FRANCO
RUSSO: NECESSARIO
UN PROGETTO SOVRANAZIONALE PER ROMPERE L’EUROPA DEI MERCATI
Giovedì
20 febbraio il cofondatore di Ross@ sarà a Trieste per partecipare con compagni
italiani e sloveni al dibattito “Trattati europei: chi decide?”, che si terrà a
partire dalle 17:30 nella sala di via Fabio Severo 14/b. L’abbiamo
intervistato.
Intervista di
Norberto Fragiacomo
Franco Russo, classe
1945, vanta una lunga e coerente militanza a sinistra: iscrittosi nel 1961 alla
FGCI - da cui venne espulso sei anni dopo per aver promosso il Centro
antimperialista Che Guevara - ha preso parte al movimento del ’68 romano;
cofondatore di Democrazia Proletaria (del cui gruppo parlamentare è stato
presidente) e tra gli animatori della sinistra rosso-verde, ha poi aderito a Rifondazione
Comunista, ricoprendo dal 2006 al 2008 la carica di deputato. E’ stato anche attivo
nel Social Forum europeo da ‘Firenze 2002’ . Nel 2012, assieme a Giorgio Cremaschi e
ad altri, ha dato vita a Ross@.
Non è il classico
politico che parla di tutto senza approfondire nulla: Russo conosce come pochi
– non solo a sinistra – la complessa materia dei trattati e del diritto
europeo. La sua posizione è chiara: il 14 dicembre, all’assemblea di Ross@, ha
letto una relazione intitolata “Rompere l’Unione Europea” – unica via,
sostiene, “per battere centrosinistra e centrodestra, al governo insieme in
Italia, che portano avanti le politiche antipopolari dell’austerità. L’altro
nostro nemico è il populismo.”
Franco Russo sarà a
Trieste il 20 di febbraio, per partecipare a un dibattito transnazionale che
coinvolgerà i giovani compagni sloveni di Iniziativa per un Socialismo
Democratico e sindacalisti della Rete 28 Aprile: in previsione dell’evento
l’abbiamo contattato telefonicamente per porgli alcune domande che gravitano,
per l’appunto, intorno all’Europa e al suo/nostro futuro.
I: partiamo proprio dall’Europa. L’Unione e i suoi meccanismi di
funzionamento sono pressoché sconosciuti al cittadino medio: non potrebbero
rappresentare le prossime elezioni un’occasione per fare opera di divulgazione,
per sensibilizzare le masse su temi così delicati e decisivi?
FR: già tempo fa, in occasione di un convegno, proposi di
organizzare un Forum permanente sull’Unione europea e le alternative da
costruire. Così facendo, daremmo effettivamente una continuità a quella che è
una nostra necessità: riflettere sulle vicende UE e rilanciare un processo di
lotte, di rivendicazioni, di conflitti a livello continentale. Sì, per lottare
i cittadini devono innanzitutto sapere, essere al corrente.
I: questa crisi politico-finanziaria che chiamano “austerità” ci
viene da molti presentata come una lotta fra la Germania e i suoi satelliti, da
un lato, e l’Europa del sud dall’altro, una lotta impari e già decisa. E’
corretta questa interpretazione, o si tratta di una versione di comodo?
FR: se con questo s’intende una lotta tra borghesie nazionali,
simile a quella di un secolo fa, la risposta è no: stiamo assistendo ad un
altro spettacolo. In apparenza c’è lo scontro tra la borghesia greca e la borghesia
tedesca. Ma si tratta di vera lotta, oppure noi stiamo assistendo a un processo
di unificazione delle borghesie europee? Io penso che l’Unione Europea sia
proprio l’espressione di questa tendenziale unificazione, per quanto ovviamente
nulla è nella storia politica e sociale immediatamente già dato. Penso che
l’Unione Europea da cinquanta anni a questa parte, soprattutto in questa fase,
abbia rappresentato gli interessi unitari, dove per unitari s’intende che essa
ha mediato, tra l’agricoltura e l’industria ecc., componendo gli interessi
delle diverse borghesie nazionali. E vorrei citare un fatto a dimostrazione di
questa affermazione. Negli ultimi anni, nell’ultimo decennio sicuramente, c’è
stata una riorganizzazione delle filiere produttive con una nuova
redistribuzione geografica delle produzioni. In questo processo la Germania,
ovviamente, ha giocato il ruolo di capofila. Intorno al blocco industriale
tedesco non si muove solo l’industria tedesca ma anche le industrie di tutti i
paesi – chiamiamoli così – periferici. Si configura così un’area che va
dall’Emilia Romagna alla Romania, dal Belgio a un pezzo della Francia che ruota
intorno alla Germania.
