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mercoledì 6 novembre 2013

MONEY SUPREMACY di Fausto Rinaldi





MONEY SUPREMACY 
di Fausto Rinaldi



Non c’ è posto per tutti sulla Terra: il capitalismo, affermatosi a livello planetario, decide, in funzione dei meccanismi propri del mercato iper-liberalizzato ed autoregolante, chi viva e chi muoia; chi abbia diritto ad una casa calda e confortevole e chi, invece, sia costretto ad vivere in una baracca; chi possa accompagnare verso un futuro promettente la propria progenie e chi la debba abbandonare ai perigli del mondo.
Queste le logiche appartengono ad uno spietato conflitto distributivo, che sancisce inesorabilmente il confine tra “sommersi” e “salvati”.
Le regole a fondamento della società sono chiare: il valore delle persone viene misurato sulla base della loro capacità di produrre un “profitto”, alla predisposizione del soggetto di farsi strumento di interessi estranei; siamo evidentemente di fronte ad uno scadimento di quei rapporti relazionali che dovrebbero essere posti a fondamento della società stessa.
Bisogna chiedersi se questo sistema produttivistico-consumistico, che si origina su basi economiche e finisce per colonizzare culturalmente gli assetti sociali, sia, in qualche modo, accettabile. Quale forma di legittimazione è possibile, di fronte alle clamorose distorsioni e asimmetrie alle quali, quotidianamente, siamo chiamati ad assistere? E quali forme possibili di rifiuto e di protesta abbiamo a disposizione?

Nella società capitalistico-mercantile, tutta l’ attività sociale si presenta sotto le spoglie del calcolo econometrico, per la determinazione contabile del valore, delle merci, del lavoro, del denaro. Cuore e anima delle persone sono ingabbiati dalle meccaniche di formazione del profitto, della rendita e del salario, in un ambito in cui la riproduzione della propria esistenza si separa dai rapporti di interazione relazionale con i propri simili per approdare nel “mare magnum” degli equilibri contabili.
Nel concetto marxiano di “feticismo delle merci” è racchiusa la distanza dicotomica tra il “valore d’uso” e il “valore di scambio” che, tipica creazione di una società capitalistica, determina la separazione interna di una società divisa in classi fondamentalmente antagoniste. Il feticismo delle merci è una conseguenza, quindi, del primeggiare del valore di scambio sul valore d’ uso, con la conseguente deriva produttivistica, troppo spesso inglobata anche nelle logiche economiche di sistemi che si rifanno a teorie alternative al capitalismo stesso.
La concezione mistica della merce è un motore fondamentale per la riproduzione delle meccaniche che danno luogo all’ autopoietica capitalistica: ecco che, nella necessità del rinnovamento,  di creare un sistema che si autosostenga, si affacciano sulla scena i protagonisti del sistema capitalistico: in primis, 
l' incentivazione all’accentramento individuale delle risorse, all’accaparramento competitivo e ostentativo -   a connotare la propria attività sociale, che, sospinta dalla formalizzazione di valori positivi ad essa legati da parte di una società complice, costringe l’ individuo sul crinale di una concezione meramente agonistica del proprio transito terreno. Questo produce una volontà di profitto che percola sulla società, soffocandone i gangli vitali; la grande parte dei rapporti relazionali che si sviluppano in una società capitalistica è tenuta insieme dall' interesse economico.

