di
Sara Palmieri
Sara Palmieri
Giuseppina era curva come una elle maiuscola stampata alla
rovescia e in questa posizione sbrigava tutte le sue faccende. Portava vestiti
di lunghezza midi con un grembiale e una paglia a larghe tese in testa,
d’inverno e d’estate, che le era valsa il soprannome di Primavera.
Giuseppina
Primavera aveva una pelle bianca, liscia e rosea come una pesca,
nonostante l’età avanzata e conservava il vezzo di ungerla di crema Nivea
che commissionava ai suoi vicini.
Perché
lei, Giuseppina, vivendo in una casa in campagna e lontana dal paese, ormai non
usciva più.
Durante
l’estate una famiglia che abitava in un’altra città, ma era originaria del
luogo, andava a trascorrere le vacanze in una casa vicina e i tre bambini
avevano preso l’abitudine di correre, appena arrivati, a salutarla e a
intrattenersi durante il giorno, quando non erano al mare o dai nonni, con lei.
Tra le due case crescevano rigogliosi alberi di ulivo e
filari di viti, querce più o meno secolari e ginestre, piante di fico e fitti
rovi di more, ciuffi di finocchio selvatico, di mentuccia, di rosmarino e di
lavanda, e i profumi della vegetazione e quelli del mare, presente nel breve
orizzonte, si mescolavano creando un originale quanto lusinghevole amalgama di
profumi.
Sul pianoro che introduceva alla via delle due case, il
nonno dei vacanzieri aveva piantato pomodori e melanzane, zucchine e cipolle,
piante aromatiche e officinali, mentre in alcuni bugigattoli ricavati nel muro
esterno della casa, allevava conigli e piccoli roditori che chiamava conigli
soricigni e per i quali tutte le mattine alle sette – puntuale come la
Svizzera - veniva a falciare l’erba.
Per i bambini di quella famiglia, due maschi e una
femmina, la vacanza ai Vrasi, sognata durante tutto l’inverno
scolastico, era pari ad un viaggio nell’eden e finalmente potevano scorrazzare
liberi in quell’oasi di verde insieme agli amici del posto, alcuni cugini e
pochi altri bambini che vi abitavano.
L’ora più bella era quella del primo pomeriggio. Dopo il
mare e il pranzo, i genitori avrebbero voluto che riposassero, invece i bambini
andavano da Giuseppina.
Lei, a quell’ora, stava seduta sulla panca addossata al
muro della casa, all’ombra di una tettoia di mattoni rossi, e si godeva il
frinire delle cicale e dei grilli, il cinguettio dei passeri, il tubare delle
colombe e il garrire delle rondini. Nel cielo non c’era una nuvola e l’afa
estiva si scioglieva nella facile penombra creata dalla vegetazione.
Giuseppina
raccontava loro soprattutto storie di spiriti e di fantasmi, che tanto
incantavano quei bambini, diceva che spiritelli dispettosi andavano a trovarla
di notte, mentre dormiva sul suo letto ripieno di sfoglie di granturco, diceva
che piano le carezzavano la pelle di rosa e le sfioravano i capelli candidi,
diceva che non erano cattivi, che solo volevano stare in sua compagnia e
ricordarle i suoi cari che non c’erano più.
Ma
i bambini provavano un vago senso di paura di fronte a quei racconti e la sera,
quando erano nel loro letto e pensavano a Giuseppina, sola nel suo, circondata
dai fantasmi che le danzavano intorno, tiravano su il lenzuolo fino a
nascondere gli occhi che tenevano chiusi e ben strizzati.
Tuttavia
quei bambini, pure così bene educati e gentili, all’apparenza timorosi,
ubbidienti e remissivi, di giorno, dimentichi delle paure notturne, erano
animati da un inaspettato senso dell’ironia e da
una irrefrenabile attitudine allo scherzo.
I
vicini di Giuseppina, temendo per la sua salute data l’età avanzata, per
assicurarsi che ci fosse e stesse bene, usavano chiamarla ogni tanto.
“Giuseppììì,
cummà Giuseppììì” –
strillavano da un lato e dall’altro delle case circostanti, vicine ma non
abbastanza per vederla.
Allora
Giuseppina rispondeva pronta: “UUUUhhhh”! – senza a volte neppure sapere
a chi rispondesse e perché.
I
bambini, divertiti da questo costume che aveva luogo più volte nel corso della
giornata, cominciarono a farlo essi stessi.
“Giuseppììì,
cummà Giuseppììì” –
urlavano come forsennati – e prontamente seguiva lo “UUUUhhhh” di
Giuseppina.
La chiamata veniva ripetuta più volte, incalzante, e
sempre seguiva la risposta e il ritmo fra la chiamata e la risposta diventava
sempre più breve fino a sovrapporsi.
“Giuseppììì,
cummà Giuseppììì” - “UUUUUhhhh”
- “Giuseppììì, cummà Giuseppììì” - “UUUUhhhh” - “Giuseppììì, cummà
Giuseppììì” - “UUUUhhhh”, - fino allo sfinimento.
Poi
– dopo questo gioco all’apparenza innocente - venivano rapiti dalle loro
instancabili attività: arrampicarsi sugli alberi, preparare con i fili d’erba i
cappi per le lucertole, cacciare piccoli animaletti, costruire delle capannine,
legare delle amache, scendere al fiume lasciandosi scivolare lungo il dirupo
dell’argine, entrare nella casa diroccata abitata dai pipistrelli dopo essersi
muniti di canne e aver avvolto i capelli in un asciugamano.
