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lunedì 17 febbraio 2014

UNA POSSIBILE RICOSTRUZIONE DELL'ASCESA POLITICA DI RENZI di Riccardo Achilli




UNA POSSIBILE RICOSTRUZIONE DELL'ASCESA POLITICA DI RENZI


di Riccardo Achilli


Su Formiche.net, Emanuele Macaluso ci offre la sua chiave di lettura degli eventi che hanno portato all'ascesa di Renzi a Palazzo Chigi. Si tratta di un articolo,che il caro compagno Marco Lang ha circolarizzato, che a mio avviso è particolarmente interessante soprattutto perché, tra le righe, offre una lettura di cosa stia passando per la mente di Napolitano in questi giorni. Infatti, Macaluso è un antico compagno di corrente di Napolitano fin dai tempi del migliorismo nel PCI, e conserva un'amicizia personale con il Presidente. Quindi è più che probabile che nella sua interpretazione degli eventi di questi giorni filtri qualcosa del pensiero dello stesso Napolitano. E certo, se così è, non filtra un'idea favorevole su Renzi, qualificato da Macaluso come combinato disposto di ambizione senza progetto e di mancanza di esperienza politica internazionale. Né appare favorevole il giudizio sulla "fase" (parola tornata di moda...) fra sbracamento del PD ("che ha offerto una prova preoccupante apparendo come una forza che non ha, sul piano politico e dei rapporti personali, un minimo di spessore"), consapevolezza del punto particolarmente basso raggiunto dalla crisi politica e di rappresentanza in cui si avvolge un Paese che esce da una disastrosa II Repubblica senza intravedere una risalita, e, last but not least, certezza che non si arriverà al 2018 (come è ovvio, atteso che, per Renzi, addirittura ottenere un voto di fiducia con numeri ampi, "di sicurezza", sembra un'impresa non facile, stretto com'è fra le ostilità di ampia parte del suo stesso partito, che lo costringono a mantenere il ruolo di segretario per cercare di controllare la situazione, ed i contrapposti interessi di Alfano e Berlusconi, che però sono entrambi indispensabili per il fiorentino). Se queste considerazioni riflettono l'analisi di Napolitano, è chiaro che Renzi dovrà essere preoccupato: in queste condizioni, è difficile pensare che il Presidente metterà a disposizione del Governo il suo contributo politico/diplomatico per tenerlo in piedi nelle fasi difficili, come ha fatto con Letta, letteralmente messo sotto tutela presidenziale per mesi, ed in passaggi molto delicati (come il voto di fiducia di ottobre che ha portato alla spaccatura del Pdl, e in cui Letta rischiava il collo). E neanche l'idea di convincere Napolitano ad andarsene, magari (come sembra iniziare a filtrare) per sostenere l'ascesa di Prodi al Colle, sembra impresa facile (dice Macaluso: "lui stesso (Napolitano) ha più volte spiegato che è tornato al Quirinale per accompagnare e garantire il percorso di riforme a partire dalla legge elettorale. Dopodiché rassegnerà le dimissioni". Cioè niente speranza di dimissioni prima che le tre riforme istituzionali siano state portate a termine, il che comporterà mesi di lavoro. Renzi dovrà confrontarsi con un Presidente che non sembrerebbe, da quanto traspare da Macaluso, molto propenso ad aiutarlo. Davvero una situazione critica per il fiorentino, in un contesto sociale ed economico ancora caotico, con i vincoli europei e nessuna esperienza né relazione politica internazionale per affrontarli, un partito propenso all'ammutinamento continuo, il cui clima interno è stato reso ancor più velenoso dallo stesso Renzi (un record, in soli due mesi da segretario) ed una maggioranza lacerata dal duello Alfano-Berlusconi, che sono entrambi interlocutori forzati per il Nostro. Altro che 2018... Renzi dovrà accendere un cero per ogni settimana che porterà a termine.   