I: un’alleanza strategica, dunque, tra le classi nazionali
egemoni. Qual è il ruolo dei partiti politici europei? Socialisti e popolari
sono alternativi, come ci vengono presentati, o due facce della stessa medaglia
– poliziotto buono e poliziotto cattivo entrambi corrotti dal neoliberismo
imperante?
FR: La risposta può essere tanto secca quanto semplice: nell’UE Partito
Popolare e PSE governano insieme con forme di consociazione che si esprimono
perfino nell’alternanza alla presidenza del PE. E la consociazione abbraccia
anche il sindacato europeo, la CES e il Business Council (se ricordo bene la
sigla della confindustria europea): nell’UE domina il cosiddetto ‘dialogo
sociale”.
I: dal partito al sindacato: abbiamo avuto una prova evidente,
con la vergognosa aggressione a Giorgio Cremaschi in CGIL, che neppure
organizzazioni asseritamente di sinistra tollerano oggidì le voci critiche,
l’anticapitalismo. Dobbiamo rassegnarci a sindacati uniformemente gialli?
FR: se oggi nella Unione Europea non ci sono quei conflitti di
natura continentale che avrebbero dovuto accompagnare gli scioperi generali
della Grecia, della Spagna e del Portogallo, ciò è dovuto alla presenza di
un’organizzazione sindacale europea la CES (Confederazione Europea dei
Sindacati), le cui organizzazioni afferenti hanno scientemente fatto in modo di
mantenere la pace sociale in Europa. Nel nostro continente abbiamo bisogno di
ricostruire un sindacalismo di classe a livello dell’Unione Europea. Un
sindacalismo di classe che in questo momento non c’è, come non c’è nel nostro
paese, perché la CES, in virtù dei famosi articoli, 152-156, 152 del Trattato
sul funzionamento dell’Unione Europea, garante del cosiddetto dialogo sociale,
ha sacrificato le condizioni di lavoro di milioni e milioni di persone per
difendere il proprio status di soggetto contrattuale legittimato dai padroni e
dall’UE. La stessa vicenda che si vive in Italia con CGIL-CISL-UIL. Che cosa
facciamo per costruire un sindacalismo di classe e democratico nel nostro paese
e in Europa? Che si possa fare è testimoniato, lo dico non per demagogia, da
quanto è successo recentemente a Taranto con la strepitosa vittoria dell’Usb,
dopo due anni di mobilitazioni intorno alle vicende dell’Ilva. Con questo non
voglio dire che si stia già aprendo la via al sindacalismo nuovo nel nostro
continente, quanto piuttosto che si pone la domanda fondamentale di un
sindacalismo democratico e conflittuale in grado di contribuire alla formazione
di un’organizzazione nuova a livello europeo.
I: partiti, sindacati “embedded”… ma chi comanda oggi in Europa?
I governi, i tecnocrati della Commissione, le grandi lobby
economico-finanziarie? Certo non il Parlamento, verrebbe da dire… ma chi conta
di più, tra i governi e le istituzioni UE?
