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lunedì 15 settembre 2014

EURO O NON EURO: QUEL CHE HA DA VENIRE POI… di Olmo Dalcò



EURO O NON EURO: QUEL CHE HA DA VENIRE POI…

 


di Olmo Dalcò

Euro o non euro: questo è il nuovo dilemma shakespeariano che affanna politici ed economisti di ogni razza da quando la crisi ha colpito il vecchio continente. Non c’è da stupirsi, nel senso che dovremmo ormai essere abituati a fronteggiare le narrazioni ideologiche che persistono a mettere le sovrastrutture monetarie e finanziarie innanzi a tutta la struttura dell’economia reale. Si insiste a raccontare che il capitalismo è sano, ma la finanza è malata, che gli imprenditori stanno dalla parte del lavoro mentre banchieri e speculatori sono avvoltoi, sanguisughe, avidi e privi di scrupoli etici.
Purtroppo il senso comune abbocca; far tornare a prevalere il buon senso sul senso comune, secondo la dialettica gramsciana, è un’impresa egemonica che necessita di un’opera gigantesca e delicata di demistificazione di tutto quanto viene ripetutamente cianfrugliato dagli economisti, divisi in mille tribù, ma pur sempre accomunati dall’incanto della forma monetaria piuttosto che interessati scientificamente alla sostanza reale del lavoro. Il senso comune è offuscato dalle ideologie e dalle mistificazioni borghesi; il buon senso riflette la materialità della condizione sociale e di classe.
Già con le cause dello scoppio della crisi gli economisti avevano torturato il senso comune propagandando da un lato la mancanza di etica nella finanza delle banche attraverso le loro società ombra alle prese con una elefantiaca operazione di speculazione finanziaria; dall’altro con la solita litania da buone mamme casalinghe e da diligenti buon padri di famiglia che ammonivano che era tramontata l’epoca di vivere al di sopra delle proprie possibilità. Debito privato da un lato e debito pubblico dall’altro. Hai voglia a spiegare al senso comune che il debito e la finanza, pubblica o privata, non c’entravano nulla con la causa della crisi; che la crisi è economica e reale e non monetaria e finanziaria; che si tratta di una crisi di sovrapproduzione, ciclica e necessaria, e non di sottoconsumo, ossia contingente e possibile; che la crisi non è affatto etica ma il frutto della duplice contraddizione da un lato della distribuzione antagonista tra lavoro salariato e capitale, dovuto all’eccesso di lavoro non pagato, dall’altro dello scontro imperialista tra capitali, dovuto alla spietata concorrenza transnazionale.

Secondo il buon senso l’economia in crisi corrisponde a una capacità produttiva in eccesso e quindi inutilizzata perché gli sbocchi di mercato sono limitati dalla distribuzione antagonista e i tassi di profitto attesi sono vincolati alla caduta tendenziale a causa dell’eccesso di capitale anticipato, trainato dal vortice della concorrenza e dall’anarchia della produzione. Anzi, il buon senso aggiunge che il debito è, piuttosto che la causa, un tentativo, fallimentare e controproducente, di alleviare gli ostacoli della sovrapproduzione; dunque, una cura sbagliata e non già il virus che rende tossico il capitalismo. Del resto il buon senso potrebbe facilmente vedere, per esempio, che il mercato dell’auto è in eccesso di produzione mentre le più fantasiose e variegate modalità di pagamento a rate ne sono la conseguenza piuttosto che la causa.
