APRITI SEL !
di Barbara Auleta, Stefano Ciccone, Enzo
Mastrobuoni e Carolina Zincone
Apriti SEL !
È necessario avviare una discussione
vera e trasparente per affrontare la nuova fase politica senza equivoci o
ipocrisie.
Crediamo anche sia necessario aprirci
sin da ora, prima del congresso, per contribuire a costruire una sinistra molto
più grande di noi, capace di pensare il cambiamento e di cimentarsi con la
sfida del governo.
L’esito e la qualità del nostro
congresso non dipendono solo dalla nostra discussione ma da quello che sapremo
costruire dentro e fuori di noi. Dobbiamo recuperare un impegno nei movimenti,
nelle lotte sindacali, nelle esperienze associative che producono nuova
politica, nuovi saperi, nuova socialità.
Ma per farlo dobbiamo innanzitutto
cambiare pelle, liberare la nostra discussione, aprire i nostri spazi di
partecipazione, liberarci dei notabilati, vincere una cultura che “militarizza”
il confronto e il conflitto politico.
Abbiamo bisogno di discutere
liberamente, senza insofferenze infastidite per le critiche, senza difese
conservatrici del proprio operato incapaci di ascoltare e riconoscere il
disagio.
Non è più possibile tenere distinte le
forme di partecipazione dalla qualità e credibilità della proposta
politica. Dalla capacità di SEL di affrontare questo nodo dipende la sua
credibilità, la possibilità di svolgere un ruolo autonomo e al tempo stesso
unitario, di raccogliere domande e intelligenze, di interloquire con ciò che si
muove nella società, di aumentare la sua capacità di elaborazione aprendo gli
spazi di partecipazione.
La nostra difficoltà si intreccia con
una riflessione più generale che riguarda la crisi dei partiti e della
democrazia. Non basta rifiutare l’antipolitica, nella speranza di esorcizzarla,
bisogna cambiare la politica, a cominciare da noi.
A cosa serve SEL
SEL deve lavorare alla costruzione di un
processo largo di aggregazione e confronto che porti alla costruzione di una
nuova forza della sinistra, plurale, unitaria e innovativa, così come ci siamo
proposti di fare con la manifestazione di piazza SS. Apostoli, che però è
rimasta senza seguito anche per una nostra incertezza di prospettiva.
Non serve la sommatoria di frammenti o
di parti di ceto politico teso all’autoconservazione, ma una nuova esperienza
politica capace di aggregare intelligenze e risorse culturali e dunque capace
di produrre un’elaborazione inedita.
Non vogliamo rinunciare alla missione
costitutiva di SEL di tenere insieme ragioni della sinistra e sfida del governo
uscendo così dall’asfittica alternativa tra il rinunciare alle proprie ragioni
per accedere al governo e il rinunciare a incidere sulla realtà per restare
fedeli a se stessi.
La costruzione di un’alleanza capace
d’innovazione, non è però, oggi, un dato scontato ma un obiettivo da
conquistare.
Per questo è una distorsione
contrapporre nella nostra discussione la ricostruzione di una soggettività
di sinistra e la costruzione di una coalizione di governo: si tratta
di due obiettivi oggi inscindibili.
Porre la necessità di una sinistra
capace di autonomia politica e culturale non vuol dire relegarsi in una
posizione “isolazionista”, al contrario è un’operazione indispensabile per
ricostruire una proposta credibile di governo di cambiamento ponendola in
relazione con i movimenti e le domande della società.
Con l’iniziativa di Lorenza Carlassare,
Don Luigi Ciotti, Maurizio Landini, Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky e il
prossimo appuntamento per il 12 ottobre si apre un nuovo cantiere che mette al
centro la difesa della Costituzione e dei diritti dei lavoratori. Anche in
questo percorso è aperto un dibattito: se debba limitarsi all’aggregazione di
una sinistra, se debba produrre un soggetto politico o aggregare un
campo e una proposta aperti.
I promotori hanno dato una risposta
chiara; SEL deve essere protagonista e non mero interlocutore di questo
processo, contribuendo a orientarlo e a rafforzarlo senza indugiare
in diplomatismi.
La scelta che abbiamo di fronte non è
dunque rinchiudersi nel partitino né tantomeno sciogliersi nell’indistinto
“campo dei democratici”, ma costruire una sinistra molto più larga di noi,
capace di coniugare governo e trasformazione.