Quello che mi colpisce, nell'analisi di Macaluso, è il fatto di aver messo il ruolo dei poteri forti finanziari esterni e della borghesia imprenditoriale nazionale in secondo piano, quasi sullo sfondo, presentando i motivi con i quali Renzi è arrivato al potere come decisioni essenzialmente personali. anche in questo, forse, pesa il rapporto con Napolitano, e la volontà di non metterlo troppo in imbarazzo. Ma la realtà è che lo scontro che coinvolge "gli sponsor di Renzi esterni al Nazareno: imprenditori e rappresentanti della finanza" è lo scontro primario, il cui esito è stato il principale motore dell'ascesa di Renzi a Palazzo Chigi e del tradimento perpetrato nei confronti di Letta, non è secondario, o periferico, rispetto alla battaglia di potere interna al PD, come Macaluso vuol farci credere.

Basta una rapida occhiata alla storia di queste ultime settimane per rendersene conto. La vittoria di Renzi alle primarie concluse a dicembre genera inevitabilmente una spaccatura dentro il partito,  fra un premier che non è stato benedetto da un voto, ed un leader che si porta dietro l'investitura di 1,6 milioni di voti e che deve acconciarsi a fare il segretario di partito (il cui statuto peraltro prevede che il segretario sia anche candidato premier). Questa oggettiva spaccatura, al di là delle volontà individuali dei due protagonisti, è un ulteriore granello negli ingranaggi, già peraltro piuttosto bloccati, del Governo-Letta. Rende impossibile modificare una legge di stabilità inutile e minimalista, non in grado di rilanciare la crescita e nemmeno di soddisfare le esigenze della Commissione europea, attirando sul Governo Letta l'ostilità bipartisan di imprenditori e sindacati, il che ovviamente genera un'ondata d'urto inevitabile anche sui vertici del PD. Essendo il PD un partito privo di una solida identità politico/culturale e di una autonoma visione strategica, ed essendo caratterizzato dalla peculiare debolezza organizzativa di un associazionismo per correnti aggregate primariamente per motivi di potere e non di visione, risente inevitabilmente, in forma amplificata, delle tensioni generate nel corpo sociale, perché non è in grado di governarle. 

Queste onde magmatiche di tensione che si propagano nelle linee di frattura di un corpo già spaccato fra premier non eletto e segretario (discutibilmente) eletto, aggravate dalla difficoltà che ha Renzi nel fare operazioni di ricucitura e mediazione, come il suo ruolo richiederebbe, generano inevitabilmente tensioni sulla tenuta del Governo, che si manifestano, visivamente, con le dimissioni di Fassina dal suo ruolo di viceministro, il 4 gennaio, impossibilitato a sostenere, contemporaneamente, il suo ruolo di responsabile di governo, le bordate critiche, in larga misura irresponsabili, che provengono dal suo stesso segretario (e dobbiamo ricordare quanto, per un uomo di formazione ex comunista, la disciplina di partito conti) e la sua stessa insoddisfazione per l'eccessiva prudenza con cui Letta e Saccomanni si approcciano ai vincoli europei. Le dimissioni di Fassina rendono evidente l'impossibilità di una convivenza di medio periodo fra Renzi ed il Governo Letta, e non a caso quest'ultimo si adopera fino all'ultimo per farle rientrare. 

A questo punto, diviene evidente, agli occhi dei potentati finanziari ed economici che osservano, con il fiato in gola, le torsioni di un Paese too big to fail, che il Governo Letta, che già di per sé procede ad andamento lento, rischia di paralizzarsi in un casqué finale, risucchiato nel conflitto di potere interno al PD, generato da uno Statuto suicida, da regole sulle primarie totalmente demenziali, e da scontri interni che assumono anche connotati personalistici. La preoccupazione di questi potentati si rafforza quando, il 20 gennaio, con un errore politico e strategico che pagherà soltanto a partire dai prossimi mesi di governo, Renzi decide di chiudere un accordo politico sulla riforma elettorale e le riforme istituzionali con Berlusconi, senza passare neanche da un accordo interno preliminare al proprio stesso partito, come logica e correttezza politica vorrebbero. Il che rafforza ed amplifica la spaccatura in atto nel PD, esplicitata, plasticamente, dalle furiose dimissioni di Cuperlo da Presidente dell'AN il giorno dopo, in evidente polemica con questo metodo renziano. Metodo, è bene dirlo, che non discende da un approccio strategico di scenario, in base al quale il rapporto con Berlusconi avrebbe fornito la chiave per sostituire Letta al Governo, per il semplice motivo che Renzi non ragiona in termini strategici. E' piuttosto un astuto tattico che affronta le questioni con l'approccio del "day-by-day". Non riuscendo a costruire un compromesso con le componenti di minoranza del PD, l'unica soluzione è quella di delegittimarle, andando a discutere con l'avversario, e così scavalcandole. 