La crisi ha avuto un duplice effetto: da un lato ha eroso i bilanci delle banche e indirettamente quelli degli stati che ne hanno coperto i buchi, dall’altro la recessione ha colpito direttamente le finanze pubbliche degli stati. Così gli economisti hanno veicolato il senso comune da un lato sull’idea che fosse necessaria una maggiore regolamentazione bancaria, attraverso la riduzione della leva del debito nei nuovi requisiti patrimoniali per le banche; dall’altro lato sull’idea che fosse necessaria una disciplina monetaria e di bilancio attraverso le cosiddette politiche dell’austerità, ovvero di riduzione della spesa pubblica e di deflazione salariale. Niente di nuovo, per carità, sempre il solito ritornello: basta con l’eccesso di finanza a debito, ci vuole sacrificio, sobrietà e persino ascetismo etico. Ovviamente i sacrifici, l’ascetismo e la decrescita valgono per quei poveri diavoli dei lavoratori; ai capitalisti, per la verità, i vizietti sono sempre concessi e in luogo della virtù della bassa inflazione sui beni reali, presto divenuta drammatica deflazione, ecco rispuntare anche il vizietto dell’alta inflazione sulle attività mobiliari con una nuova nube di bolla finanziaria che si addensa dopo l’iniezione pletorica di liquidità ben indirizzata a risarcire le perdite tossiche delle banche.
Così dapprima ci hanno spiegato che occorrevano i nuovi requisiti patrimoniali di vigilanza per le banche salvo poi scoprire che questi erano prociclici, nel senso che in fase di crisi finiscono con l’intensificare piuttosto che ridimensionare il razionamento del credito. Il buon senso sa che credito vuol dire fiducia e che la fiducia viene meno durante la crisi; il buon senso sa che le banche private prestano gli ombrelli quando c’è il sole mentre se li tengono stretti durante la tempesta. Al tempo stesso, gli economisti ci hanno spiegato che la politica monetaria non poteva acquistare debito pubblico perché questo andava ridotto drasticamente con politiche rigorose di consolidamento fiscale. Salvo poi scoprire che tale politica di austerità era prociclica perché il rapporto tra debito pubblico e prodotto aumentava e non diminuiva, poiché la riduzione del denominatore, la recessione del PIL, era troppo più forte di quella del numeratore, ossia le politiche impopolari dei tagli alla previdenza, alla sanità, all’istruzione, agli stipendi dei lavoratori pubblici.
A questo punto, alcuni economisti hanno avuto una nuova pia folgorazione mistica e hanno cominciato a propagandare al senso comune che forse un pochino di anticiclicità monetaria ci vuole, nel senso che se il credito alle imprese è razionato dalle banche allora bisogna che la banche centrale faccia il possibile perché nuovo credito giunga direttamente all’economia cosiddetta reale. Draghi ha così spiegato che è persino disposto ad acquistare i titoli cartolarizzati che nascondono i prestiti subprime alle piccole imprese, cosicché la presunta causa della crisi torna ad essere quello che realmente era: una medicina fasulla! Ovviamente Draghi continuerà a non comprare debito pubblico sul mercato, come invece si fa in Giappone, Regno Unito, Stati Uniti, e praticamente ovunque, semplicemente perché l’Eurozona non è uno stato ma rappresenta esclusivamente l’imperialismo dei paesi creditori e delle loro banche, a cominciare da quelle renane, nei confronti di quei paesi maiali indebitati e in perenne vacanza sul Mediterraneo.
Nei confronti di Draghi e dei benpensanti bocconiani, gli economisti del presunto fronte opposto gridano contro la Banca Centrale colpevole di non acquistare i titoli del debito pubblico europeo e di mantenere un euro forte contro il dollaro e le altre valute. I più estremisti non ci vanno per il sottile: se le condizioni sono queste, allora fuori dall’euro!
Il buon senso non deve scomodare Marx per capire quanto insufficiente sia questa argomentazione. Basta ricordare come Keynes biasimava chi pensava di risolvere la crisi con i soli strumenti monetari, perché anche se l’acqua c’è il cavallo non ha sete; ossia che se la crisi di sovrapproduzione nuoce pesantemente alle prospettive di profitto puoi iniettare tutto il credito che vuoi ma sono le imprese stesse che non hanno intenzione di domandarlo. Piuttosto ammoniva lord Keynes, sempre più spesso manipolato e volgarizzato, solo una socializzazione pubblica degli investimenti di una certa ampiezza può sortire effetti anticiclici. Accade persino che a Draghi venga in mente di acquistare  titoli di debito pubblico, ma non degli stati membri, come buon senso vorrebbe, bensì degli stati extra-UE, come i bond statunitensi, al fine di svalutare l’euro rispetto al dollaro, immettere comunque liquidità nelle banche private, ma, non sia mai, evitare il più possibile che si finanzi nuova spesa pubblica e nuovo disavanzo in Europa, cioè proprio il minimo che ci vorrebbe.