La
grande casa di Giuseppina attraeva quei bambini in maniera irresistibile,
conoscevano bene l’esterno con i muri invasi di vite americana e la cucina
ampia, con le pareti nere dal fumo del rudimentale focolare; gli utensili e le
suppellettili erano riposti in basso, quasi a terra, alla portata della schiena
curva dell’inquilina; piatti e pentole, bicchieri e posate, e perfino gli
alimenti, pasta, pane, biscotti, tutto era a vista.
Le
pareti erano nude, di pietra, con l’intonaco scrostato, nessun quadro, solo
qualche foto sbiadita, qualche santino e un poster ancora in bianco e nero che
pubblicizzava la località di mare.
Quegli
ambienti ricordavano loro la casa di Geppetto nella favola di Pinocchio, che
avevano visto di recente sceneggiata in TV.
Ma
erano i piani superiori a suscitare il maggiore interesse dei bambini perché
era là che a Giuseppina si manifestavano i fantasmi e anche perché erano i meno
accessibili; si chiedevano spesso quale scusa avrebbero potuto inventarsi per
poter andare di sopra a curiosare…
E
poi si sa che le cose proibite o difficili da ottenere sono per noi umani le
più desiderabili.
Dopo
la sosta all’ombra della tettoia, Giuseppina mandava via i bambini dicendo che
sarebbe andata di sopra a fare un riposino.
E
così ai bambini, in uno di quei giorni, venne l’idea di far finta di andarsene,
aspettare che Giuseppina salisse nelle sue stanze e si addormentasse e poi
salire e finalmente vedere le camere superiori.
Così
fecero.
La
porta era socchiusa e cigolò un po’ mentre la aprivano. Entrarono cauti, sulle
punte dei piedi, in uno stanzone enorme, con un piccolo armadio in un angolo,
una cassapanca di legno ed un grande letto quasi al centro della stanza; il
materasso appariva come rigonfio e informe e in mezzo – sprofondata – dormiva
già a sonno pieno Giuseppina, emettendo un sibilo leggero e perfettamente
ritmico.
La
foto di un avo in baffoni e gilet guardava, con un’aria truce e un occhio più
alto dell’altro per via del monocolo che vi era incastrato, il letto di
Giuseppina mentre sulla testiera era appeso un crocifisso.
In
fondo alla stanza si trovava un balconcino semiaperto dal quale filtrava una
piacevole brezza estiva.
Lo
stanzone era tutto sommato nudo come quello di sotto, nulla di particolare,
tanto meno di misterioso.
Solo,
all’improvviso, alzando gli occhi un po’ più in alto, le videro…
Erano
lunghe, scure, spesse, fitte, scendevano e risalivano, sfioravano il letto e la
stessa Giuseppina.
I
bambini avevano esperienza di piccole ragnatele nella legnaia, che – dispettosi
– distruggevano al ragno con un ditino, ma non ne avevano mai viste di così
grandi, sembravano quasi delle tende, ora più lunghe e ora più corte come
inframezzate da inquietanti sipari e siparietti.
Mentre
erano intenti a osservarle meravigliati, un alito di vento più forte fece
sbattere la finestra e sobbalzare Giuseppina, allora i bambini, non senza
rumore, urtando le ante della porta e tra loro, a gambe levate, guadagnarono
l’uscita, caracollando lungo le scale di pietra.
Dopo
poco uscì sul terrazzo Giuseppina, urlando che ora i fantasmi la visitavano
anche di giorno e che erano almeno una decina e che questa volta erano stati
maldestri e le avevano interrotto il sonno, a lei che dormiva sempre così male.
La
corsa funambolesca dei bambini durò qualche minuto, quando furono nel pianoro
del nonno si fermarono, si accasciarono a terra, si guardarono concitati ma poi
– ripreso il fiato - si sciolsero in una risata fragorosa e liberatoria.
Ora
sapevano di essere loro i fantasmi di cui Giuseppina avrebbe senz’altro
raccontato l’indomani, così come di notte i suoi spiritelli erano le ragnatele,
quelle ragnatele lunghe, spesse e scure che penzolavano a mò di tendaggi dal
soffitto, sfiorandole la pelle di pesca, i capelli candidi e il corpicino curvo
e ossuto.
Molti
anni dopo quei bambini, ormai adulti, tornarono in quella campagna.
La
casa-vacanze del nonno era stata mal ristrutturata, dei ladri l’avevano
visitata e avevano divelto sanitari e piastrelle, la casa dei pipistrelli era
stata abbattuta per lasciare il posto ad un intrico di arbusti.
Giuseppina
era morta e la sua casa, resa irraggiungibile da una recinzione, era stata
acquistata da un signore facoltoso che però non se ne occupava.
Anche
il nonno, nel frattempo, era morto e così quel pianoro, che un giorno era stato
il giardino dell’eden, appariva desolato e devastato dalle erbacce e dagli
spini.
Tuttavia
lo “UUUUhhhh” di Giuseppina echeggiava ancora mentre si facevano largo
tra gli sterpi, questa volta a caccia di ricordi, accompagnati dal fantasma di
lei a sfiorargli la pelle e il cuore.
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