SUPPLY SIDE ECONOMICS
di Fausto Rinaldi
Commissione Europea e istituzioni finanziarie europee, in
ottemperanza ad uno dei dogmi più rispettati della “ratio” neoliberista, quello
della “Supply Side Economics” - cioè di iniziative governative intese
unicamente a determinare uno stimolo dell'economia dal lato dell’offerta - , stanno promuovendo unicamente iniziative che spingano ad un
abbassamento dei fattori di costo della produzione.
Questa impostazione – tra l’altro, coerente con i principi
del pareggio di bilancio – prevede che lo Stato intervenga agendo sui fattori
che influenzano la competitività dell’offerta (ricerca e sviluppo,
infrastrutture strategiche, istruzione e formazione, reti Ict ed
energetico/ambientali) e relativi effetti sulla produttività,
nell ipotesi che vi soggiace e, cioè, che lo shock di produttività comporti effetti
di sostituzione (aumento delle quantità acquistate a seguito della diminuzione
del prezzo del bene) e di reddito (i prodotti costano meno e, pertanto, aumenta
il reddito relativo) capace di far crescere l’economia e, quindi, domanda e
occupazione.
Il supporto scientifico all’approccio neoliberista dell’economia europea viene dato dai moderni schemi della teoria neoclassica,
forniti da Lucas e Sargent nella Nuova Macroeconomia Classica (una scuola
macroeconomica, sorta negli anni ’70 del secolo scorso, che costruisce la
propria analisi unicamente sulla base di modelli neoclassici, in opposizione
alla teoria keynesiana), e perfettamente coerenti con le teorie del “Real Business
Cycle” – emerse negli anni ’80 come applicazioni della NMC e della cosiddetta
“critica di Lucas ai modelli macroeconomici utilizzati dalla programmazione
economica keynesiana”. Questi modelli, oltre ad aver dato origine a una classe
di metodi statistici di previsione (anche legati alla matematizzazione della
disciplina economica), intendono affermare che le fluttuazioni del ciclo
dipendono da shock esogeni, cioè, da perturbazioni esterne al ciclo economico
(in base alle loro teorizzazioni, tendente all’equilibrio naturale), relative
al lato dell’ offerta e che comportano, quindi, una risposta efficiente da
parte di agenti considerati razionali e dotati di tutte le informazioni
necessarie; quindi, sono attese decisioni produttive, di consumo, di investimento
o di risparmio in grado di generare una fluttuazione del ciclo economico.
In sostanza, la fase recessiva attuale rappresenterebbe una
risposta efficiente ad uno shock esterno al ciclo e che influenza negativamente
la competitività
Ecco svelato il modello al quale Merkel, Barroso, Monti e
accoliti (istituzioni economiche europee, FMI, mainstream mediatico) fanno
riferimento: la recessione è un meccanismo di aggiustamento – una sorta di
risposta immunitaria - che il sistema economico mette in atto per
rispondere a una perturbazione proveniente dall’ esterno. Questa perturbazione
esogena è stata lo scoppio della bolla immobiliare e finanziaria statunitense
legata ai mutui “sub-prime”, e ha generato ripercussioni sul credito e sulla
struttura dei tassi di interesse. Questo ha prodotto, inteso come risposta
razionale da parte degli agenti economici, una contrazione degli investimenti,
che ha generato una riduzione dell’ attività produttiva, con effetti negativi
sull’ occupazione e sulla domanda. Quindi, le teorie del “Real Business Cycle”
non escludono interventi da parte dello Stato; la discriminante è che queste
non intervengano a favorire la “domanda”, bensì, si dispieghino a migliorare le
condizioni di effettivo esercizio della libera concorrenza, intervenendo su
quei fattori che permettano di assorbire gli effetti negativi indotti dallo
shock esogeno.