Al tempo stesso il buon senso sa, contro Keynes, che se la crisi è di sovraccapacità produttiva il capitalismo ne esce comunque e sempre distruggendo il capitale in eccesso attraverso ristrutturazioni, fusioni e acquisizioni, ovvero espellendo valore della forza lavoro, attraverso licenziamenti e deflazione salariale. Certamente, il buon senso sa pure che se le politiche economiche, monetarie e fiscali, sono sbagliate e procicliche l’uscita dalla crisi è sempre più dolorosa, ma che, al tempo stesso, nessuna politica economica anticiclica compatibile col capitale può essere in grado di rimuovere la ristrutturazione dell’eccesso ed evitare licenziamenti di massa e riduzioni del salario. Qui il senso comune scomoda anche Marx quando ammoniva che nessuna legislazione bancaria può evitare la crisi, ma una legislazione inconsulta può certamente aggravarla. Purtroppo, rispetto all’altra sponda dell’oceano, nel vecchio continente l’imperialismo renano impone l’uscita più dolorosa per salvaguardare i propri crediti dall’inflazione e dalla svalutazione dell’euro.
Al contrario, agli economisti che rivendicano l’uscita dall’euro per consentire una politica monetaria aggressiva occorre sprecare tempo a sottolineare che tutto ciò non è sufficiente senza una politica economica espansiva di investimenti pubblici totalmente fuori dalla logica dell’austerità. Non basta allora essere contro la forma dell’euro, bisogna avversare nel profondo la sostanza del Patto di Stabilità e della Procedura di Squilibri Macroeconomici, ossia dell’Unione Europea, costruita a Maastricht, confermata poi a Lisbona. Non basta, cioè, avversare l’Unione Monetaria, occorre scagliarsi più profondamente contro l’Unione Europea.
Gli economisti ribattono che l’uscita dall’euro serve anche per riconquistare la competitività attraverso la svalutazione; in questo caso la logica degli economisti del no euro è speculare e simmetrica a quella dei pro euro. Infatti, la logica dei pro euro, ossia i sicofanti dell’imperialismo tedesco, è quella di accrescere la competitività attraverso la riduzione dei prezzi innescata dalla deflazione salariale, ossia la riduzione diretta del salario nominale, in ultima analisi dalla svalutazione della forma monetaria del valore della forza lavoro per aumentare il plusvalore dei capitalisti. Invece, la logica dei no euro è quella di accrescere la competitività per via della convenienza dei prezzi all’esportazione in seguito al deprezzamento del cambio e alla contemporanea riduzione del potere d’acquisto dei lavoratori, ossia la riduzione indiretta del salario reale attraverso il carovita innescato dalla svalutazione, la quale corrisponde in ultima analisi ancora una volta alla svalutazione del lavoro pagato rispetto al pluslavoro. Non cambia nulla per la classe lavoratrice; cambia semmai il risultato dello scontro tra capitalisti creditori e capitalisti debitori. Si tratta, per i no euro, comunque di economisti a difesa del capitale, in debito, mentre la forza lavoro è pur sempre la condizione necessaria dello sfruttamento. Pertanto, chiunque sbandiera la svalutazione competitiva del cambio rispetto alla svalutazione competitiva del salario monetario dimentica sempre che affinché possa risultare efficace necessita di una requisizione reale del potere d’acquisto, altrimenti la spirale inflazionistica dell’indicizzazione salariale si mangia tutto il vantaggio del cambio favorevole.