Inizia in quel momento il lavorio di distruzione del Governo Letta, da parte dei poteri forti finanziari, spalleggiati da Confindustria. Tali potentati si convincono che lo stallo della situazione politica non possa che accentuarsi nei mesi a venire, a seguito dell'approfondimento dello scontro politico interno al PD, e ne ritraggono, come conseguenza, che occorra mettersi nelle mani di qualcuno in grado, con un salto da acrobata, di scavalcare la frattura interna al principale partito di maggioranza, costruendo un ponte diretto con la principale forza di opposizione (al netto del M5S, che è inutile, perché geneticamente contrario a qualsiasi accordo politico) ovvero FI. Renzi, da questo punto di vista, con il suo rapporto privilegiato con Berlusconi, rappresenta il candidato ideale. Anche perché (pensano loro) l'energia irruente di un leader nella sua fase ascendente, come Renzi, può, forse, dare una scossa all'intero sistema, sclerotizzato dentro una crisi di rappresentanza con origini lontane (acuite dal fatto di essere stato eletto con il Porcellum). Ed inoltre, eliminando uno dei due corni della spaccatura del PD (ovvero Letta) gli stessi poteri si augurano che, perlomeno per qualche mese, il partito si ricompatti attorno a Renzi. 

Renzi, dentro questo processo, è a lungo (e a mio avviso sinceramente) ostile all'idea di assumersi direttamente la responsabilità di governo. Per motivi molto pratici: non può fidarsi di un partito che non è stato domato, e dal quale però ovviamente, in qualità di premier, verrebbe a dipendere. Non può tenere insieme il rapporto con Berlusconi, fondamentale per fare le riforme istituzionali cui ha legato la sua stessa carriera, ed al tempo stesso le paure di Alfano di essere maciullato nell'asse Renzi-Cavaliere. Molto meglio "colonizzare" il Governo Letta, genufletterlo alla propria piattaforma programmatica, fargli adottare il proprio programma politico, in modo tale che agli occhi dell'elettorato le riforme sono state comunque fatte grazie all'impulso di Renzi, farsi un anno da segretario in modo da impegnarsi per demolire le correnti e le componenti interne ostili, "renzizzando" l'intero partito, e al momento opportuno ed elettoralmente più favorevole staccare la spina al pisano ed andare al Governo con il vento in poppa del voto popolare. Ancora il 10 febbraio, come fa sapere Scalfari, Renzi confida a Napolitano che non intende sostituire Letta, ma che vuole che il Governo Letta si presenti alle Camere con un programma che rifletta la sua visione. La scarsa priorità assegnata al tema della composizione e della guida del Governo è anche data dal fatto che la discussione interna al PD sulla questione è calendarizzata ad una DN da tenersi, con tutta tranquillità, il 20 febbraio, addirittura dopo la discussione sulle elezioni europee ed i rapporti con il Pse, da tenersi il 13 (ed ovviamente il calendario ed i temi delle DN sono proposti dal segretario, cioè da Renzi). La stessa ostinata e reiterata avversione ad aumentare la propria quota correntizia dentro il Governo Letta, tramite un rimpasto, è da leggersi nell'intento di mantenere le mani libere, in modo da poter far cadere Letta quando lo si deciderà, addossandogli tutte le colpe di quanto non fatto, rispetto al programma che Renzi propone. 