È una prospettiva che non vale solo per
l’Italia ma che riguarda il cambiamento delle politiche dell’Europa e non si
esaurisce nella mera adesione a una o all’altra famiglia: è necessario
ricostruire una soggettività europea che cambi le politiche e il ruolo
dell’Europa costruendo forme nuove di mobilitazione tra i cittadini
europei.
Il movimento contro gli euromissili,
così come il movimento dei movimenti e il movimento contro la guerra sono stati
esempi della possibilità di unificazione delle mobilitazioni europee.
La scelta è tra un’Europa fortezza che,
chiusa e ripiegata su se stessa smonta a poco a poco il proprio sistema di
diritti, e un’Europa capace di prospettare un’altra idea dello sviluppo che
declini in forme nuove il nesso tra economia, democrazia e diritti delle
persone.
Dopo la crisi della
coalizione “Italia bene comune”
Sinistra Ecologia Libertà ha scommesso
sulla costruzione della coalizione “Italia bene comune” e oggi è
all’opposizione del governo Letta.
Come ripartire dopo la rottura del
centrosinistra, il terremoto elettorale e il governo delle larghe
intese?
Oggi è necessario, soprattutto per chi,
come noi, ha investito su quella coalizione, interrogarsi sulla sua natura e
sulle ragioni della sua rottura riconoscendo quanto il modo in cui è stata
costruita ne abbia pregiudicato la capacità di tenuta e la
credibilità.
Nelle primarie e nella campagna
elettorale c’è stata un’alleanza elettorale poco omogenea nei programmi e nelle
prospettive, è mancata una coalizione capace di interpretare il desiderio di
cambiamento, riaprire i canali tra società e politica.
Alle ambiguità nel PD si è sommata
l’inadeguatezza di SEL a sviluppare un’iniziativa per un profilo innovativo
della coalizione e una sua più larga rappresentatività, che ha reso la nostra
presenza nella coalizione meno autorevole e convincente.
Le primarie, che avrebbero dovuto allargare
la partecipazione aprendo a proposte e culture politiche nuove, si sono in
buona parte ridotte (a livello nazionale e locale) a una conta tra correnti o
alla ricerca del personaggio vincente.
La sconfitta consumatasi sul voto
presidenziale è figlia di questa incapacità a costruire una coalizione, che ha
fatto cadere la prospettiva di un governo di cambiamento, lasciando spazio alle
manovre interne al PD. D’altra parte, abbiamo assistito in seguito alle
autoconvocazioni, alle occupazioni dei circoli del PD, così come alle prese di
posizione critiche di intellettuali ed esponenti politici che hanno anche
aperto un grande credito verso SEL.
Ma questa reazione, la ripresa di
protagonismo diffuso per troppo tempo compresso, ha precocemente ceduto il passo
di fronte all’incalzare delle ”urgenze politico-economiche” e alla mancanza di
una prospettiva. Il dibattito avviatosi in tante sedi a seguito del disastro
del centrosinistra è rimasto frammentato e orfano.
La rottura della coalizione non è però
frutto di un accidente, in un quadro di ottima salute del centrosinistra nei
territori, ma è l’esito di un conflitto politico all’interno del PD e del
centrosinistra che ha visto anche SEL come bersaglio (come con i 45 falsi voti
per Rodotà tesi a far ricadere su SEL la responsabilità della mancata elezione
di Prodi). Questa rottura è figlia di una precisa lettura della crisi e di una
precisa collocazione italiana nei vincoli internazionali: porta con sé
un’egemonia moderata sul centrosinistra, il ritorno di una vocazione
maggioritaria e autosufficiente del PD, una risposta involutiva alla crisi dei
partiti.
L’opposizione al governo Letta, senza
rompere un dialogo con il PD, non può limitarsi a valutarne i singoli atti ma
deve contrastare l’ipotesi strategica su cui è nato e che oggi si coniuga con
le spinte alla modifica della Costituzione.