Provare per credere: chiedete ai lavoratori britannici oggi vittime della riduzione peggiore dei salari reali dovuta al deprezzamento della sterlina e alle politiche di austerità (fatto 100 il salario reale medio annuale di Italia e UK nel 2007, nel 2012 in Italia si è ridotto a 97,8, mentre in UK a 94,9, con inflazione media britannica superiore di oltre un punto percentuale a quella italiana); oppure chiedete ai lavoratori italiani che furono vittime del maltolto durante la svalutazione della lira e l’uscita dallo SME nel 1992 con la definitiva abolizione della scala mobile. Il buon senso sa che le due politiche sono identiche e corrispondono all’unica svalutazione possibile, quella del salario materiale per mezzo della riduzione del prezzo della forza lavoro; mentre l’uscita dalla recessione è possibile solo per chi sfrutta di più e meglio la classe lavoratrice, direttamente o indirettamente, in un modo o nell’altro.
Il buon senso conclude quindi che l’euro è la sovrastruttura del capitalismo dell’Unione Europea costruito su misura dell’imperialismo tedesco e dei paesi creditori nei confronti dei paesi debitori. Combattere l’euro e l’Unione Monetaria senza combattere tutto il Trattato di Maastricht e l’Unione Europea, l’economia di mercato fortemente competitiva come recita il Trattato, è come verniciare la biancheria sporca piuttosto che metterla in lavatrice.
Persino pretendere di combattere entrambe, Unione Monetaria e Unione Europea, attraverso lo slogan significativo dell’uscita dall’euro è un modo ideologico, fuorviante e pericoloso, di affrontare la realtà. Infatti, questa parola d’ordine non è assolutamente sufficiente. Si ricordi a proposito che la sovrastruttura può essere dominante, ma non potrà mai essere determinante. La moneta, ad esempio, è dominante nel sistema capitalistico ma non è determinante; essa fa apparire il capitalismo come una economia monetaria e presenta il profitto come una espressione nominale mentre esso è la forma feticistica dei rapporti sociali e dell’appropriazione gratuita di lavoro altrui. Così l’euro e le sue leggi, per quanto dominanti, non sono determinanti, ma rappresentano simbolicamente la forma transitoria dell’aggressione del capitale europeo multiforme. Le forme sono mutevoli, la sostanza no. Piuttosto la radice da combattere è il capitalismo e la proprietà privata capitalistica europea.
Il programma di rivendicazioni transitorie deve soffermarsi sulla sostanza e non sulla forma: rivendica la proprietà pubblica delle banche e la cancellazione del debito prima ancora che la fine dell’euro. Infatti, rendere pubbliche le banche rivoluziona automaticamente, in quanto sostanza determinante, la sovrastruttura delle leggi della valuta unica; al contrario l’uscita dall’euro non implica affatto, in quanto forma determinata, la proprietà pubblica delle banche, e nelle condizioni imposte dalle banche private non rappresenterà mai una conquista per la classe lavoratrice. Persino il programma minimo di classe si sofferma sul rifiuto delle politiche di austerità e sulla conquista della contrattazione collettiva europea piuttosto che sull’uscita dall’euro. Infatti, il rigetto dell’austerità con un ingente programma di investimenti pubblici attraverso il credito pubblico, a cominciare da una banca centrale finalmente sottoposta alla sovranità popolare, aiuta a imprimere una nuova concezione alla valuta unica; al contrario, il ritorno alle valute nazionali non implica il rigetto dell’austerità, come dimostra il caso britannico, e rappresenterebbe una conquista effimera per la borghesia nazionale e una sconfitta certa per la classe lavoratrice.
In termini hegeliani, l’euro è quel che ha da venire poi; mentre la proprietà pubblica delle banche, la contrattazione collettiva europea, la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario sociale, l’annullamento selettivo del debito, e gli investimenti pubblici sono senza dubbio il principio, quel che viene prima.