E' evidente, come, in questo modo, vengano minate le fondamenta stesse delle collettività, dando luogo a società fortemente competitive e conflittuali, in cui il perseguimento ossessivo del possesso materiale produce gravissime tensioni interne al sistema  che sfociano in un insieme di attività illegali e socialmente pericolose (principi di etica sociale, abilmente modellati dalla propaganda borghese, si incaricheranno poi, di volta in volta, di connotare ideologicamente la tendenza alla trasgressione della società, attribuendole  lo stigma della colpa, in funzione alle proprie opportunità contingenti).
Il secondo dopoguerra non è stato che l’apice del periodo di espansione capitalistica, riprodottosi fin dai secoli XVIII e XIX;  una fase di accumulazione capitalistica su scala planetaria che ha visto il valore di scambio diventare la principale origine di formazione della ricchezza, e il “lavoro salariato” la forma storica di produzione del profitto, caposaldo del sistema di accumulazione capitalistico. Da questo momento in poi, merci e servizi vengono identificati con la loro espressione monetaria, cioè il valore di scambio, mentre il valore d’uso ne diviene un’appendice; questo dà origine a conseguenze sociali drammaticamente rilevanti. In questa fase, assurge a simbolo supremo di perpetuazione della società, di stella polare delle realtà socioeconomiche, il concetto di “progresso”, di “crescita” economica indefinita, della moltiplicazione degli scambi monetari (in forma reale o fittizia).
In quest’ ottica, le democrazie borghesi altro non sono che  sistemi politici che si sono incaricati di integrare la masse salariate, attraverso la creazione ed il riequilibrio costante di apparati che ne hanno fatto da cornice come partiti, sindacati,  meccanismi di rappresentanza collettiva, welfare, etc.. Fatalmente, tutti questi apparati, deputati alla rappresentanza politica delle masse, sono stati assorbiti dai meccanismi di gestione elitaria del potere ed hanno, pertanto, tradito la funzione per la quale erano nati.
Nell’ambito della società borghese esiste una rigorosa scala di valori, sedimentatasi nei secoli: la classe imprenditoriale, autentico “motore” del sistema - e per il soddisfacimento della quale vengono orientati gli interventi di politica economica emanati dai governi “democratici”; a seguire, tutti gli altri, in varia forma e funzione, dedicati alle operazioni di supporto del processo di accumulazione capitalistica; sia esso originato da un processo produttivo oppure da un investimento finanziario.
Ecco, perciò, che all’insorgere della crisi del sistema capitalistico globale, rivelata dalla diminuzione del tasso di profitto a seguito di una tensione sovra produttiva, corrisponde una pronunciata riduzione dei meccanismi di salvaguardia  del lavoro salariato. Si assiste ad una contrazione del regime di welfare, la cui intensità e costanza pare inesorabilmente condurre al suo smantellamento. Tutte le concessioni strappate nel corso del trentennio “keynesiano” si sono vaporizzate, di fronte ad un’ assalto neoliberista deciso a riconquistare le posizioni perdute. Si è, pertanto,  giunti ad una “de-integrazione” dei salariati che, attraverso  un percorso scandito da inesorabili processi di privatizzazioni, terziarizzazioni, precarizzazione del lavoro, riduzioni del salario reale, arretramenti normativi,  incremento della durata e dell’ intensità dell’ orario di lavoro, riduzione delle garanzie previdenziali (dal sistema “retributivo” a quello “contributivo”) e loro sottoposizione alla logica speculativa (finanziarizzazione), si vedono espulsi da un sistema di garanzie sociali che perseguiva lo scopo di rendere più accettabile la loro condizione di sostanziale subordinazione esistenziale ad istanze di carattere economico.
Il lungo declino capitalistico trascina con sé il livello della qualità di vita di eserciti di salariati e, con essi, le banali convinzioni conculcate a forza da media asserviti e pletore di intellettuali al soldo del potere borghese. Come detto, si sgretolano – insieme alle speranze di una coincidenza di interessi tra capitale e lavoro -  tutte quelle strutture che si erano incaricate di allestire una pietosa rappresentazione dell’ espressione di consenso sociale; quel che resta sono eserciti di lavoratori piegati, costantemente risucchiati dalle inesorabili logiche economicistiche del capitale.
Emerge, come effetto tra i più odiosi, una recrudescenza dei rapporti di concorrenza tra i lavoratori, sospinti in una condizione di mancanza di tutele e di garanzie, tale da identificarne la condizione in una tipologia di lavoro marcatamente “neo-servile”.
Predati da uno smarrimento ormai totale, dilaniati da una moltiplicazione “parsoniana” di classi censuarie, i lavoratori si trovano nella condizione di aver ridotto le loro istanze alla richiesta di un capitalismo più morbido, meno “neoliberista”, nell’ incapacità (coltivata dall’ applicazione sistematica di un pressante potere ideologico) di concepire prospettive che non li vedano fatalmente sottoposti all’ imperio della sottomissione impiegatizia. Le entità alle quali erano stati abituati a guardare con fiducia “democratica” si sono defilate, e stanno cercando di abbandonare il campo con il minor numero possibile di danni, attraverso la fuga o con la mimesi ideologica con l’ antico nemico.
Il subordine sociale ed esistenziale nel quale si muove il lavoratore salariato ne configura drammaticamente il ruolo; la definizione di “valore” capitalistico, che è il portato essenziale del pensiero dominante in una società data, lo relega inesorabilmente ad assumere una funzione secondaria, costantemente in relazione passiva con volontà ed interessi ad esso estranei.
Il salariato trae il proprio sostentamento dalle risorse che ricava dalla vendita (non libera; bensì, subordinata ad uno stato di necessità socialmente determinato) della propria forza-lavoro. Questa condizione è legata allo stato del mercato e/o alle necessità contingenti del datore di lavoro (il padrone, della sua vita), che determinerà la profittabilità del rapporto capitale-lavoro, e stabilirà se mantenere il dipendente nella condizione di poter “ricreare” la propria esistenza sociale.
Pertanto, una classe lavoratrice che non sia in grado di ribaltare gli equilibri dei dogmi capitalistici non potrà diventare una classe rivoluzionaria: introiettati tutti quei valori e quei principi etici attraverso i quali un acuminato sistema di potere ha fatto sì che esseri umani potessero essere usati da altri esseri umani a fini di produzione di ricchezza materiale; sottoposti a questo imperio e, perciò, incapaci di stagliarsi a guardare orizzonti più lontani, fino a quando non bonificheranno i propri principi etici, corrotti da anni di logiche produttivistico-consumistiche, i lavoratori non potranno custodire una coscienza sociale e politica capace di consentire il germogliare di valori di classe autentici. In questo caso, si andrà alla lotta con il nemico che muoverà alla nostra testa o, peggio, all’ atto dello scontro ci accorgeremo che il nemico siamo noi.
Quindi, risulta fondamentale che classe lavoratrice non prescinda da un approccio culturale ed etico al proprio ruolo sociale (“sovrastrutturale” secondo l’ impostazione gramsciana): bisogna abbandonare, liberandosene, le scale valoriali sussunte dal sistema di potere borghese; questo per ricostruire un insieme di principi e valori -  legato all’ affermazione della solidarietà e della cooperazione tra uguali – capace di creare una solida base sulla quale edificare una società più giusta e partecipe; si tratta di emanciparsi dalle logiche schiaccianti del denaro, delle merci (ed il loro consumo compulsivo), del lavoro (e della sua etica irrogata da un sistema che tende allo sfruttamento), del valore, del capitale, dello Stato borghese.
Bisogna guardarsi dalle contrapposizioni strumentali, in cui entrambe le parti (Stato contro capitale, Keynes contro Hayek, riformisti contro conservatori), al momento del loro prevalere una sull’ altra,  si incaricheranno inesorabilmente di schiacciare le popolazioni nei consueti, angusti confini. Fino a quando non si riuscirà a condurre la contesa facendosi portatori di un sistema di valori diverso da quello conculcato dal padronato non ci saranno speranze di emancipazione e salvezza.
Al tempo stesso, stante la conclamata insufficienza manifestata dal corrotto sistema dei partiti tradizionali, bisognerà giungere alla risoluzione del classico “vulnus” generato dalla contrapposizione storica tra “riformismo” e “massimalismo”; in assenza di una “rivoluzione culturale” capace di affrancare le masse dalla corruzione valoriale perpetrata dalla società borghese, nulla potrà essere raggiunto: le masse corrotte non potranno che originare forme di convivenza squilibrate, produttivistiche e prone agli strumenti di coercizione sociale borghesi.