FR: il “dittatore benevolo”dell’UE è costituito da Consiglio
Europeo, Commissione, ECOFIN, BCE. Sono poteri opachi e irresponsabili nei
confronti dei cittadini, chiamati a rispondere solo ai mercati. Altrimenti come
potrebbe il banchiere dei banchieri, Mario Draghi, dichiarare morto il modello
sociale europeo e chiedere rigore economico e disciplina fiscale ai governi,
che immediatamente obbediscono? siamo in presenza di un potere oligarchico
nella Unione Europea dovuto alle nuove procedure che sono state sintetizzate
nei famosi six-pack, two-pack e nel Fiscal compact che, al di là di
questi nomi astrusi, sono semplicemente sette regolamenti, una direttiva e un
trattato internazionale: essi hanno consentito di concentrare il potere
decisionale sulle politiche pubbliche a Bruxelles. Basta seguire l’andamento
dell’ultima legge di stabilità italiana in cui il governo italiano è stato costretto
sulla base di queste procedure a inviare la legge di stabilità il 15 ottobre
alla Commissione europea, la quale ha detto un nì alla legge stessa. Il governo
ha di conseguenza annunciato privatizzazioni e spending review, nuove
semplificazioni amministrative per ottenere un via libera dall’Eurogruppo,
riunitosi il 22 di novembre, pur non concedendole molti spazi di manovra. Non
vi è più il potere dei parlamenti, nazionale o europeo; essi non decidono le
politiche fiscali che, ricordo sempre, sono sempre state alla base delle
rivoluzioni borghesi. Le rivoluzioni borghesi hanno sottratto al re assoluto il
potere decisionale su entrate e spese pubbliche, assegnandolo al parlamento,
rappresentanza degli stakeholder,
per usare una parola moderna, cioè la borghesia che paga le tasse ed è
interessata allo sviluppo economico attraverso le misure fiscali. Ne segue che
è più facile dimostrare la presenza in Europa di un’oligarchia piuttosto che
una diversificazione o di un conflitto ai vertici. Inoltre non è vero che
l’Europa oggi produca delle spinte progressive, non lo fa più in nessun campo.
Nonostante gli interventi sulla parità uomo-donna, sull’orario di lavoro e sul
tempo determinato, dove l’Europa è intervenuta per sostenere alcune richieste
dei lavoratori, oggi non è più possibile sostenere che questo ruolo progressivo
è attivo ancora. Oggi il mantra dell’UE è consolidamento fiscale, tagli alle
spese pubbliche, riforme strutturali (flessibilità del lavoro, tagli alle
pensioni sociali e innalzamento dell’età pensionabile). Non si assiste più a
nessuna contraddizione fra mercato e Europa sociale. In due battute: who runs
this country? Vi è una gerarchia, al cui vertice stanno i tecnocrati.
I: ci sono quelli (in Italia il PD, in primis) cui l’Europa dei
trattati, dell’austerità e della sovranità limitata va benissimo: qualche volta
criticano, ma è finzione scenica. Poi ci sono quelli che vorrebbero rompere con
la UE e l’euro, ma per tornare agli Stati nazionali. E’ percorribile questa
seconda strada, visto che la prima ci conduce sicuramente al baratro? Ti
persuade, o pensi ce ne sia una terza?
FR: Non mi persuade affatto la
proposta della fuoriuscita dall’Unione Europea, e spiego il perché: se fatta a
livello di singolo paese, sarebbe semplicemente un’uscita ‘sovranista’. Io
penso che sia molto giusto invece lavorare per rompere l’euro, per rompere
l’Unione Europea, perché questo implica appunto un processo in cui deve essere
coinvolta la classe operaia di tutti gli altri paesi; occorre coinvolgerla nel
progetto di costruzione dell’altro sindacalismo e di una proposta politica
sovranazionale. È per questa ragione che non mi pongo il problema, ed evito
persino di discuterne, dei possibili danni provocati dall’uscita dall’euro,
perché il punto è che se noi vogliamo rispondere alla globalizzazione, al
potere globalizzato della borghesia, noi dobbiamo avere un progetto
sovranazionale e, che parte con la prospettiva immediata di rompere l’Unione
Europea per rompere l’euro.
I: a proposito di trattati, a cosa serve il Fiscal Compact, dove
vogliono portarci?