Se il rigetto delle condizioni dell’euro è una rivendicazione necessaria e non sufficiente, secondaria e riduttiva, rispetto al rigetto complessivo dell’Unione Europea borghese, la valuta unica europea in sé stessa, ossia indipendentemente dalla regole, fissate nel Trattato e nello Statuto della Banca Centrale, che fondano l’Unione Monetaria e l’euro, è un bersaglio certamente sbagliato. L’unione monetaria europea, con le lettere minuscole, non è sbagliata in sé, ma è sicuramente sbagliata nella forma capitalistica; l’unione europea, con le lettere minuscole, non è sbagliata in sé ma è sicuramente sbagliata nella forma capitalistica.
In generale, di fronte al mercato mondiale, la crescita della produttività del lavoro sociale necessita di una scala di dimensione sovranazionale. La proposta politica comunista è sempre quanto più internazionalista possibile per una duplice ragione: da un lato ogni conquista sociale è sempre meno precaria e transitoria in una dimensione non nazionale; inoltre la produzione e la socializzazione su larga scala è sempre superiore rispetto a quelle su piccola scala e, alla stessa stregua, la leva finanziaria pubblica per gli investimenti pubblici,ecologisti e digitali, è potenzialmente incomparabilmente più efficace in una dimensione sovranazionale. Per tale ragione la vera politica di rifiuto dell’austerità è inevitabilmente centrata sullo sviluppo di una leva gigantesca di investimenti pubblici finanziata attraverso una banca europea pubblica degli investimenti; pretendere di realizzare una reale ed effettiva politica economica espansiva contraria all’austerità su scala nazionale è una vera e propria fatica di Sisifo. In questa direzione, la valuta unica europea è una condizione imprescindibile di crescita; le valute nazionali sono reazionarie e transitorie.
Dunque, costruire l’Europa federale e socialista è l’orizzonte strategicodei comunisti; l’obiettivo transitorio è, altresì, rappresentato non solo dal rifiuto dell’Unione Europea borghese dell’austerità, ma anche dalla conquista di un’altra Europa caratterizzata da una dominante produzione pubblica e da un dominante sistema finanziario pubblico. Nel voler ribadire una dimensione europeista, l’obiezione potrebbe essere quella di rappresentare, in una sorta di eterogenesi dei fini, un vero baluardo a difesa dell’imperialismo tedesco. Non volendo, si finirebbe col difendere l’imperialismo più tenace. In realtà, i comunisti, nel progettare un’Europa alternativa a quella borghese si pongono su un piano il più internazionalista possibile. Così accade che se una dimensione europea non fosse possibile nella sua interezza, a causa della sconfitta della classe lavoratrice in alcuni determinati stati, ciò non implicherà mai la rinunzia per le classi lavoratrici degli altri stati a cominciare a costruire una primordiale forma di federazione socialista. In ogni caso ciascuna classe lavoratrice deve poter avviare la propria svolta rivoluzionaria, ben sapendo che il positivo esito finale della propria strategia dipende comunque dalla solidarietà e soprattutto dalla vittoria delle altre classi lavoratrici.
Questa è la posizione della parte più coerente di Syriza in Grecia. Chiaramente Syriza rifiuta le politiche di austerità, del Patto di Stabilità e del Fiscal Compact, nell’ottica di un’altra Europa rispetto a quella di Maastricht. Tuttavia, nel caso di vittoria e di scontro lapalissiano con le altre potenze europee dominanti si renderà necessaria la rottura definitiva e l’uscita temporaneamente isolata della Grecia dall’Unione Europea, come primo anello di una catena, ossia in attesa che gli altri stati seguano il suo esempio.