Dunque, la discussione ruota attorno alla capacità delle masse popolari di rifiutare una concezione di società eminentemente legata alla “produzione per il consumo” (o, più propriamente, al “consumo per la produzione”, al momento in cui grande parte degli oggetti prodotti sono meramente voluttuari, cioè derivanti da desideri inoculati dalle necessità espansive del sistema di produzione), in cui le parole d’ ordine sulle quali la borghesia imprenditoriale edifica le colonne portanti del proprio dominio ( il mercato, il valore, lo sviluppo, l’ efficienza, l’ innovazione, la produttività, etc.), indicano la misura dell’ assoggettamento delle istanze esistenziali dell’  individuo nei confronti delle logiche economiche; l’ affermazione di un’ economia che prende a servizio le vite delle persone per raggiungere scopi utili alla perpetuazione di rapporti di potere dominanti da parte di oligarchie rapaci.
Negli anni della contestazione al sistema degli anni ’60 e ’70, le critiche avevano un fondamento solidamente innervato sulle distorsioni all’ origine dell’ impianto capitalistico; oggi,  la crisi del sistema sembra riverberarsi anche sulla qualità delle obiezioni mosse al sistema e sulla statura dei suoi critici, legati alla difesa di micro assetti e posizioni di piccolo privilegio. Dalla consistente critica anticapitalista, si è scivolati alle timide richieste per ottenere, se possibile, generose concessioni a discrezione dei padroni.
Risulta evidente come l’opposizione ai sinistri equilibri del capitalismo debba essere coerente e non legata 
all’acuirsi di crisi locali o generali; al tempo stesso, le manifestazioni di protesta non possono prendere voce per conto una di categoria o un comparto o un’associazione, senza che questo preveda un allargamento prospettico delle problematiche, che sono sistemiche. Un movimento dei lavoratori forte non può che manifestare, incisivamente, la massima solidarietà a salariati, anche di altre nazioni, in lotta. Viceversa (ed è quello a cui stiamo assistendo), non resterà che guardare alle infinite lotte parcellizzate di lavoratori via via sempre più deboli per sostenere lo scontro con le logiche schiaccianti brandite dal padronato.