Ma poi, nell'ultima settimana, tutto precipita. Complice anche l'errore, dettato da prudenza eccessiva, dell'asse Letta-Napolitano di non avviare una robusta verifica di Governo, con tanto di rimpasto e revisione programmatica, entro la prima decade di febbraio, che avrebbe rilanciato l'esecutivo quando ancora c'era il tempo di farlo, e dimostrato ai poteri finanziari ed imprenditoriali una rinnovata energia e voglia di fare, questo stesso esecutivo viene letteralmente demolito in pochissimi giorni. Il punto di svolta si colloca nella serata del 5 febbraio. In quel giorno, si tiene infatti un incontro fra Letta e Squinzi. Letta promette di tornare, entro il 19, con un programma di politica economica per gli ultimi 10 mesi di governo, che accontenti le richieste della borghesia industriale italiana. Ma la sera stessa Squinzi rilascia un comunicato che gela ogni speranza di dialogo: "Enrico Letta -si è impegnato a tornare da noi il 19 febbraio per Consiglio direttivo di Confindustria portando soluzioni, ma se dovesse arrivare con la 'bisaccia vuota' "sarebbe un grosso problema: a quel punto non ci resterebbe che appellarci al presidente della Repubblica, che credo che nella sua grande saggezza prenderà le decisioni giuste". Squinzi ha poi ricordato di conoscere "bene Letta da tanti anni" e ha sottolineato di credere che "il suo immobilismo deriva da situazione politico-istituzionale piuttosto confusa". Il giorno dopo, Squinzi va ad incontrare Renzi  a Firenze, a margine di un convegno, ed i due hanno un colloquio, probabilmente determinante: è del tutto presumibile che Squinzi comunichi al sindaco fiorentino l'intenzione di Confindustria di puntare su una sua immediata ascesa al Governo.  
Fra il 10 ed il 12 febbraio inizia un attacco coordinato, i cui mandanti sono facilmente reperibili nei centri di comando della finanza anglosassone, contro Napolitano, principale tutore e difensore del Governo Letta, evidentemente con il fine di dissuaderlo dal difendere il suo prodotto politico. Prima alcuni articoli critici sulla stampa finanziaria anglosassone, poi il falso scoop di Alan Friedman, giornalista di orientamento politico liberale, in buoni rapporti con la stampa influenzata dalle banche d'affari e dai fondi di investimento statunitensi (avendo lavorato per il Financial Times ed il Wall Street Journal) relativo ai contatti fra Napolitano e Monti dell'estate del 2011. Una notizia che in realtà è una banalità, ma che viene confezionata come se fosse uno scandalo, e che provoca, come reazione meccanica ed inevitabile, una spirale di polemiche fra FI e il Quirinale, e che finisce, oggettivamente, per indebolire la posizione di garante super partes di Napolitano agli occhi della quota di opinione pubblica legata a Berlusconi. Si tratta evidentemente di un attacco abilmente orchestrato, che si sovrappone a quello già avviato dal M5S. Tale mossa toglie a Napolitano, di fatto, ogni residua velleità di supporto a Letta, peraltro già molto debole anche senza bisogno degli attacchi esterni. Il 10 febbraio, dal Portogallo, Napolitano, già consapevole del logoramento del Governo-Letta, dichiara infatti che sul Governo la parola finale spetta al PD. E la sera, quando incontra Renzi al Quirinale, il Presidente ribadisce la sua linea di neutralità, invitando Renzi ad assumersi le sue responsabilità di leader. Nel contestuale incontro con Letta, Napolitano si limita a garantirgli, freddamente, una non incoraggiante non-ostilità nei suoi confronti. Ma non ci sono più gli spazi per un sostegno a tutto campo. Finanza internazionale e borghesia industriale hanno emanato il loro giudizio. 