Tale dibattito ricorda quello che contrappose Trotsky e Stalin sulla questione del socialismo in un solo paese. Mai e poi mai Trotsky, nel difendere la dimensione internazionalista, si sarebbe sognato di ostacolare l’incipit rivoluzionario in un dato paese. Anche la diatriba sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa è emblematica. Già Lenin nel 1915 si schierò contro tale parola d’ordine non da un punto di vista meramente politico, ma sul piano economico. Secondo Lenin l’Europa capitalista sarebbe o finita col diventare reazionaria, nei confronti della classe lavoratrice, o sarebbe implosa, a causa degli scontri imperialisti tra le potenze interne. Anche Trotsky condivideva tale approccio, ma non rinunciava allo slogan degli Stati Uniti d’Europasotto il dominio della classe lavoratrice piuttosto che della borghesia. Finalmente nel 1923 il Comintern fece propria la parola d’ordine degli Stati Uniti socialisti d’Europa, sia per contrastare la parola d’ordine nel senso liberale e borghese, sia per rimarcare l’approccio internazionalista della classe lavoratrice europea e rimuovere l’orientamento sciovinista ancora largamente presente nelle socialdemocrazie. Lenin si convinse ad accentuare l’orientamento europeista, Trotsky si convinse a rimarcare il carattere di classe di tale slogan. Successivamente sotto la guida di Stalin si cancellerà tale parola d’ordine e si prenderà a pretesto il Lenin del 1915 per giustificare il socialismo in un solo paese rispetto alla direzione europeista. Eppure Trotsky, ne La Terza Internazionale dopo Lenin,chiarisce cosa aveva sempre inteso con la parola d’ordine degli Stati Uniti socialisti d’Europa: ossia non una rivoluzione simultanea, ma un processo rivoluzionario profondamente dialettico; non una sfiducia nei confronti delle rivoluzioni su base nazionale, ma l’assoluta consapevolezza che il socialismo si fonda esclusivamente sulla dinamica internazionalista, pena una pesante sconfitta.
Oggi sul piano politico la socialdemocrazia liberale è sempre più inserita nella gestione capitalistica della crisi, attraverso le politiche di deflazione salariale e di austerità fiscale, condite con qualche ridicola e patetica pretesa di flessibilità nei confronti del rigore della destra conservatrice. In Italia o in Francia, il senso comune ritiene che il rifiuto dell’euro è l’unica parola d’ordine di trasformazione radicale e che, perciò, l’estrema destra nazionalista, che ha fatto del ritorno alle valute nazionali il proprio cavallo di battaglia, rischia di guidare il fronte dell’opposizione, rispetto a una sinistra che non ha il coraggio di scagliarsi in prima linea contro l’euro.
Tuttavia quello che è il senso comune in Italia è decisamente sbagliato. Il buon senso potrebbe scoprire che questa è una falsificazione osservando che nei paesi maiali, i PIGS nel gergo giornalistico sassone, ad eccezione dell’Italia, le forze politiche antagoniste rilevanti sono quelle della sinistra e l’estrema destra non esiste in Portogallo e in Spagna e risulta, per fortuna, largamente egemonizzata dalla sinistra nei ceti popolari in Grecia. Queste forze antagoniste di sinistra non pongono affatto il rifiuto dell’euro in prima battuta; al contrario, vi pongono la ristrutturazione del debito, la proprietà pubblica delle banche, gli investimenti pubblici e il rigetto dell’austerità. I ceti popolari negli stati più vulnerabili hanno compreso bene il tranello dell’estrema destra e condividono che il nemico principale, piuttosto che i migranti, è sempre e comunque rappresentato dalla classe borghese, domestica o straniera che sia.