In una realtà dove viene accettato che  dogmi economici scolpiti nel marmo possano schiacciare la vita delle popolazioni; dove il principio della “proiezione di colpa”, prodotto dalla relazione tra debitore/creditore (fondamentalmente, all’ origine del potere finanziario), cattura e annienta presente e futuro di intere generazioni; in questa realtà, le masse si muovono sospinte da una sostanziale, passiva, accettazione di un ruolo ritagliato loro dal potere dominante (quello che si è costruito una storia per mezzo di strumentali narrazioni identitarie e che si è dato una legittimità attraverso la creazione di un “corpus” legislativo costruito per sancirne la “coerenza”).
Restando ancorati alle logiche produttivistiche alla base degli equilibri capitalistici, quali speranze possono esserci per l’ emancipazione della classe lavoratrice?
Siamo certi che una fabbrica gestita da un consiglio di operai, ma vincolata alle leggi del mercato, non si potrebbe trovare nella condizione di doversi assoggettare, forzatamente, alle ragioni del sistema di accumulazione capitalistica, alle ragioni della “concorrenzialità” dei prodotti, alle economie di scala, alla razionalizzazione del ciclo produttivo, magari licenziando parte della manodopera? Possibile che non si possa  fare in modo che solidi asserti morali di fratellanza e cooperazione siano in grado di costruire entità orizzontali capaci di asservire l’ economia alla promozione e al benessere degli uomini, anziché renderla strumento di impoverimento per intere collettività?
La risposta risiede nelle logiche distributive assurde del sistema capitalistico; nell’orrida sperequazione che la società borghese porta con sé; nell’ esiziale furore produttivistico capitalista; nella contaminazione mentale che la volontà di accaparramento, posta a baluardo della riproduzione della società, ha prodotto nel cuore della vita sociale.
I caposaldi della “ratio” capitalistica debbono essere erosi alla base, decostruiti; e per far ciò bisogna, in prima istanza, rifiutarne lusinghe, modelli, simboli, etiche, logiche.