Una delle condizioni ritenute preliminari per riassorbire lo
shock esogeno (e sul cui perseguimento paiono essere particolarmente agguerriti
i vertici UE), è quella relativa al miglioramento del rapporto tra efficienza
produttiva e costo del lavoro. Questo obiettivo richiede tutto quell’insieme
di iniziative che hanno caratterizzato le manovre economiche dei Paesi del sud
economico europeo: smantellamento dei diritti acquisiti dai lavoratori,
precarizzazione dei posti di lavoro, predazione degli accantonamenti
pensionistici, distruzione dei sistemi di "welfare", etc.. Sono
evidenti i caratteri profondamente “classisti” di queste operazioni che,
richieste sulla base del rientro dal debito onde far tornare appetibili i
titoli di Stato da parte della speculazione internazionale, fondano le loro
ragioni su menzogne tanto grandi quanto spregevoli. Queste logiche producono
inenarrabili sofferenze al corpo sociale delle nazioni cui sono applicate.
Abbattimento del costo del lavoro e della sua capacità
rivendicativa, aumento della ricattabilità dei lavoratori e della
precarizzazione degli impieghi da un lato e, dall’altro, la volontà di
riassorbire gli effetti dello shock sul sistema creditizio, sono le istanze
fondamentali sulle quali verte l'architettura della pianificazione economica
dell’ Unione Europea.
Le autorità economiche europee hanno, in più occasioni e con
manovre inequivocabili, manifestato la volontà di procedere a un risanamento
degli effetti della crisi per mezzo di interventi statali volti a sanare gli
effetti dell’ esplosione della bolla dei “subprime”. Questa strategia ha
permesso di assolvere ad una doppia funzione: da un lato, mettendo in atto una
serie di garanzie e tutele nei confronti degli istituti di credito carichi di
crediti inesigibili (“titoli spazzatura”), quali l’apertura di fondi di
garanzia sui depositi, l’acquisto dei titoli tossici, la temporanea
nazionalizzazione, a prezzi "politici", degli istituti falliti, etc.,
mentre, dall’altro, produrre un incremento grave dell’ entità dei debiti
pubblici, elemento sul quale, in base ai trattati costitutivi della UE, far
vertere la necessità di un risanamento che obbligasse i governi locali a
mettere in atto le terapie neoliberiste suggerite dalla “troika” e
pericolosamente simili ai famigerati piani di Aggiustamento Strutturale,
strumento con il quale il Primo mondo si è incaricato di dare corpo, nel
Dopoguerra, ad una sorta di ricolonizzazione a sfondo economico dei Paesi del
sud del mondo. Con grande gioia delle élites finanziarie, adesso anche l’
Europa ha un proprio sud economico: è costituito da un insieme di Paesi (i
PIIGS) che si candida a diventare una periferia manifatturiera, ma con
caratteristiche particolarmente appetibili: una professionalità alta, capace di
produrre merci ad alti livelli qualitativi; inoltre, una dislocazione
geografica vicina alle necessità di un nuovo Primo mondo consumatore. Quindi
non siamo lontani dalle logiche di competizione-predazione che gli Stati
capitalisti, da sempre, improntano con base dei rapporti internazionali.
Le autorità economiche europee, come detto, preoccupate per
la stabilità del sistema creditizio hanno varato manovre di “quantitative
easing” (creazione di denaro “fiat” da immettere nel circuito bancario a tassi
di favore), come quella del 2011 da parte della BCE, che non hanno prodotto
effetti anticiclici nell’ economia reale (e così come non produrrà effetti l’
attuale, limitato acquisto di titoli a breve termine e sul mercato secondario
da parte della BCE) perché le banche hanno preferito utilizzare questi capitali
per lanciarsi in attività speculative nei confronti dei debiti sovrani di
quelle nazioni, entrate nel collimatore degli strali neoliberisti della UE, il
cui “spread” era salito a livelli siderali.
Queste manovre, prodotte a favore degli istituti di credito
da autorità politiche per la grande maggioranza popolate da metaboliti di
quello stesso mondo bancario (in una apoteosi conclamatoria della “teoria delle
porte girevoli”), non hanno altra funzione se non quella di tenere in piedi un
sistema creditizio, il cui equilibrio è stato gravemente compromesso da
comportamenti assai colpevoli da parte delle istituzioni finanziarie.
