa degli attori sociali e ne traccia confini esistenziali e limiti comportamentali particolarmente rigidi, come conseguenza della penetrazione, nel vissuto sociale, di logiche in grado di affermare equilibri distruttivi per l’ intima essenza etica dell’individuo.
Nel teatro in cui si manda in scena l’ assoggettamento della vita sociale alla creazione di valore, recitano, rigorosamente “a soggetto”: capitalisti, lavoratori salariati, classi egemoni e classi subordinate, intellettuali, “rentiers”, sfruttatori, filosofi e l’ infinita pletora di categorie sociali proprie dei moderni agglomerati urbani attuali; tutti, uniti nell’infinita lotta per ricavare qualche privilegio di posizione dal quadro degli equilibri e dei rapporti di forza che scaturisce dagli ordini emanati dalle bronzee logiche dell’accumulazione del “capitale”.
Feticismo delle merci richiama a quella sorta di irrazionalità messianica della quale religioni e credenze di vario genere sono pieni, sottolineando come l’ intima struttura dei sistemi capitalistici mostri la corda di logiche interne profondamente fragili e insensate, ed una natura di fondo essenzialmente dogmatica.
Il sistema capitalistico è immanente, come cristallizzato, imponente e imperturbabile, dedito ad ingoiare vite e coscienze, da gettare, come carbone in fornace, a ravvivare il “moloch” del ciclo produttivo, inesorabile e assassino.
E il sistema si nutre di vittime ormai rassegnate al loro ineluttabile destino; obnubilate, rese cieche da una socializzazione che ne ha fatto vittime sacrificali, si dirigono ordinatamente oltre la linea del fronte a sacrificare le loro vite con la stolida sottomissione di chi, gravato da una colpa originaria, si rassegni alla sua espiazione. L’ assurdità dei riti, delle pantomime, delle cerimonie in cui la società si conclama e si proclama; le gonfie retoriche del potere - a nascondere le basse ragioni del sacrificio -, danzano beffarde sul confine dell’orizzonte esistenziale delle masse lavoratrici, fino ad irriderne la condizione.
L’ approccio riformistico alla lotta di classe – elemento oramai divenuto imprescindibile caratteristica delle scolorite “sinistre” implicate nel processo di riproduzione capitalistica – prevede il totale riconoscimento degli equilibri posti a fulcro dell’attuale sistema economico dell’Occidente. Fin dal XIX° secolo, il movimento operaio non si è spinto più in là rispetto a richieste di una diversa ripartizione delle risorse assicurate dal ciclo produttivo capitalistico. Le ragioni perverse che sottendono i meccanismi di valorizzazione del capitale non sono più messe in discussione, nemmeno da quelle forze che dovrebbero, per il loro ruolo, promuovere il superamento del sistema capitalistico, unitamente alle sue contraddizioni, le sue asimmetrie, i suoi squilibri.
D’altra parte, di questo “minimalismo” d’accatto si sono servite intere generazioni di sfruttatori, incarnati dalle pasciute fattezze di tronfi capitalisti, di volta in volta, in relazione alle necessità contingenti, paternalistici o duramente schierati contro le istanze dei lavoratori, sempre però in un ambito di rapporti di forza gravemente squilibrati. E' chiaro che, al capitale non vadano chieste concessioni, bensì, conquistati i diritti negati, dai quali partire per giungere al ribaltamento di quei rapporti di forza che vedono una classe dominarne e sfruttarne un’altra. E chiunque speri che, all’interno di un’ affermata logica di contrapposizione frontale delle parti, al nemico possa essere demandata la definizione e l’ attuazione di iniziative volte a sancire la propria sconfitta, compie un errore strategico gravissimo.
Pertanto, da quando la “lotta di classe” è diventata una battaglia per l’integrazione della classe lavoratrice nelle logiche del mercato (logiche che, per intenderci, sono ritagliate a misura delle classi dominanti, e che all’ombra delle quali i lavoratori saranno sempre battuti), le masse lavoratrici non hanno fatto altro che sancire la loro sconfitta storica, ingannate e strumentalizzate dai propri rappresentanti che, incaricati di fronteggiare il potere del capitale, ne sono diventati i più fedeli alleati.
