di Fausto Rinaldi
Preso
a prestito dall’antropologia e dalla storia delle religioni, il
termine “feticismo” vuole indicare la tendenza a proiettare sugli
oggetti una serie di significati e di valori ideali, assumendone una
sorta di dipendenza funzionale, prodotta dall’accumularsi di
suggestioni, di induzioni valoriali provocate dalla manipolazione
ideologica attuata dalla società, intesa nella sua sostanziale
essenza organizzativa.
Il
feticismo delle merci si crea laddove esista una doppia natura della
merce, cioè, dove il valore di mercato (rappresentato dalla quota di
denaro necessaria per acquisirne la proprietà, nelle presenti
condizioni della compravendita) determina la formazione dei rapporti
sociali - fondati sullo scambio economico – e lasciando al valore
d’ uso un ruolo, di fatto, secondario e subordinato.
Il
processo di accumulazione capitalistica si impossessa degli attori
sociali e ne traccia confini esistenziali e limiti comportamentali
particolarmente rigidi, come conseguenza della penetrazione, nel
vissuto sociale, di logiche in grado di affermare equilibri
distruttivi per l’ intima essenza etica dell’individuo.
Nel
teatro in cui si manda in scena l’ assoggettamento della vita
sociale alla creazione di valore, recitano, rigorosamente “a
soggetto”: capitalisti, lavoratori salariati, classi egemoni e
classi subordinate, intellettuali, “rentiers”, sfruttatori,
filosofi e l’ infinita pletora di categorie sociali proprie dei
moderni agglomerati urbani attuali; tutti, uniti nell’infinita
lotta per ricavare qualche privilegio di posizione dal quadro degli
equilibri e dei rapporti di forza che scaturisce dagli ordini emanati
dalle bronzee logiche dell’accumulazione del “capitale”.
Feticismo
delle merci richiama a quella sorta di irrazionalità messianica
della quale religioni e credenze di vario genere sono pieni,
sottolineando come l’ intima struttura dei sistemi capitalistici
mostri la corda di logiche interne profondamente fragili e insensate,
ed una natura di fondo essenzialmente dogmatica.
Il
sistema capitalistico è immanente, come cristallizzato, imponente e
imperturbabile, dedito ad ingoiare vite e coscienze, da gettare, come
carbone in fornace, a ravvivare il “moloch” del ciclo produttivo,
inesorabile e assassino.
E
il sistema si nutre di vittime ormai rassegnate al loro ineluttabile
destino; obnubilate, rese cieche da una socializzazione che ne ha
fatto vittime sacrificali, si dirigono ordinatamente oltre la linea
del fronte a sacrificare le loro vite con la stolida sottomissione di
chi, gravato da una colpa originaria, si rassegni alla sua
espiazione. L’ assurdità dei riti, delle pantomime, delle
cerimonie in cui la società si conclama e si proclama; le gonfie
retoriche del potere - a nascondere le basse ragioni del sacrificio
-, danzano beffarde sul confine dell’orizzonte esistenziale delle
masse lavoratrici, fino ad irriderne la condizione.
L’
approccio riformistico alla lotta di classe – elemento oramai
divenuto imprescindibile caratteristica delle scolorite “sinistre”
implicate nel processo di riproduzione capitalistica – prevede il
totale riconoscimento degli equilibri posti a fulcro dell’attuale
sistema economico dell’Occidente. Fin dal XIX° secolo, il
movimento operaio non si è spinto più in là rispetto a richieste
di una diversa ripartizione delle risorse assicurate dal ciclo
produttivo capitalistico. Le ragioni perverse che sottendono i
meccanismi di valorizzazione del capitale non sono più messe in
discussione, nemmeno da quelle forze che dovrebbero, per il loro
ruolo, promuovere il superamento del sistema capitalistico,
unitamente alle sue contraddizioni, le sue asimmetrie, i suoi
squilibri.
D’altra
parte, di questo “minimalismo” d’accatto si sono servite intere
generazioni di sfruttatori, incarnati dalle pasciute fattezze di
tronfi capitalisti, di volta in volta, in relazione alle necessità
contingenti, paternalistici o duramente schierati contro le istanze
dei lavoratori, sempre però in un ambito di rapporti di forza
gravemente squilibrati. E' chiaro che, al capitale non vadano chieste
concessioni, bensì, conquistati i diritti negati, dai quali partire
per giungere al ribaltamento di quei rapporti di forza che vedono una
classe dominarne e sfruttarne un’altra. E chiunque speri che,
all’interno di un’ affermata logica di contrapposizione frontale
delle parti, al nemico possa essere demandata la definizione e l’
attuazione di iniziative volte a sancire la propria sconfitta, compie
un errore strategico gravissimo.