Una nuova fase
A partire dalla vicenda parlamentare
sulla Presidenza della Repubblica, fino all’opposizione al governo PD-PDL
frutto dell’egemonia “rigorista” imposta da Napolitano, SEL ha fatto la cosa
giusta, recuperando così ascolto e attenzione, offrendo un riferimento al
disagio in atto nella coalizione di centrosinistra. Avrebbe potuto e dovuto
sviluppare anche una relazione più avanzata con la sinistra che non si è
riconosciuta nella coalizione “Italia bene comune”.
La mozione contro gli F35, quella a
difesa della legge 194, l’intergruppo per l’acqua pubblica: le scelte di SEL e
la sua pratica parlamentare hanno dimostrato come sia possibile e utile la
funzione di una sinistra che non rinuncia alla propria autonomia ma si cimenta
con la sfida del governo, riconnettendo rappresentanza parlamentare e popolo
della sinistra.
Ma SEL si è scoperta al tempo stesso
impreparata a questa nuova fase: non ha mostrato una capacità di iniziativa nel
Paese, in grado di sostenere l’azione parlamentare e di delineare una
prospettiva leggibile.
Per incalzare il governo e farne
emergere le contraddizioni non basta dunque una buona opposizione parlamentare
che rischia di ridursi a un innocuo gioco delle parti, è invece necessario
costruire fatti reali, processi di aggregazione, essere presenti nei conflitti
che si producono nel Paese.
Una sinistra che pensi
il governo come leva per il cambiamento
Il congresso di SEL deve promuovere un
processo di aggregazione e di confronto, a cui alludeva la manifestazione di
piazza SS. Apostoli ma che ora deve individuare una prospettiva, una
progettualità e una consequenzialità nei fatti.
Crediamo ancora oggi nella necessità di
costruire una coalizione di centrosinistra innovativa, unitaria, aperta, capace
di uscire dal recinto dei partiti e valorizzare ciò che si muove al di fuori.
In questa prospettiva il rapporto con il Partito Democratico, il suo
insediamento sociale, la discussione che si sviluppa al suo interno restano un
terreno decisivo.
Il rapporto con i candidati alla
leadership del PD deve vedere una nostra autonomia e capacità di proposta. È
indubbio che SEL debba interloquire con chi sarà scelto dalle primarie e dal
congresso del PD ed è anche opportuno che SEL chieda a tutti i candidati una
presa di posizione critica sul governo delle larghe intese, ma tutto questo
deve avvenire con una chiarezza sulle ispirazioni programmatiche, sulle culture
politiche e sui modelli di coalizione. È necessario giocare il nostro ruolo non
solo nel “posizionamento” all’interno del dibattito tra gruppi dirigenti, ma
nella connessione con le domande della società, che ci chiede di
rompere con la religione dei vincoli di bilancio e l’ideologia liberista che ha
pesato anche sulla sinistra. Sarebbe un errore scegliere un rapporto
preferenziale con il candidato supposto vincitore solo in nome di una generica
idea di novità. Come abbiamo detto più volte non basta battere Berlusconi ma è
necessario superare il berlusconismo come cultura che ha pervaso anche la
sinistra.
Al tempo stesso va sviluppata una
capacità di ascolto e dialogo con la domanda di cambiamento e la critica alla
degenerazione dei partiti che hanno alimentato il Movimento 5 Stelle ma, soprattutto,
con quella sinistra larga che non ha creduto a sufficienza nella nostra
proposta e che oggi cerca una risposta più convincente.
Una discussione libera
su di noi, senza caricature e anatemi
La distinzione caricaturale tra chi
vorrebbe un soggetto politico aperto e chi un partito “strutturato” mostra
tutta la sua infondatezza e andrebbe rimossa. La capacità di iniziativa
politica di SEL, la sua spinta innovativa e credibilità dipendono però anche
dalla qualità del nostro modo di stare e di decidere assieme.
Senza affrontare questo cambiamento
culturale la scelta di costruire un congresso aperto può diventare la copertura
retorica di un malcostume diffuso anziché la scelta coerente di un vero
cambiamento. L’apertura al voto da parte dei non iscritti, specie in un quadro
in cui non si sono costruite relazioni con i movimenti e le realtà associative,
esporrebbe infatti la nostra discussione e la scelta dei gruppi dirigenti al
pressioni di lobby, gruppi di potere, portatori di interessi economici particolari,
togliendo diritti e possibilità di incidere a quanti e quante hanno scelto di
impegnarsi nella costruzione del nostro progetto.
