PALESTINA - DOPO GAZA:
BOICOTTAGGIO, DISINVESTIMENTO, SANZIONI (BDS)
Intervista ad Ilan Pappe [1]
Lei definisce Israele uno “Stato-colono”, introducendo la distinzione tra “colonialismo” e “Stato-colono”. In sostanza, nello “Stato-colono” il colono non ha una casa d’origine cui fare ritorno, è così? È quello che noi sudamericani abbiamo chiamato “colonialismo di tipo particolare”.
Sì. Il primo sionismo utilizza il termine “colonialismo” per descrivere quello che voleva, perché nel XIX secolo l’immagine del colonialismo era molto positiva. Si era orgogliosi di presentare il sionismo come un progetto di successo.
In seguito negli anni Trenta, e dopo la creazione di Israele, si trovarono di fronte al cambiamento dell’immagine del colonialismo.
I primi studiosi del sionismo inventarono un nuovo termine – non riesco neanche a pronunciarlo, è una specie di corruzione ortografica di “colonizzazione” in ebraico – per dimostrare che quel progetto era unico.
Il sionismo cominciò a parlare, in sostituzione, di ritorno a una patria antica, di redenzione di una terra vuota. Il che voleva dire l’impossibilità di definire come tale il movimento anticolonialista palestinese, che veniva presentato come alcuni terroristi che cercavano di distruggere un moderno Stato democratico.
Israele e i suoi sostenitori ricorrono all’argomento che Israele è un modello di democrazia: l’unico Stato democratico nella regione.
Esistono due Israele: Israele non occupato, che è una democrazia, poi c’è l’Israele con occupazione temporanea. È come se Israele dicesse: “Non è possibile giudicarci in base all’occupazione, perché è temporanea”! L’occupazione però dura dal 1967! E per giunta gli arabi in Israele erano già sottoposti fino al 1967 a un regime militare, estesosi poi ai territori occupati.
Israele sfugge a qualsiasi definizione di società democratica. Specie per il suo atteggiamento nei confronti delle popolazioni indigene. Questo argomento che si tratti di una democrazia non funzionava nel caso del Sudafrica dell’apartheid, perché dovrebbe funzionare nel caso di Israele?
C’è stato un momento della primavera araba, quando sembrava molto promettente, molto democratica, che è stato per Israele molto preoccupante, come si è visto di riflesso sui mezzi di comunicazione di massa israeliani.
L’eventualità che potesse esistere una democrazia alternativa, o una democrazia vera in Medio Oriente sembrava scuotere le fondamenta strategiche dello Stato di Israele.
Israele pone altresì in risalto il fatto che Hamas, che è il partito che governa a Gaza, fissa un proprio programma che intende farla finita con lo Stato di Israele. Si tratta di una potente arma ideologica, che consente ai sionisti di mobilitare a sostegno di Israele, potendo accusare Hamas di volere un altro Olocausto.
Sì. Lo so. Ma non si possono utilizzare i diritti umani per giudicare i movimenti anticoloniali al culmine della loro lotta contro il colonialismo. Hamas rappresenta una determinata reazione palestinese in uno specifico momento storico. Non posso andare dalla popolazione di Gaza, strangolata da parte di Israele… per dirle che deve smetterla di lanciare razzi contro Israele, che si lascino uccidere a Gaza. Ho bisogno di avere un dialogo serio con quella gente, in un ambiente che consenta di vedere la distinte opzioni.
Per questo è importantissimo il movimento BDS. Occorre dare una possibilità di scelta alla gente.
Come dico ogni tanto agli amici che propongono azioni più radicali contro Israele, 100.000 missili lanciati da Gaza non avrebbero lo stesso effetto che si avrebbe se un solo governo al mondo fosse disposto a troncare i rapporti con Israele.
Questo sarebbe assai più efficace, e si tratterebbe di un’azione non-violenta. Ci permetterebbe di costruire qualcosa di nuovo, senza il lascito di fondo della violenza. Lo dico ai miei amici palestinesi: è finita l’era del nazionalismo. Dobbiamo promuovere la mobilitazione autonoma intorno al tema dei diritti umani.
Il governo israeliano non ha tenuto riunioni d’emergenza sull’occupazione per molti anni: finché il movimento BDS non cominciò ad avere qualche risultato. E questo è il motivo per cui la reazione del governo sudafricano all’ultima crisi di Gaza è stata così deludente; avrebbe almeno potuto chiedere il ritiro dell’ambasciatore di Israele.
Il fondatore di Hamas, che fu assassinato da Israele, affermò che se il suo oppressore fosse stato musulmano o arabo, o persino palestinese, avrebbe resistito allo stesso modo.
Il programma di al Fatah normalmente dichiarava che gli ebrei arrivati dopo il 1918 dovevano ritornare nel loro paese d’origine, Ma nel momento in cui al Fatah ritenne ci fosse una possibilità di dialogo, al momento di Oslo, ammise che questo era assurdo. Dissero di non pretendere neanche che i russi ritornassero a casa loro, i russi che erano arrivati ieri.
Io non sono un sostenitore di Hamas, ma abbiamo bisogno di un lungo dialogo tra persone di religioni e origini diverse, perché alla fine avremo a che fare con uno Stato dialogante. Non vedo l’ora di cominciare questo viaggio con i miei amici musulmani.
E che dire della recente iniziativa statunitense guidata dal Segretario di Stato, John Kerry?
La soluzione dei due Stati è defunta da anni. Il suo cadavere giace all’obitorio. Ogni tanto compare un segretario di Stato statunitense entusiasta che ne ritira fuori la salma dall’obitorio quasi che la resuscitasse, fingendo che sia ancora vivo. Quando però questo smette di funzionare, restituisce il cadavere all’obitorio. Credo che, ormai, dovremmo seppellirlo.
Non penso che sappiamo già come potremo sviluppare un nuovo Stato Israele-Palestina, ma non posso di certo avviare questo dialogo se tutti sono prigionieri di un paradigma sbagliato.
La soluzione dei due Stati riduce quella che sarebbe la Palestina al 20% del territorio. Non si può dire che la Palestina sia solo Cisgiordania e Gaza: Né si può ridurre il popolo palestinese alla popolazione di Gaza e Cisgiordania. Se non si decide di affrontare il problema dei 5,5 milioni di profughi, in ogni caso, la soluzione dei due Stati sarebbe una mera chimera.
Le cerchie dirigenti sono molto più figlie dell’inerzia di quel che non si ammetta. Un mutamento di paradigma richiede studio e apprendistato, e questo richiede tempo. Vuol dire mettere a rischio la propria popolarità. Implica una grande incertezza.
Il cambiamento di paradigma è indispensabile, e dobbiamo predisporre il terreno per quel momento.
[1] Ilan Pappe, nato ad Haifa, è il più noto dei nuovi storici israeliani. Dopo il 2008, è stato espulso dalle università del suo paese. È autore, tra altri lavori, de La pulizia etnica della Palestina (2006). Attualmente è docente all’Università di Exeter, in Gran Bretagna: È stato di recente in visita in Sudafrica per promuovere la campagna internazionale “Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni – BDS”. Ha rilasciato questa intervista al giornalista Shaun de Waal, del settimanale Mail&Guardian (ripresa, in traduzione spagnola, da Sin Permiso).
Traduzione di Titti Pierini
dal sito Movimento Operaio
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