Ed ecco che il “consumo di massa”, il “benessere”, il “boom economico”, i “trenta gloriosi”, altro non sono stati che gli altari sui quali sono stati sacrificati gli ideali alti del riscatto sociale di masse oppresse.
Dunque, la sconfitta dei lavoratori prende le mosse dall’esiziale introiezione dei valori borghesi, dall’incapacità di fornire una cultura in grado di opporsi alle lusinghe materialistiche del capitalismo. Quindi, è una sconfitta essenzialmente culturale; conclamata, ancor più, dall’ immanenza egemonica di una formazione culturale - quella statunitense - che proviene dai sordidi gangli di una società in cui si è affermata la parte di capitalismo più spietata, guerrafondaia ed estrema.
Peraltro, in base all’analisi che ne fa Marx, non è nel conflitto tra classi che il capitalismo genera il germe della propria distruzione: infatti, la contrapposizione tra capitalisti e salariati altro non è che il conflitto tra portatori viventi di “capitale fisso” (i mezzi di produzione) e portatori viventi di “capitale variabile” (la forza lavoro), quindi, un conflitto immanente e, in qualche modo, coerente con il sistema stesso. Il punto di rottura del sistema si colloca nella pervicace volontà di giungere ad un abbassamento dei costi di produzione, attraverso la messa in atto di economie di scala; quindi, anche per mezzo di un incremento delle unità prodotte, che se, da un lato, abbassano il costo per unità di prodotto, dall’altro, fatalmente, conducono ad una saturazione del mercato (crisi sovrapproduttive). Questo perché il sistema capitalistico poggia le proprie basi sulla “competizione”; alle estreme conseguenze, questa matrice può portare a violare qualsiasi principio etico, con ricadute sui comportamenti sociali che tutti hanno sotto gli occhi. La concorrenza spinge ogni proprietario di capitale a rendere sempre più appetibile e conveniente l’ acquisto dei propri prodotti, allo scopo di allargarne il mercato e giungere ad un incremento del proprio profitto; quindi, se, da un lato, il capitalista è spinto a produrre sempre di più e a prezzi sempre più bassi (consentiti da una diminuzione del costo dei fattori produttivi), dall’altro, si vede costretto ad un allargamento “orizzontale” della produzione. attraverso un ampliamento della gamma dei prodotti offerti. Questo allargamento dell’offerta ha finito per saturare la domanda, coprendo per intero tutte le necessità funzionali legate al valor d’uso dell’oggetto, creando, per conseguenza, la necessità di ingenerare negli acquirenti dei bisogni, per dirla con Maslow, “secondari” che, sostenuti da un impianto pubblicitario forte e capace, a sua volta, di creare un nuovo e cospicuo mercato di servizi, potessero dare origine a nuovi segmenti di mercato; soprattutto, grazie agli strumenti messi a disposizione dall'innovazione tecnologica, sostenuta dalla miniaturizzazione elettronica. A ciò, si aggiunga la necessità irrinunciabile dell’espansione geografica dei mercati (a suffragare la tendenza “imperialistica” del capitalismo) e l’ incremento del tasso di obsolescenza dei prodotti (obsolescenza da realizzarsi su due fronti: uno, mediante particolarità costruttive e qualità materiali; due, rinnovamento delle offerte e relativo - vero o presunto - incremento funzionale o di adeguamento normativo (con il supporto degli organi statali; vedasi, per il settore auto, l’ innovazione a sfondo ecologico dei limiti sulle emissioni nocive, chiamati Euro 1, 2, 3 ,4 etc.)


Ricapitolando, il sistema capitalistico necessita di un insieme di “espansioni” che ne permettano, fondamentalmente, l’ incremento dei margini di profitto:
- “espansione verticale”, che riguarda la competitività del prodotto, perseguita attraverso la diminuzione dei costi di produzione;
- “espansione orizzontale”, ottenuta attraverso una moltiplicazione dei prodotti offerti (anche per mezzo di una diversificazione nella “presentazione”, nel modo d’ offerta; cioè, propinare uno stesso prodotto in forme e quantità differenti in modo da poter soddisfare esigenze funzionali e pratiche del consumatore);
- “espansione dell’obsolescenza”, cercata attraverso la riduzione del tempo di vita del prodotto o da un incremento del tasso di obsolescenza;
- “espansione territoriale”, da raggiungersi per mezzo di un ampliamento geografico dei mercati.


