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mercoledì 23 aprile 2014

IL RUOLO DELL'INTELLETTUALE IN POLITICA di Riccardo Achilli





IL RUOLO DELL'INTELLETTUALE IN POLITICA 
di Riccardo Achilli


Qual è il ruolo dell'intellettuale in politica? Il declino e lo sradicamento della sinistra italiana ripropongono questo tema in modo urgente, che naturalmente va inquadrato nel contesto più ampio del rapporto fra intellettuali e politica. Negli ultimi decenni, questo rapporto, nel nostro Paese, ha subito un profondo degrado. Nel migliore dei casi, l'utilizzo dell'intellettuale viene ridotto a quello di “antenna” che fornisce al politico gli umori della società, e nobilita il messaggio del politico dandogli una forma a volte linguisticamente più raffinata, ma contenutisticamente non diversa (modello-Becchi). Nel peggiore dei casi, l'intellettuale viene sbandierato come una bella figurina che dà lustro al partito, ma quello che dice, nella misura in cui è contrario agli orientamenti della leadership del partito stesso, non viene semplicemente ascoltato (come avviene a numerosi intellettuali che sono stati vicini ai Ds o al Pd, ma si pensi anche al trattamento ricevuto da Gianfranco Miglio dentro la Lega Nord, quando la sua visione di Stato neo-federale e neo-corporativo cozzò con il ben più pratico bisogno di Bossi di negoziare spazi di potere all'interno dell'ordinamento statuale esistente, barattando la rinuncia sia alla secessione sia ad un cambiamento radicale della forma di stato con forme più avanzate di federalismo e di redistribuzione del carico fiscale dal Nord verso il Centro Sud del Paese). Oppure, ancora, l'intellettuale viene ridotto al ruolo del tecnico, che non deve disegnare un modello nuovo di società, ma solo trovare le soluzioni tecnico-normative ed economico-finanziarie più efficienti per rispondere a problemi pratici e contingenti (modello-Tremonti).

Il problema fondamentale non risiede nella lottizzazione politica del ceto intellettuale e dei luoghi in  cui opera (a partire dall'Università) perché tale lottizzazione c'è stata sempre, e non ha impedito che, almeno fino ai primi anni Ottanta, il nostro Paese potesse esibire intellettuali indipendenti, anche dalla loro parte politica di riferimento, come Pasolini. Il problema è la privazione della politica della sua base ideologica, avvenuta dopo la caduta del muro di Berlino. La caduta della visione ideologica, che in fondo altro non è che una visione di insieme del mondo desiderabile, è andata di pari passo con la crisi del comunismo e della socialdemocrazia tradizionale (cioè con le dottrine politiche che promettevano un mondo radicalmente diverso), con una politica ridotta alla risposta contingente di interessi concreti dei gruppi sociali di riferimento, deprivata, soprattutto dalla destra berlusconiana, di qualsiasi visione d'insieme della società, con un centrosinistra che ha praticato una giustapposizione di culture diverse, quella cattolico-dossettiana e quella neocomunista, riveniente dal togliattismo e dal berlinguerismo, senza riuscire a fare una sintesi che non fosse confinata sul piano meramente tattico del day-by-day. Per trovare una sintesi purchessia, la questione morale di retaggio berlingueriano è stata stiracchiata e strumentalizzata, diventando banalmente antiberlusconismo e moralismo di pura facciata, che però per molti anni  è stato il collante delle diverse anime del centro-sinistra prima, e del Pd poi, insieme ad un europeismo piuttosto acritico persino nei confronti dell'impostazione dichiaratamente liberista dei Trattati, da Maastricht in poi, usato come succedaneo dell'incapacità di offrire al Paese un'alternativa di politica economica ed industriale di respiro strategico e dunque pluriennale, come invece riuscì a fare la Gran Bretagna, rimasta fuori dai parametri di Maastricht, pur se colpita anch'essa dalla crisi valutaria del 1992 (ma anche riveniente, va detto, dalla sfiducia profonda circa la capacità di tenuta di un Paese corporativo e disunito come il nostro, rispetto a regole di politica fiscale che non fossero imposte dall'esterno).

E' evidente che, laddove si esaurisca una visione complessiva del mondo, laddove l'ideologia ceda il passo al pragmatismo della quotidianità, la funzione dell'intellettuale è sottoposta inevitabilmente al degrado, nelle varie modalità che ho sopra indicato. I danni causati alla politica dall'assenza della sua dimensione intellettuale sono sotto gli occhi di tutti: il pragmatismo del fare (anche quando si fanno cazzate) eretto a valore assoluto e di per sé assolutamente positivo, la demagogia del vaffanculo in piazza identificata come “coraggioso” (??) grido di ribellione contro un “sistema”, che sia reale o fantasticato (considero che la retorica della “casta” sia, almeno in parte, qualcosa di fantasticato), oppure l'idea, accarezzata da De Rita, di una politica ridotta al ruolo di “imbonitore” e “consolatore” rispetto agli effetti di decisioni prese in ambito extra politico. Su tutto, aleggia la deprimente delusione di una politica che appare incapace di adempiere al suo ruolo primigenio, cioè di cambiare il mondo, impastoiata dentro i meccanismi di un turbo-capitalismo sempre più impercettibile al comune cittadino, e che genera disillusione e calo del grado di partecipazione. E che peraltro finisce per allontanare le menti migliori, che cedono all'idea della politica “sporca”, oppure barattando cinicamente la fornitura di idee con la poltrona, mercantilizzando e dunque rendendo sterile l'apporto dell'intellettuale alla politica (produzione di idee in cambio di uno stipendio o di un posto).