Un soggetto che marginalizza la
partecipazione dei propri iscritti ha poca credibilità nell’aprirsi alla
società. E la capacità di relazione con tutte le energie che
crescono nella società può avvenire non solo con un pieno coinvolgimento nel
dibattito, ma anche con la possibilità di eleggere nei nostri organismi
dirigenti persone espressione dell’intellettualità, di esperienze di lotta, di
pratiche politiche e sociali innovative.
Questa relazione non si costruisce come
rapporto tra stati maggiori dei partiti e dei movimenti, non può basarsi sulla
cooptazione o sulla confusione di ruoli: SEL deve essere consapevole della
propria parzialità, rispettare l’autonomia delle altre esperienze e al tempo
stesso contribuire al loro sviluppo.
Lo sforzo di tenere aperto un difficile
dialogo tra il centrosinistra, i movimenti, le realtà associative e i comitati
è possibile solo se abbiamo l’autorevolezza di farlo perché forti di un
progetto, di una pratica reale e non per inerzia o strategie di
autoconservazione.
Un’altra politica, non
un altro partito
La capacità di iniziativa politica di
SEL, la sua spinta innovativa e credibilità dipendono però anche dalla qualità
del nostro modo di stare e di decidere assieme.
SEL per la sua missione costitutiva di
tenere insieme ragioni della sinistra e sfida del governo può svolgere un ruolo
decisivo, ma è indispensabile che prenda sul serio l’altro suo elemento
fondativo: l’ambizione di cambiare forme e linguaggi della
politica,
A Firenze abbiamo detto di non voler
fare un partito ma riaprire la partita: obiettivo che avrebbe richiesto
cura, progettualità, investimento. Questo sforzo di ricerca, di innovazione e
di cultura politica è stato messo da parte dopo il congresso di Firenze. Lo si
è fatto sulla base di una previsione e di una scommessa che non si sono
verificate: l’ipotesi di un percorso a breve verso primarie che avrebbero rimescolato
lo scenario.
Ma la partita non si gioca, e tanto meno
si riapre, a tavolino nel ristretto recinto del ceto politico.
Mancando questo investimento le derive
spontanee, non contrastate, hanno alimentato un modo vecchio di essere partito:
fondato sull’ossessione per l’equilibrio tra componenti senza una discussione
di merito, sullo schiacciamento sulla rappresentanza istituzionale e lo
svuotamento dei percorsi partecipativi, compromettendo gravemente la nostra
capacità di discutere, accogliere le diversità e svolgere un ruolo attivo nella
società. Tra i modelli tradizionali di partito e le degenerazioni dei partiti
attuali è necessario valorizzare il radicamento nei territori ma anche
l’impegno tematico, la relazione con i movimenti, il superamento di linguaggi e
modelli organizzativi gerarchici.
L’antidoto alla degenerazione dei
partiti non può essere la semplificazione populista ma nemmeno il ritorno alla
politica della sezione territoriale che non si misuri con nuovi linguaggi,
nuovi luoghi del conflitto, nuove domande di libertà e trasformazione. Va
rilanciata quella sperimentazione mai attuata dopo Firenze.
Oggi quella sfida torna di
attualità per la nuova funzione che SEL deve svolgere: nata per
trasformare la politica, riaprire i canali di comunicazione tra pratiche
sociali, culture politiche innovative e forme organizzate, deve interrogarsi
sul proliferare di iniziative che traggono ragion d’essere da questo vuoto e
dall’assenza di una proposta che (anche) SEL avrebbe dovuto costruire.
Perché un soggetto che non riesce a
discutere liberamente, che non è capace di produrre esperienze partecipate di
scambio e riconoscimento reciproco non può produrre elaborazione innovativa e
iniziativa nella società.