Tutto ciò sarebbe possibile, pertanto, anche in Italia. Purtroppo, in Italia, la sinistra alternativa sconta pesantemente gli errori del passato. Si tratta di errori di una duplice natura: riformista e burocratica. Innanzitutto, v’è stata l’incapacità di credere e dare pieno sviluppo all’antagonismo sociale e al conflitto di classe; dall’altro v’è certamente il suo perenne cretinismo burocratico ed elettoralista. Così si sono commessi due errori riformisti e due errori burocratici. Sul piano riformista, l’errore di non porsi mai manifestamente e senza ambiguità in alternativa alla socialdemocrazia liberale e al Partito Democratico, al contrario di quanto fatto da Syriza in Grecia, e l’errore di non proseguire sulla strada dello sviluppo dell’autorganizzazione dei movimenti sociali e della conflittualità sindacale di classe. Sul piano burocratico, l’errore di non procedere sulla strada della maggiore partecipazione diretta e democratica all’interno dei partiti, anche attraverso l’ausilio della rete, e l’errore di non sviluppare una radicale critica nei confronti della mancata rotazione degli incarichi istituzionali e partitici, nonché una profonda revisione delle indennità e delle remunerazioni degli eletti e dei dirigenti di partito in maniera conforme agli stipendi e ai salari della classe lavoratrice che si intende rappresentare. Questi sono i vizi riformisti e burocratici che hanno devastato un partito come Rifondazione Comunista, danneggiandone la credibilità a lungo termine, nonostante i ripetuti ammonimenti dell’allora opposizione interna di Sinistra Critica, proprio sui punti sopra richiamati. Al contrario, il Movimento Cinque Stelle ha sfruttato, non senza assurde incoerenze e micidiali stupidaggini, almeno tre delle quattro debolezze sopra descritte, cioè tutte tranne quella dello sviluppo dell’autorganizzazione dei movimenti e del conflitto sindacale, guadagnando comunque una notevole credibilità tra i ceti popolari, ma sfogandola in maniera populista esclusivamente sulla cosiddetta casta politica e burocratica piuttosto che prioritariamente sulla classe borghese e manageriale. Addirittura, in Spagna, l’esperienza di Podemos rappresenta l’esempio massimo di positiva credibilità per una forza di sinistra consapevole di non commettere gli errori riformisti e burocratici e di investire nei movimenti sociali anticapitalisti, in una sorta di movimento cinque stelle della sinistra alternativa e di classe.
Per il momento, dunque, la sinistra anticapitalista in Italia è stretta nella morsa di un Movimento Cinque Stelle che prende i voti popolari e li butta all’estrema destra, reazionaria, populista e nazionalista, e di una sinistra che prende i voti degli intellettuali e della borghesia progressista e finisce sempre col buttarli alla sinistra moderata, riformista, elitaria e governista. Tuttavia, nella convinzione che è solo all’interno di queste contraddizioni che si può costruire una vera sinistra popolare e anticapitalista, occorre ribadire la necessità della solidarietà internazionalista con tutte le altre forze politiche impegnate nello scontro con l’Unione Europea del capitale per un’altra Europe del lavoro, ecososcialista, femminista e libertaria.
(O.D.)

Un tal germe è il semplicissimo, la semplicità stessa. Questo limitarsi al semplice lascia il campo libero al capriccio del pensare, il quale per se stesso non vuol restare semplice, ma sopra a quel semplice vuol portare le sue riflessioni. Col buon diritto di occuparsi dapprima soltanto del principio, e di non lasciarsi quindi andare a considerare quel che verrà poi, lo spirito dianzi accennato fa piuttosto il contrario di quel che vorrebbe fare; porta in mezzo, cioè, quel che ha da venire poi, vale a dire altre categorie che non soltanto il principio, altri presupposti e pregiudizi. [Georg W.F. Hegel, Logica, Prefazione II]
Il fatto che in periodi di crisi vi sia mancanza di mezzi di pagamento è così evidente da non richiedere spiegazione…. Una legislazione bancaria inconsulta e stupida, come quella del 1844-45, può aggravare ulteriormente questa crisi monetaria. Non esiste tuttavia legislazione bancaria che possa scongiurarla. [K. Marx, Il Capitale, III, V, XXX]