E, per finire, l'estinzione della sinistra, perché, dobbiamo dirlo, la sinistra esiste soltanto nell'ambito di un esame di classe della società, e dei conflitti fra lavoro e capitale. All'esterno del riconoscimento della struttura di classe della società e della natura conflittuale di tale struttura, non c'è sinistra, né riformista né rivoluzionaria. C'è solo il social-liberismo che si rivolge ad una indistinta “società civile” caratterizzata da rapporti potenzialmente armoniosi, solo che si trovi il giusto “punto de equilibrio final” interclassista (per dirla con il gergo di Peròn, per certi versi, per quanto assurdo possa sembrare, uno dei maîtres à penser del Pd) che armonizzi le relazioni sociali in un contesto in cui chi mangia è contento di mangiare, facendo contenti anche quelli che recuperano le sue briciole cadute sotto il tavolo. 
Un approccio che deriva da una scorretta lettura delle teorie di Bauman sulla società liquida, che non sottendono affatto un superamento della dicotomia fra sfruttatore e sfruttato (anzi, nella società liquida tale dicotomia si rafforza) ma semplicemente una decomposizione e ricomposizione in forme precarie, continuamente cangianti, degli antichi blocchi sociali novecenteschi, e dei sistemi di controllo ed assicurazione sociale alla loro base. Una società liquida non è affatto una società senza classi, come tanti infausti presunti “sinistroidi” vanno affermando, per cui conterebbe solo la soddisfazione dell'individuo in un mondo che gli offra il massimo delle libertà e delle opportunità, ma è una società in cui i rapporti sociali vengono atomizzati, rimangono sullo sfondo, producendo effetti drammatici su chi è più debole, mentre l'individualismo, sul piano sovrastrutturale, viene esaltato come valore fondante. Ma evidentemente, l'assenza degli intellettuali impedisce di analizzare correttamente i conflitti di classe tipici della società liquida, e quindi di disegnare un portolano culturale fondamentale per la sinistra del XXI secolo.

E' quindi evidente che il recupero della dimensione intellettuale, in politica, è fondamentale per uscire dallo stallo attuale, e per restituire alla politica stessa il ruolo che le è proprio. Ma come? Recuperando l'insegnamento gramsciano dell'intellettuale organico, e attualizzandolo alla realtà di oggi. Si tratta dell'intellettuale che, per poter essere organico alla classe sociale che vuole aiutare a raggiungere nuove forme di egemonia culturale, deve sapere, innanzitutto, tornare all'analisi di classe, saper ricostruire le relazioni di classe della società liquida post-moderna. Non è possibile ricostruire una sinistra egemone senza tornare all'indagine sociologica come la intendeva Panzieri, cioè la ricerca sul campo, l'inchiesta operaia a questionario e campione, e come la intendeva Alquati, ovvero l'inchiesta condotta con metodi di con-ricerca, cioè di messa alla pari fra ricercatore ed intervistato in un processo dialettico nel quale anche la metodologia di inchiesta ed i suoi obiettivi, non solo conoscitivi ma anche politici, si formano. Primo compito dell'intellettuale organico è quindi quello di ricostruire una analisi di classe della società, ed esercitare forme di influenza, sulla sua parte politica, per farle assumere questa stessa prospettiva di classe, nell'analisi e nella proposta programmatica.

Significa poi che l'intellettuale non deve essere soltanto uno studioso allo stato puro. Se è uno studioso allo stato puro (perché magari è un accademico) deve saper arricchire il suo percorso con momenti ed occasioni di contatto con il mondo del lavoro, con quello del disagio socio-lavorativo, anche per il tramite, come detto, dei metodi di conricerca. Ma ciò significa anche, in linea con la forte correlazione gramsciana fra teoria e prassi, che il lavoratore istruito, l'operaio istruito, che voglia sistematizzare la sua esperienza di vita, di lavoro e di lotta politico/sindacale dentro una teoria che abbia anche significato politico per la classe cui appartiene, è a tutti gli effetti un intellettuale, alla pari dell'accademico.