Se c’è una critica che crediamo di poter
fare al gruppo dirigente allargato è di non aver assunto per troppo tempo la
responsabilità di costruire SEL come corpo vivo, democratico e partecipato,
limitandosi a richiami retorici. Così siamo stati troppo spesso percepiti come
omologati alla politica di palazzo e ai suoi vizi. Senza assumere al
di là delle evocazioni retoriche il nesso profondo tra forme e contenuti della
nostra politica si ripropone tra noi, come osserva Vendola il malcostume di
un “politicismo coniugato alla poesia”
Nella crisi tra politicismo
e antipolitica
Ma la difficoltà di SEL è dentro una
crisi più generale: i partiti tradizionali sono stati sostituiti dai partiti
prede dei gruppi di potere locali, i partiti televisivi, i partiti personali;
sono mancati i partiti come esperienze plurali, capaci di produrre elaborazioni
condivise in relazione con quanto si muove nella società. . L’incapacità di
innovare e aprirsi ha impedito alla sinistra, variamente collocata, di
intercettare la domanda confusa di cambiamento che ha dato vita al più grande
terremoto politico della storia italiana. Si tratta di un processo lungo e
profondo che non nasce oggi e che procede su due piani tra loro intersecati: la
crisi dall’alto delle democrazie, strette tra il tabù dei vincoli “tecnici” dei
mercati e il loro uso ideologico, si è avvitata in un abbraccio mortale con la
crisi verso il basso come incapacità dei partiti di ascoltare e trasformare la
società.
È una riflessione che va ben oltre SEL e
che deve produrre un’alternativa al conflitto sterile tra politicismo e
antipolitica. L’assenza di dibattito nei partiti, la loro trasformazione in
apparati di potere e la degenerazione del disagio nelle sue forme rancorose e
semplificate sono due facce della stessa medaglia e si alimentano
reciprocamente.
Non è con il giudizio paternalista o
moralista sulle forme in cui il disagio si esprime che si contrasta
l’antipolitica, il rancore sociale, ma con la capacità di costruire una
politica “altra”. Come osserva Nichi Vendola nelle sue conclusioni alla Presidenza,
anche noi siamo parte di questa crisi.
Non è una semplice crisi della
rappresentanza, perché i partiti non sono solo strumenti per tradurre gli
orientamenti e gli interessi in rappresentanze parlamentar, i ma anche soggetti
che dovrebbero produrre analisi condivise, elaborare proposte programmatiche e
strategiche, spostare orientamenti diffusi nella società. Per questo non
abbiamo alcuna nostalgia della burocrazia, della gerarchia e
dell’autoconservazione dei vecchi partiti.
Rinnovarci, oltre la
retorica
Dobbiamo avviare una discussione sulle
forme della politica: le sue pratiche, i suoi linguaggi, il suo carattere
inclusivo, le forme di conflitto, partecipazione e costruzione delle decisioni
e degli indirizzi. Non si tratta di generiche petizioni di principio ma di
questioni che tornano oggi prepotentemente in superficie, mostrando la crisi e
i limiti di un’idea della politica che si ammanta di nuovo ma resta
vecchissima.
Si tratta di cogliere il carattere
cruciale di un nodo politico, almeno su due aspetti: la crisi dei partiti e
della democrazia sono lo scenario in cui SEL nasce e sono il terreno su cui
avanzano risposte sul piano politico e istituzionale che prefigurano una
involuzione, populista o tecnocratica, della qualità della nostra democrazia.
Al tempo stesso nessun nuovo processo a
sinistra può avviarsi, a nostro parere, senza un cambiamento profondo delle
culture politiche dei linguaggi e delle forme della partecipazione.
La crisi che ha segnato il
centrosinistra mostra come sia inscindibile il nesso tra forme della
partecipazione ed efficacia della proposta e dell’iniziativa politica, e
ineludibile il ripensamento di forme e modi di pensare la democrazia, la
rappresentanza, la partecipazione.
Dalla capacità di SEL di affrontare
questo nodo dipende la sua capacità di svolgere un ruolo autonomo e al tempo
stesso unitario, di raccogliere domande e intelligenze ma anche di interloquire
con ciò che si muove nella società, di avere un’adeguata capacità di
elaborazione.
La resistenza al cambiamento,
l’incapacità di ascolto sono frutto dell’attaccamento al potere, della spinta
autoconservativa del ceto politico locale e nazionale e avvelenano la
politica.
Predisponiamo delle regole limpide, per
decidere con procedure trasparenti le candidature di SEL a livello nazionale e
locale, l’incompatibilità tra incarichi amministrativi e candidature politiche,
limiti di spesa certi per le campagne elettorali dei candidati e obbligo di
pubblicizzazione dei bilanci negli organismi locali, modelli organizzativi e
costruzione degli organismi locali che garantiscano l’autonomia di SEL dalla
dimensione istituzionale.