Come si diceva, questi tentativi sono esclusivamente
legati alla volontà di rianimare il sistema bancario e non di rilanciare la
crescita: infatti, i mercati europei si ritrovano in una condizione simile alla
“trappola della liquidità” (un insieme di sfiducia e aspettative negative che,
nonostante denaro a buon mercato, conduce a meccaniche recessive), cioè, le
iniezioni di liquidità nel sistema bancario non producono modificazioni nei
comportamenti di concessione del credito da parte delle banche, troppo
preoccupate per i propri assetti finanziari e patrimoniali e con l’
inestinguibile tendenza a utilizzare i capitali entranti per risollevare sorti
e destini di AD e C.d.A.. Inoltre, lo stato di depressione economica prodotto
dalle iniziative di austerità non induce le imprese a contrarre prestiti
(comunque, gravati da uno “spread” “ad usum sistema bancario” che finisce per
strangolare l’ economia nel suo insieme).
Si noti, in subordine, come ogni iniziativa economica passi
attraverso il circuito privato delle banche, e accordata in relazione alle
congiunture legate allo stato patrimoniale di queste entità private: questa è
un’ altra conseguenza dell’ esautorazione degli Stati dalla determinazione
delle politiche economiche nazionali.
Come visto, i modelli del “Real Business Cycle” proibiscono
tassativamente il ricorso a metodi di incentivazione della “domanda”, cioè, ad
incentivare i consumi: questo perché il riaggiustamento del ciclo dopo lo shock
esogeno dipende dai meccanismi di prezzo e di salario sui quali una politica di
sostegno ai redditi e ai consumi provocherebbe effetti perturbativi sulle
aspettative degli operatori.
Stante che l’ attuale crisi del capitalismo planetario
sia una crisi “sovrapproduttiva” (indipendentemente dal fatto che questa
origini dai primi anni ’70 oppure come conseguenza della grande bolla dei
“sub-prime”) e che si vogliano riconoscere come validi e attendibili i
meccanismi propri del capitalismo occidentale, una possibile soluzione potrebbe
essere quella di far rientrare all’ interno del ciclo della domanda
aggregata – e quindi del consumo – tutta quella parte di popolazione che ne è
stata espulsa nel corso degli ultimi anni; quindi, una risoluzione “keynesiana”
ottenuta attraverso l’ incremento delle capacità di spesa della popolazione (e
con le relative conseguenze sull’inflazione, il cui automatico aumento,
secondo molti economisti, non sarebbe un male per l’economia).
Inutile dire che questa strada non verrà mai intrapresa da
una Unione Europea guidata da nazioni come Germania, Francia e Paesi del Nord
sempre più motivati a sfruttare convenientemente il loro ruolo egemonico
intraeuropeo. La resa che le classi politiche europee hanno opposto ai modelli
liberisti è stata pressoché totale; per cui, ci si deve aspettare che le
politiche intraprese ( e rese estreme, a seguito dell’ approvazione del “Fiscal
Compact”) verranno perseguite anche negli anni a venire, producendo una fatale
“terzomondizzazione” delle economie deboli del sud europeo.
In ultimo, per quanto bisognerà attendere che gli equilibri
e le ragioni proprie del sistema di accumulazione capitalistico siano superati
da una concezione dell' economia non "produttivistica" (basata, cioè,
sui "valori
d'uso"); intelligentemente pianificata, allo scopo di
ridurre gli esiziali danni ambientali prodotti dalla dannata "mano
invisibile"; orientata al soddisfacimento di necessità reali, e non
inoculate da pervasive campagne pubblicitarie e culturali?
A quando l' approdo ad una concezione dell' economia come di
una scienza votata al raggiungimento di un benessere distribuito, e non
come gendarme al soldo di oligarchie planetarie?
Nel panorama attuale, stante l' incontrastato dominio dei
dogmi neoliberisti, non si vede come si possa giungere ad invertire questa
tendenza.
A queste derive le sinistre europee hanno risposto
allineandosi alle interpretazioni consegnate alle moltitudini dalle élites
economiche globali: un arretramento grave delle classi popolari, alle quali non
resta che l’estrema risorsa della sollevazione per non vedere il proprio
destino, e quello delle generazioni future, consumato ed estinto dalle volontà
di potere assoluto manifestato dalle classi dominanti.
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