L'intellettuale organico, che sia uno studioso a tempo pieno o un lavoratore istruito, deve fare attività politica anche solo a livello di militanza di base, e se del caso, non deve affatto disdegnare la partecipazione ad attività che siano anche di tipo dirigenziale dentro strutture partitiche o sindacali, purché, però, la conquista della posizione dirigenziale non sia il fine ultimo dell'attività che svolge, perché a quel punto la sua necessaria libertà di elaborazione di pensiero e di proposta diviene subordinata a considerazioni di posizionamento tattico dentro processi di spartizione del potere. L'indipendenza di giudizio deve venire sempre prima rispetto alla carriera politica. Ma la partecipazione politica, anche ad un livello elementare, è fondamentale.

L'intellettuale organico deve saper essere un eccellente formatore ed un docente. Non serve a niente elaborare una teoria se non la si sa o non la si vuole trasmettere. Il momento della docenza deve essere importante tanto quanto quello della ricerca e dell'elaborazione.

L'intellettuale organico deve sapere la differenza che esiste fra l'essere intellettuale “servente”, una figura del tutto inutile, che si sostanzia nel ghost-writer, ed al tempo stesso deve saper valorizzare la differenza che c'è fra lui ed il politico puro. Se ha incarichi politici di responsabilità, deve saper fare il politico, ed accantonare certi atteggiamenti rigidi, tipici della mentalità dell'intellettuale puro, che trova il suo appagamento nel riconoscimento universale della validità della sua teoria, sapendo che la politica, in quanto arte dello spostamento del consenso, richiede mediazioni, tempistiche e processi di stop-and-go, inconciliabili con la pretesa di andare “sempre avanti” linearmente, tipica di chi ha elaborato una concezione del mondo, con la profonda fede che questa sia la migliore possibile.

L'intellettuale che riveste funzioni politiche deve anche evitare l'esibizionismo culturale che non produce egemonia culturale di classe. Faccio un esempio. Cuperlo, ispirato dal film di Veltroni, ha recentemente pubblicato una vera e propria pugnetta intellettuale sul berlinguerismo, che, peraltro, a mio modesto modo di vedere, è anche una analisi ad minchiam segugis. Ma non è questo il punto. Anche se fosse una analisi storica perfetta, mi chiedo, nell'Italia attuale, quanta egemonia culturale possa produrre una analisi storica di fatti risalenti a più di trent'anni fa, in una società ed in un quadro politico ed economico completamente diversi da quelli di allora. L'obiettivo dell'intellettuale organico è quello di ricostruire egemonia culturale, non di fare belle ed eleganti analisi fini a sé stesse. Il problema vero di oggi non è la ripresa della questione morale berlingueriana, che è stata, come ho già detto, stiracchiata ed abusata durante l'intero ventennio della Seconda Repubblica, con i risultati che abbiamo visto. Né il problema berlingueriano del rapporto fra neocomunisti e democristiani, che il Pd ha portato, a mio parere personale, ad un pessimo risultato, incarnato da un leader con il corpo di un democristiano e la testa di un blairiano. Il problema è quello di ricostruire un rapporto con il mondo del lavoro che coniughi merito e bisogno, invertendo la dinamica conflittuale che vede il capitale prevalere sempre più sul lavoro e, nell'ambito del capitale stesso, la componente speculativa e “rentier” prevalere su quella produttiva, ricostruendo alleanze fra produttori contro il turbocapitalismo. Probabilmente serve più una rilettura di Proudhon, delle migliori pagine del socialismo liberale rosselliano e del keynesianesimo, che oggi ci forniscono una guida, da un lato, verso l'esigenza di costruire una società basata sua una alleanza di produttori contraria al capitale parassitario e speculativo, e dall'altro, l'esigenza di un movimento continuo di ascendenza che consenta agli sfruttati ed ai perdenti di migliorare continuamente il proprio status sociale e materiale, in un quadro di democrazia e libertà, profondamente minacciato dalle tecnocrazie finanziarie globali, con un soggetto pubblico che torni ad essere programmatorio e redistributivo, fuori dal culto mercatistico. Non serve invece a niente, se non ad una gratificazione personale, o, peggio ancora, per un rifiuto di voler ricostruire egemonia culturale di classe, mostrare quanto si è bravi a ricostruire il quadro storico del PCI di Berlinguer. 

In sintesi: l'intellettuale organico del XXI secolo è una priorità per la rinascita della sinistra. Deve saper ricostruire una teoria basata sull'analisi di classe. Deve quindi avere un fortissimo rapporto con la prassi, e se la sua professione lo ostacola in ciò, deve darsi da fare per costruirlo. Deve partecipare alla politica, ma sempre salvaguardando, prima di tutto, il bene supremo della sua indipendenza di giudizio, rispetto ai vincoli ed ai condizionamenti di carriera partitico/sindacale, accettando, se del caso, la semplice militanza di base. Deve saper essere umile e non egocentrico, non innamorato delle sue costruzioni teoriche al punto di non riconoscere l'esigenza della politica di fare mediazioni, e di arretrare tatticamente in determinate fasi, e non deve cadere nell'egocentrismo edonistico tipico dell'intellettuale, cercando sempre di lavorare in modo utile a portare avanti l'egemonia culturale sulle questioni realmente attuali e sensibili, e sapendo essere maestro, oltre che pensatore.






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