Concludendo il ragionamento, l’ incremento su scala globale dell’offerta di prodotti (la cui diversificazione ha raggiunto livelli parossistici) a costi sempre minori ha, in un primo tempo, permesso un allargamento dei mercati (sostenuta a livello globale dalla politica eminentemente imperialistica del Primo mondo Occidentale) ma, successivamente, ha ingenerato una saturazione del mercato che ha condotto, inevitabilmente, ad una caduta del saggio di profitto. A partire dagli anni ’70, questa tendenza ha raggiunto il suo apice a livello globale, spingendo il sistema capitalistico a spostare la creazione di ricchezza sul versante finanziario.
Credito e speculazione a farla da padroni in un mondo, quello finanziario, in cui i governi hanno creato le condizioni favorevoli per l’ espansione di prodotti sui quali orientare investimenti sempre più capaci di favorire un’ espansione “drammatica” delle possibilità speculative e, sia detto a mo' di inciso, di suffragare la definizione keynesiana di “capitalismo-casinò”. Quindi, la finanziarizzazione è stato uno strumento grazie al quale il capitalismo ha differito la conclamazione della propria “crisi suprema”.
All’interno di questa realtà, in cui il modello capitalistico sta vivendo, probabilmente, la propria fase terminale (il cui decorso storico si svilupperà con tempi non prevedibili), la gran parte del pensiero “antagonista”, “anticapitalista”, “emancipatore”, etc., pare essersi involuto entro domini e logiche pienamente sotto il controllo del potere capitalistico tradizionale. Le varie insorgenze, le categorie subalterne, le donne, le popolazioni colonizzate, i lavoratori precari, rappresentano un “universo” di vittime sociali le cui istanze di riscatto, però, non si spingono oltre il principio, accettato nella sostanza e reso implicito anche nelle loro rivendicazioni, dal quale si intuisce l' origine del principio di “valore” mercificato. Siamo, pertanto, di fronte ad una sorta di “introiezione” dei valori propagati dalle classi dominanti, capaci di esercitare una pressione intellettuale in grado di dare corpo ad una egemonia economica e, gramscianamente, culturale. L’ incapacità di prefigurare orizzonti ed obiettivi in grado di coalizzare l’insieme delle categorie subalterne ha condotto, fatalmente, ad originare un arcipelago di istanze e rivendicazioni separate, senza che una coscienza collettiva e di classe abbia permesso di manifestare solidarietà ed appoggio a categorie o popolazioni colpite dagli strali “neoliberisti”. Siamo di fronte ad una asfittica visione di prospettiva che si limita al contenimento dei danni immediati, ma confinati entro il cono d’ombra della rassegnazione, che porta con sé un sostanziale riconoscimento e legittimazione dei rapporti di forza che l’ iniquo sistema capitalistico ha , negli anni, sedimentato.
Sottoposte all’imperio delle parole d’ordine del capitale (efficienza, produttività, competitività, etc), le classi subalterne giocano, fatalisticamente, una partita truccata, sulla base di regole che le potranno vedere solo perdenti. Questo viene favorito da una profondissima crisi di “rappresentatività” delle masse popolari, abbandonate ai perigli in un sistema – quello delle democrazie rappresentative – ove gli strumenti di aggregazione e manifestazione delle volontà collettive, (attraverso le relative proiezioni sociali, rappresentate dai partiti, sindacati, associazioni di categoria, etc.) si sono corrotte – in base alla sempre valida legge bronzea dell’oligarchia di Michels – dalla vicinanza territoriale e di interessi con le élite economiche nazionali e non. L’assurzione ad unico mediatore sociale del denaro - e la corrispondente accettazione di tale ruolo da parte delle classi subordinate - connota e certifica i contorni di una sconfitta storica: non basterà una congerie di lotte di retroguardia ad affrancare dal destino sacrificale scelto dal potere del capitale a carico di intere generazioni di uomini.
 

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