Fondamentalmente, la capacità di leggere la realtà globale in relazione ai suoi costitutivi essenziali (e quindi liberata dagli orpelli retorici e autogiustificativi utilizzati dalla società del “primo mondo” per sgravarsi la coscienza) diventa un valore importante; può risultare una ricchezza, il ritorno ad una “purezza” ontologica, smarrita nella congerie delle tesi salvifiche gettate all’ ammasso da carnefici dotati di armi ben affilate, e determinati a riprodurre nel tempo il proprio ruolo dominante.
Il fatto poi che l’ etica “occidentale”, conculcata con la viva forza del condizionamento ideologico, ci permetta di accettare tutto questo, non fa altro che rivelare la nitida immagine del fondamento sostanzialmente barbarico e assassino della nostra civiltà; di come, inesorabilmente, le nostre vite si sviluppino su un tappeto intriso di sangue e corpi di vittime delle quali ci nutriamo. Siamo una civiltà di antropofagi, ma dai gusti sofisticati e un' anima grande quanto, almeno, l' ipocrisia che la tiene in piedi: sempre pronta ad asciugare pudicamente qualche lacrima furtiva di fronte alle immagini delle conseguenze che il nostro modello di vita infligge in qualche sfortunata area del Sud del mondo.
D’altra parte, se vogliamo fare una piccola diversione storica, ci accorgiamo che è stata la nostra “civiltà superiore” a creare la tratta degli schiavi da portare in Sudamerica (dopo che i colà nativi erano stati sterminati a fil di spada o di batteri)  a scavare, fino alla morte, le miniere dei mille Potosì d’ Oltreoceano; siamo stati noi a strappare questa gente dalle loro famiglie per mandarli a morire (a milioni) tra i peggiori stenti, e dalla loro vite strappate ricavare lauti profitti. E’ stata la superiore civiltà occidentale, con il suo Moloch capitalistico, nella seconda metà dell’ Ottocento, ad invadere e colonizzare terre, civiltà, genti e culture in tutto il mondo; da quel momento, è stata solo una storia fatta di predazione, appropriazione con furto, rapina militar-armata, scempio di altrui diritti naturali, sottrazione di materie prime, assoggettamento politico, economico e culturale; è stato il momento in cui una civiltà oplita -  e priva di qualsiasi obiezione morale – decideva di prendere possesso, con la forza, di tutto il globo (questa follia si sarebbe poi ritorta contro quel mondo che, edificata la propria “Belle Époque” su un mare di sangue e sofferenze di popoli lontani, avrebbe finito per rivolgere contro sé stesso quell’ agghiacciante bagaglio di violenza sopraffattoria).

E ancora, quale “civiltà”, se non la nostra, ha messo in atto, nel secondo dopoguerra -  con Bretton Woods -  quelle organizzazioni (FMI, Banca Mondiale, GATT) deputate a ricolonizzare, con gli strumenti striscianti del predominio economico, nazioni ed economie meno sviluppate? Chi ha fatto del fomentare sommovimenti politici, guerre civili e rivoluzioni lo strumento principale per dare corpo a commerci indegni (sempre con la capitalisticamente inattaccabile logica del profitto)? A chi appartengono le multinazionali che si impossessano delle ricchezze locali attraverso la corruzione delle classi politiche locali e l’ assassinio degli oppositori? Chi decide gli embarghi verso nazioni bisognose, a provocare la morte per fame di migliaia (milioni, negli anni) di uomini, donne e bambini (BAMBINI)? Chi bombarda e cancella i governi di nazioni sovrane, sempre perseguendo logiche di controllo geopolitico e predazione di materie prime?  A chi appartengono i mercati dei “futures” che, speculando  anche sui generi di prima necessità (cereali), ne determinano fluttuazioni di prezzo in grado di causare carestie nei Sud del mondo? Chi brevetta, a mero scopo di lucro, medicinali che, se resi liberi, salverebbero la vita a milioni di individui? Chi trasforma, sistematicamente, in profitto il sangue degli “altri”?
Risposta: la nostra civiltà “superiore”; quella che ha fatto assurgere a Signore e Dio proprio il denaro e 
l'accumulazione materiale. L’anima del mondo Occidentale capitalistico gronda sangue; tuttavia, la sua coscienza è immacolata: un organizzato simulacro di menzogne storicamente determinate viene incaricato di fungere da schermo protettivo nei confronti dei pasciuti ed opulenti abitanti del Primo mondo e, a sopire sensi di colpa scomodi, interviene una infinità di associazioni, di varia specie, che si incarica di raccogliere denari con i quali apportare un qualche sollievo alle popolazioni derelitte, magari non prima di aver condito pletore di spot promozionali con immagini strappacuore di un' infanzia sofferente.