Dobbiamo impegnarci attivamente per
ridurre i vincoli culturali che impoveriscono la nostra vita democratica,
cambiare i tempi tradizionali della politica che producono un monopolio
maschile sia nelle cariche elettive sia nei ruoli di responsabilità nei
partiti, valorizzare la presenza dei giovani, superare pratiche che premiano il
conformismo a scapito della ricerca libera, del confronto come condizione
essenziale in una comunità plurale, aperta, inclusiva e solidale.
Chi ha avuto in questi anni un ruolo di
direzione deve fare una riflessione autocritica sulle pratiche prodotte e
quelle colpevolmente avallate. È vero che molte persone hanno abbandonato SEL
perché espulse da pratiche di potere. Ma questa osservazione è utile se non
resta nella genericità, se è in grado di indicare quali degenerazioni si siano
prodotte, se siano state avallate o contrastate. Noi, avendo posto
ognuno per proprio conto nel proprio territorio questo problema per tempo,
sentiamo l’autorevolezza per chiedere una svolta vera nel nostro modo di
essere.
Una politica che si
emancipi dalla seduzione del potere
Perché la riflessione sulle nostre
difficoltà diventi proficua deve assumere la crisi di una politica ridotta a
gestione del potere, la sconfitta di modelli gerarchici e identitari nel
vivere i conflitti, nel pensare la democrazia, la rappresentanza, la
partecipazione.
In questi anni il femminismo, il mondo
ambientalista, le associazioni per i diritti civili, il pacifismo, il movimento
sindacale, le realtà di autogestione, il mondo dell’intellettualità hanno
prodotto esperienze, pensiero, proposte, strumenti di analisi da ascoltare e
leggere criticamente. Anche movimenti e associazioni si sono mostrati a loro
volta viziati da limiti di linguaggio e capacità di stare insieme oltre la
logica della gerarchia, dell’appartenenza e del potere.
È necessario produrre una critica dello
statuto della politica stessa, del suo fondarsi sulla separatezza tra pubblico
e privato, sulla gestione del conflitto in base alla logica amico-nemico, su
modelli di appartenenza basati su gerarchia, delega, rimozione delle
differenze, su una concezione separata e sacrificale della militanza, su
un’idea del potere maschile che ormai non corrisponde più nemmeno alla vita
degli uomini e al loro desiderio di libertà.
La crisi della politica è anche crisi di
una cultura patriarcale del potere, di rifiuto delle differenze.
Una cultura delle
differenze
Il fastidio per la critica o le
differenze, le forme di liquidazione o rappresentazione caricaturale quando non
di sospetto verso le posizioni critiche che troppo spesso emergono nella nostra
discussione sono indice della debolezza culturale di gruppi dirigenti incapaci
di misurarsi con una pluralità di punti di vista. Sono parte di questa stessa
crisi di cultura politica la degenerazione del conflitto in ostilità e
inimicizia reciproca, nell’invettiva dei militanti sul web verso i parlamentari
e dirigenti, nella liquidazione denigratoria dei gruppi dirigenti altrui.
Facciamo troppo spesso appello retorico alla valorizzazione delle differenze
senza una reale capacità di ascolto. Ridurre la valorizzazione delle differenze
a retorica porta o alla sua rimozione nella nostra pratica quotidiana o,
peggio, a confonderla con la rimozione dello scontro di interessi e visioni
della società, fino a giustificare strumentalmente l’accordo con le destre per
il “bene del Paese”.
La politica delle donne ci ha mostrato
un’idea non distruttiva ma creativa del conflitto, in cui l’esito non
è far fuori dialetticamente o fisicamente l’altro, e la cui
assunzione non chiede quindi di annacquare i conflitti e rendere opache le
differenti opzioni.
Alla logica della fedeltà allo
schieramento, al principio della delega, alla gestione proprietaria dei
partiti, preferiamo il confronto, l’ascolto della critica e la valorizzazione
dell’autonomia e della ricerca libera: per questo riteniamo urgente una
riflessione tra noi.
Vogliamo ripensare la politica come
pratica di libertà e autonomia, come relazione, come trasformazione e ricerca,
non come mero esercizio di potere.
12 settembre 2013
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