FR: il Patto Fiscale è un trattato internazionale, che in parte
supera Lisbona. Con il Patto Fiscale, oltre a delegare all’UE i poteri fiscali
attraverso il controllo delle politiche di bilancio, si completa la costruzione
di un ‘centro di governo’, come lo ha chiamato C.A. Ciampi: «I responsabili
politici che decisero la costituzione della moneta unica erano consapevoli che
il sistema avrebbe potuto operare correttamente solo se integrato con la
creazione di un centro di governo della politica economica dell’Eurozona, con
compiti di supervisione delle politiche di bilancio degli Stati membri, al fine
di assicurare il rispetto dell’equilibrio dei rispettivi conti pubblici,
presupposto per la crescita economica dei singoli Stati dell’Eurozona nel suo
complesso». Con il Patto Fiscale il centro di governo ha trovato una più
compiuta espressione perché ora in esso confluiscono sia le decisioni di
politica monetaria sia quelle di politica fiscale. Questo centro di governo si articola
in strutture formate da governi e da organi ‘tecnici’, come la BCE:
un’oligarchia esercita il potere economico-fiscale nell’UE. Con il Patto
Fiscale, un trattato internazionale, si giunge a manomettere le stesse
Costituzioni. Si afferma all’art. 3, comma 2, che le regole del pareggio di
bilancio: «devono avere effetto nelle leggi nazionali delle Parti contraenti al
massimo entro un anno dall’entrata in vigore del Trattato attraverso previsioni
con forza vincolante e di carattere permanente, preferibilmente
costituzionale». L’ordine è stato prontamente eseguito: la modifica
dell’articolo 81 è avvenuta a tempo di record. Il progetto dell’UE e dei
governi è evidentemente quello di affidare la crescita alle politiche
dell’offerta e alle ‘riforme di struttura’, volte a rendere più flessibili i
fattori produttivi e ad aumentare la produttività.
I: abbiamo fatto un fuggevole cenno al Parlamento Europeo, ma
giova parlarne, se non altro perché tra tre mesi votiamo per il suo rinnovo.
Questa istituzione è quasi una foglia di fico, perché al di là di quello di
censura – più teorico che pratico – i suoi poteri sono limitatissimi, in un
quadro dominato da tecnocrazie a governi borghesi. Quale utilità effettiva può
arrecarci, come cittadini-lavoratori, la partecipazione a questa competizione
elettorale?
FR: non parlerei di foglia di fico. E’ un Parlamento che ha
competenze effettivamente limitate, ma che comunque negli ultimi anni ha
acquisito un potere di veto, negativo, può intervenire. In questa fase storica
ha un senso una costruzione di sinistra purché metta in discussione i trattati,
dica no, in modo che si apra una crisi in Europa. Bisogna elaborare una
Costituzione europea, sulle orme di Spinelli nell’84, una Costituzione
democratica da sottoporre al voto dei cittadini. In una situazione di crisi
delle istituzioni, il Parlamento deve avere il coraggio politico di assumere un
ruolo propulsivo, da protagonista.
I: una delle novità di questa consultazione europea è
rappresentata dalla lista di sinistra cui Alexis Tsipras, leader di Syriza, ha
prestato il suo nome. L’elemento più positivo è senz’altro la volontà di
elaborare una proposta di livelli sovranazionale; si scorge però anche una
certa dose di ingenuità, la convinzione di poter rinegoziare i trattati europei
nel rispetto delle regole attuali, nonché di poter riportare sulla retta via un
PSE che ha invece convintamente abbracciato la logica dell’austerity e dello
smantellamento di welfare e diritti. Cosa ne pensa Franco Russo, qual è la
posizione di Ross@?
FR: una lista che vuole “rinegoziare” parte già sconfitta, il
problema è togliersi il cappio dal collo. Se andassi al governo chiederei la
fuoriuscita dall’Unione, prevista dal Trattato di Lisbona: le discussioni sul
deficit di democrazia sono insufficienti, potevano andar bene nel quadro di
Lisbona, ma l’approvazione dei trattati di cui si è detto ha mutato la
situazione. La rottura è l’unica risposta alla crisi. Finora le grandi
battaglie dei greci sono state ininfluenti, perché dirette solo contro il governo
nazionale. Avrebbero dovuto pretendere una nuova politica dalla BCE… siamo
comunque nel campo del futuribile. Se vuoi distinguerti dalla destra devi
mettere in discussione i trattati coinvolgendo tutti i popoli, tutti insieme.
I: in conclusione: Ross@ appoggia la Lista Tsipras, malgrado i
suoi limiti (particolarmente evidenti in Italia, dove un pugno di intellettuali
si sono messi a giocare alla rivoluzione)?
FR: non partecipiamo alla Lista Tsipras, ma non le facciamo la
guerra. Non aderiamo, la loro visione è confusa: ad esempio, vedono il
sindacato europeo come strumento di cambiamento, ma è complice.
I: grazie a Franco Russo per la sua disponibilità e… benvenuto a
Trieste!
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