E’ evidente che la nostra civiltà abbia abdicato i valori della socialità, della condivisione, della relazione umana a favore del benessere economico e materiale; a sostegno di questa concezione dell’esistenza intervengono dispositivi culturali capaci di spingere l’ individuo a concepire la propria esistenza in funzione dell’ acquisizione, dell’ accaparramento di beni, verso i quali la società dei bisogni indotti orienta le preferenze, provocando un insieme di patologie comportamentali che vedono il soggetto “inculturato” vittima delle lusinghe consumistiche dettate da un sistema di condizionamento comportamentale efficacemente sostenuto da mezzi di comunicazione complici.
Vengono a cadere le minime forme di difesa nei confronti del bombardamento pubblicitario; addirittura, i messaggi pubblicitari entrano tragicamente a far parte della cultura del consumatore, ormai incapace di sottoporre a un adeguato vaglio critico né le logiche sottostanti ai comunicati commerciali, né la qualità dei messaggi assorbiti.
In Occidente, alla crescita materiale (sulla cui qualità varrebbe la pena di interrogarsi) sono stati sacrificati rapporti umani e relazioni interpersonali. La concezione dell’ esistenza alienata da valutazioni materiali; un’ etica del lavoro volta a schiacciare l’ individuo entro gli angusti confini della propria funzionalità materiale; una distorta proiezione della propria funzione sociale, soggiogata da logiche di competizione e prevaricazione portano, inevitabilmente, al risultato di una vita completamente privata della propria identità umana. Sono valori recuperabili? 
Come risulta evidente, la distribuzione delle risorse tra i diversi attori economici presenti nella società risulta pericolosamente sbilanciata a favore di minoranze privilegiate: alle moltitudini viene concesso solo uno sbiadito concetto di rappresentanza parlamentare, quotidianamente violato da una classe partitica indissolubilmente legata ai propri privilegi di ruolo ed alle proprie “lobby” di riferimento.
Quello che ha fatto il capitalismo è stato di trasformare intere popolazioni in “lavoratori dipendenti”, ossia, “neo-schiavi” le cui dipendenze esistenziali vengono sancite da  regolamentazioni statutarie capaci di inchiodare la loro vita al principio del massimo profitto capitalistico, in un’apoteosi parossistica di accumulazione di ricchezza a beneficio dei “padroni”.


Se si vuole custodire ancora qualche residua speranza in un domani liberato dall’imperio del profitto, occorrerà giungere alla definizione di un modello che sia in grado di rappresentare, con sufficiente fedeltà,  tutto quell’ insieme di variabili che hanno condotto il mondo nell’attuale condizione; un modello che sia in grado di abbracciare la rilevante quantità di significati, talvolta in apparente contrasto, e di racchiuderne la complessità in un quadro teorico coerente e capace di facilitare l’ interpretazione degli sviluppi futuri, aiutando a definire quali siano le potenzialità e dove possano essere cercati elementi di aggregazione sufficienti a creare un insieme compatto e coeso di individui, mutuamente legati da obiettivi comuni,  da un comune sentimento e da una comune concezione della vita di una collettività; un insieme di persone che sappia dare origine ad una società in grado di privilegiare gli interessi collettivi e fondamentali rispetto a quelli che scaturiscono da una concezione individualizzata e competitiva della vita; una società che sappia rispondere alle necessità fondamentali degli esseri umani, depurando la vita reale da tutte le necessità indotte inoculate da un modello sociale unicamente rivolto alla produzione per il consumo, compulsiva,  assurda ed estrema; ultima, disperata reazione concessa alla rarefazione dei contenuti esistenziali.



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