Pertanto,
da quando la “lotta di classe” è diventata una battaglia per
l’integrazione della classe lavoratrice nelle logiche del mercato
(logiche che, per intenderci, sono ritagliate a misura delle classi
dominanti, e che all’ombra delle quali i lavoratori saranno sempre
battuti), le masse lavoratrici non hanno fatto altro che sancire la
loro sconfitta storica, ingannate e strumentalizzate dai propri
rappresentanti che, incaricati di fronteggiare il potere del
capitale, ne sono diventati i più fedeli alleati.
Ed
ecco che il “consumo di massa”, il “benessere”, il “boom
economico”, i “trenta gloriosi”, altro non sono stati che gli
altari sui quali sono stati sacrificati gli ideali alti del riscatto
sociale di masse oppresse.
Dunque,
la sconfitta dei lavoratori prende le mosse dall’esiziale
introiezione dei valori borghesi, dall’incapacità di fornire una
cultura in grado di opporsi alle lusinghe materialistiche del
capitalismo. Quindi, è una sconfitta essenzialmente culturale;
conclamata, ancor più, dall’ immanenza egemonica di una formazione
culturale - quella statunitense - che proviene dai sordidi gangli di
una società in cui si è affermata la parte di capitalismo più
spietata, guerrafondaia ed estrema.
Peraltro,
in base all’analisi che ne fa Marx, non è nel conflitto tra classi
che il capitalismo genera il germe della propria distruzione:
infatti, la contrapposizione tra capitalisti e salariati altro non è
che il conflitto tra portatori viventi di “capitale fisso” (i
mezzi di produzione) e portatori viventi di “capitale variabile”
(la forza lavoro), quindi, un conflitto immanente e, in qualche modo,
coerente con il sistema stesso. Il punto di rottura del sistema si
colloca nella pervicace volontà di giungere ad un abbassamento dei
costi di produzione, attraverso la messa in atto di economie di
scala; quindi, anche per mezzo di un incremento delle unità
prodotte, che se, da un lato, abbassano il costo per unità di
prodotto, dall’altro, fatalmente, conducono ad una saturazione del
mercato (crisi sovrapproduttive). Questo perché il sistema
capitalistico poggia le proprie basi sulla “competizione”; alle
estreme conseguenze, questa matrice può portare a violare qualsiasi
principio etico, con ricadute sui comportamenti sociali che tutti
hanno sotto gli occhi. La concorrenza spinge ogni proprietario di
capitale a rendere sempre più appetibile e conveniente l’ acquisto
dei propri prodotti, allo scopo di allargarne il mercato e giungere
ad un incremento del proprio profitto; quindi, se, da un lato, il
capitalista è spinto a produrre sempre di più e a prezzi sempre più
bassi (consentiti da una diminuzione del costo dei fattori
produttivi), dall’altro, si vede costretto ad un allargamento
“orizzontale” della produzione. attraverso un ampliamento della
gamma dei prodotti offerti. Questo allargamento dell’offerta ha
finito per saturare la domanda, coprendo per intero tutte le
necessità funzionali legate al valor d’uso dell’oggetto,
creando, per conseguenza, la necessità di ingenerare negli
acquirenti dei bisogni, per dirla con Maslow, “secondari” che,
sostenuti da un impianto pubblicitario forte e capace, a sua volta,
di creare un nuovo e cospicuo mercato di servizi, potessero dare
origine a nuovi segmenti di mercato; soprattutto, grazie agli
strumenti messi a disposizione dall'innovazione tecnologica,
sostenuta dalla miniaturizzazione elettronica. A ciò, si aggiunga la
necessità irrinunciabile dell’espansione geografica dei mercati (a
suffragare la tendenza “imperialistica” del capitalismo) e l’
incremento del tasso di obsolescenza dei prodotti (obsolescenza da
realizzarsi su due fronti: uno, mediante particolarità costruttive e
qualità materiali; due, rinnovamento delle offerte e relativo - vero
o presunto - incremento funzionale o di adeguamento normativo (con il
supporto degli organi statali; vedasi, per il settore auto, l’
innovazione a sfondo ecologico dei limiti sulle emissioni nocive,
chiamati Euro 1, 2, 3 ,4 etc.)