Il giorno dopo, mentre si scatena il falso scoop su Monti e Napolitano, Renzi va a parlare ai deputati del PD e inizia a cambiare orientamento: non più la volontà di colonizzare il governo Letta, ma la messa sul tavolo, per il momento ancora sotto forma di possibilità, di sostituirvisi. Dice infatti Renzi che "la batteria del governo è scarica, e tocca al Pd decidere se va ricaricata o cambiata". Si decide contestualmente di anticipare la DN del PD dedicata al Governo, dalla data originaria del 20, al 13. In un ultimo tentativo di difendersi, il 12 febbraio Letta illustra alla stampa il suo programma "Impegno Italia", che riprende, punto per punto ed in modo fedele, tutte le richieste di politica economica ed industriale di Confindustria, e tutti i punti programmatici della piattaforma di Renzi. Ma il tempo è scaduto. Squinzi non si degna nemmeno di leggere la proposta, e la bolla come insufficiente nel merito, pur essendo una fotocopia delle richieste tradizionali di Confindustria. I poteri forti hanno già deciso. Via il timido Letta, dentro l'aggressivo Renzi che, con il voto della DN del 13, raffazzona un nuovo, e del tutto illusorio, rattoppo della spaccatura interna del PD, con la minoranza cuperliana che vota con i renziani a favore della staffetta, abbandonando agli squali un Governo Letta che, fino al giorno precedente, si erano impegnati a difendere. E i lettiani che, per contribuire a questa illusione di ritrovata unità, si limitano ad astenersi al momento del voto. 
In questo contesto, i tre aspetti che Macaluso sottolinea nel suo articolo (la volontà di Renzi di controllare la data del voto grazie all'ascesa a Palazzo Chigi, il suo timore di logorarsi rimanendo a lungo segretario, la volontà di dirigere le circa 50 nomine di manager pubblici nei gangli strategici dell'economia italiana) sembrano solo gli argomenti che Confindustria e i supporter renziani della grande finanza hanno usato per convincere definitivamente Renzi a correre subito verso la premiership (ed aggiungerei un quarto motivo, ovvero lo spirito da avventuriero di Renzi che gli fornisce una evidentemente illusoria certezza di farcela sempre a sfangarla anche nelle situazioni peggiori, avendo sempre giocato in attacco), e non certo i moventi fondamentali o primari che hanno determinato gli eventi. Che si sono verificati ben lontano dai centri della politica romani, o dalle teste dei protagonisti. 

Naturalmente l'azzardo renziano nasce su basi fragilissime: l'apparente unità del PD durerà ben poco, prima che i numerosi nemici di Renzi escano allo scoperto; il rapporto Berlusconi-Alfano è semplicemente incomponibile, ed avrebbe richiesto una virata a sinistra, abbandonando Alfano per Vendola, che però Renzi, per motivi antropologici e per i vincoli che gli impongono i suoi "dominus" della finanza neoliberista, non può permettersi. L'esigenza di far durare il Governo imporrebbe un deciso rallentamento dell'iter della riforma elettorale, ma un Governo che nasce esclusivamente per accelerare su tutto non può permettersi un simile tatticismo, per cui la riforma sarà approvata rapidamente, e da quel momento, ogni giorno che passerà, il Governo-Renzi sarà sotto scopa per un possibile ritorno alle urne. La riforma del Senato, quando si arriverà ad esaminarla, sarà probabilmente una lapide funeraria, perché i senatori preferiranno far cadere il Governo che votare la loro autodissoluzione. Il semestre italiano di presidenza della Ue sarà un inferno. Berlusconi sarà stato rilegittimato politicamente dallo stesso Renzi, ed avrà a disposizione una legge elettorale ritagliata sulle esigenze del suo partito (d'altra parte, l'ha dettata lui) e probabilmente dopo qualche mese di servizi sociali riuscirà, con i suoi avvocati, a ottenere sconti di pena tali da riconsentirgli di rientrare in campo. Un rientro in campo che sarà favorito dalla inconsistenza di Alfano, incapace di ricostruire la destra, e dal terrore che la borghesia avrà della crescita del M5S, a fronte del più che probabile tracollo del PD (favorito anche dalla scelta di Renzi di rimanere segretario, in modo da trasferire sul partito i guai del Governo). 


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