Ricapitolando,
il sistema capitalistico necessita di un insieme di “espansioni”
che ne permettano, fondamentalmente, l’ incremento dei margini di
profitto:
-
“espansione verticale”, che riguarda la competitività del
prodotto, perseguita attraverso la diminuzione dei costi di
produzione;
-
“espansione orizzontale”, ottenuta attraverso una moltiplicazione
dei prodotti offerti (anche per mezzo di una diversificazione nella
“presentazione”, nel modo d’ offerta; cioè, propinare uno
stesso prodotto in forme e quantità differenti in modo da poter
soddisfare esigenze funzionali e pratiche del consumatore);
-
“espansione dell’obsolescenza”, cercata attraverso la riduzione
del tempo di vita del prodotto o da un incremento del tasso di
obsolescenza;
-
“espansione territoriale”, da raggiungersi per mezzo di un
ampliamento geografico dei mercati.
Concludendo
il ragionamento, l’ incremento su scala globale dell’offerta di
prodotti (la cui diversificazione ha raggiunto livelli parossistici)
a costi sempre minori ha, in un primo tempo, permesso un allargamento
dei mercati (sostenuta a livello globale dalla politica eminentemente
imperialistica del Primo mondo Occidentale) ma, successivamente, ha
ingenerato una saturazione del mercato che ha condotto,
inevitabilmente, ad una caduta del saggio di profitto. A partire
dagli anni ’70, questa tendenza ha raggiunto il suo apice a livello
globale, spingendo il sistema capitalistico a spostare la creazione
di ricchezza sul versante finanziario.
Credito
e speculazione a farla da padroni in un mondo, quello finanziario, in
cui i governi hanno creato le condizioni favorevoli per l’
espansione di prodotti sui quali orientare investimenti sempre più
capaci di favorire un’ espansione “drammatica” delle
possibilità speculative e, sia detto a mo' di inciso, di suffragare
la definizione keynesiana di “capitalismo-casinò”. Quindi, la
finanziarizzazione è stato uno strumento grazie al quale il
capitalismo ha differito la conclamazione della propria “crisi
suprema”.
All’interno
di questa realtà, in cui il modello capitalistico sta vivendo,
probabilmente, la propria fase terminale (il cui decorso storico si
svilupperà con tempi non prevedibili), la gran parte del pensiero
“antagonista”, “anticapitalista”, “emancipatore”, etc.,
pare essersi involuto entro domini e logiche pienamente sotto il
controllo del potere capitalistico tradizionale. Le varie insorgenze,
le categorie subalterne, le donne, le popolazioni colonizzate, i
lavoratori precari, rappresentano un “universo” di vittime
sociali le cui istanze di riscatto, però, non si spingono oltre il
principio, accettato nella sostanza e reso implicito anche nelle loro
rivendicazioni, dal quale si intuisce l' origine del principio di
“valore” mercificato. Siamo, pertanto, di fronte ad una sorta di
“introiezione” dei valori propagati dalle classi dominanti,
capaci di esercitare una pressione intellettuale in grado di dare
corpo ad una egemonia economica e, gramscianamente, culturale. L’
incapacità di prefigurare orizzonti ed obiettivi in grado di
coalizzare l’insieme delle categorie subalterne ha condotto,
fatalmente, ad originare un arcipelago di istanze e rivendicazioni
separate, senza che una coscienza collettiva e di classe abbia
permesso di manifestare solidarietà ed appoggio a categorie o
popolazioni colpite dagli strali “neoliberisti”. Siamo di fronte
ad una asfittica visione di prospettiva che si limita al contenimento
dei danni immediati, ma confinati entro il cono d’ombra della
rassegnazione, che porta con sé un sostanziale riconoscimento e
legittimazione dei rapporti di forza che l’ iniquo sistema
capitalistico ha , negli anni, sedimentato.
Sottoposte
all’imperio delle parole d’ordine del capitale (efficienza,
produttività, competitività, etc), le classi subalterne giocano,
fatalisticamente, una partita truccata, sulla base di regole che le
potranno vedere solo perdenti. Questo viene favorito da una
profondissima crisi di “rappresentatività” delle masse popolari,
abbandonate ai perigli in un sistema – quello delle democrazie
rappresentative – ove gli strumenti di aggregazione e
manifestazione delle volontà collettive, (attraverso le relative
proiezioni sociali, rappresentate dai partiti, sindacati,
associazioni di categoria, etc.) si sono corrotte – in base alla
sempre valida legge bronzea dell’oligarchia di Michels – dalla
vicinanza territoriale e di interessi con le élite economiche
nazionali e non. L’assurzione ad unico mediatore sociale del denaro
- e la corrispondente accettazione di tale ruolo da parte delle
classi subordinate - connota e certifica i contorni di una sconfitta
storica: non basterà una congerie di lotte di retroguardia ad
affrancare dal destino sacrificale scelto dal potere del capitale a
carico di intere generazioni di uomini.
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