Ma se la parola d’ordine degli Stati Uniti repubblicani d’Europa, … è assolutamente inattaccabile come parola d’ordine politica, rimane pur sempre da risolvere la questione del suo contenuto e significato economico. Dal punto di vista delle condizioni economiche dell’imperialismo, ossia dell’esportazione del capitale e della spartizione del mondo da parte delle potenze coloniali “progredite” e “civili”, gli Stati Uniti d’Europa in regime capitalistico sarebbero o impossibili o reazionari. [V. Lenin, Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa, Sotsial-Demokrat, n. 44, 1915]
In regime capitalistico, gli Stati Uniti d’Europa equivalgono ad un accordo per la spartizione … Ma in regime capitalistico non è possibile altra base, altro principio di spartizione che la forza. Il capitalismo è la proprietà privata dei mezzi di produzione e l’anarchia della produzione. Predicare una “giusta” divisione del reddito su tale base è proudhonismo, ignoranza piccolo-borghese, filisteismo. Non si può dividere se non “secondo la forza”. In regime capitalistico non sono possibili altri mezzi per ristabilire di tanto in tanto l’equilibrio spezzato, al di fuori della crisi nell’industria e della guerra nella politica… Certo, fra i capitalisti e fra le potenze sono possibili degli accordi temporanei. In tal senso sono anche possibili gli Stati Uniti d’Europa, come accordo fra i capitalisti europei… Ma a qual fine? Soltanto al fine di schiacciare tutti insieme il socialismo in Europa [V. Lenin, Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa, Sotsial-Demokrat, n. 44, 1915]
L’ineguaglianza dello sviluppo economico e politico è una legge assoluta del capitalismo. Ne risulta che è possibile il trionfo del socialismoall’inizio in alcuni paesi o anche in un solo paese capitalistico, preso separatamente. Il proletariato vittorioso di questo paese, espropriati i capitalisti e organizzata nel proprio paese la produzione socialista, si solleverebbe contro il resto del mondo capitalista, attirando a sé le classi oppresse degli altri paesi, spingendole ad insorgere contro i capitalisti, intervenendo, in caso di necessità, anche con la forza armata contro le classi sfruttatrici ed i loro Stati. [V. Lenin, Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa, Sotsial-Demokrat, n. 44, 1915]
Non c’è giustificazione per l’omissione dalla nuova bozza del Programma dello slogan degli Stati Uniti Sovietici d’Europa, slogan che è stato accettato dal Comintern nel 1923 dopo una piuttosto lunga battaglia interna. O si tratta forse del fatto che gli autori vogliono “ritornare” su tale questione alla posizione di Lenin del 1915? Se le cose stanno così, essi devono prima comprendere in modo corretto i termini della questione…. Inutile dirlo, Lenin rifiutò la possibilità che potessero essere realizzati gli Stati Uniti d’Europa di stampo capitalistico. Questo era anche il mio approccio nel momento in cui ho avanzato lo slogan degli Stati Uniti d’Europa esclusivamente come una possibile forma statale della dittatura proletaria in Europa. [L. Trotsky, Lo slogan degli Stati Uniti Sovietici d’Europa, La Terza Internazionale dopo Lenin, Cap.III]
Scrissi a quel tempo: “Una più o meno completa unificazione economica dell’Europa realizzata dall’alto attraverso un accordo tra i governi capitalisti è un’utopia. Lungo tale strada non si può andare oltrecompromessi parziali e mezze misure. Ma una tale unificazione economica dell’Europa, che comporterebbe colossali vantaggi tanto per i produttori e consumatori quanto per un generale sviluppo culturale, sta divenendo un compito rivoluzionario del proletariato europeo nella sua battaglia contro il protezionismo imperialista ed il suo strumento – il militarismo” ( Trotsky, “Il programma di pace”). [L. Trotsky, Lo slogan degli Stati Uniti Sovietici d’Europa, La Terza Internazionale dopo Lenin, Cap.III]
Ma, persino in una tale formulazione del problema, Lenin vide, a quel tempo, un certo pericolo… lo slogan degli Stati Uniti d’Europa avrebbe potuto far sorgere l’idea che la rivoluzione proletaria deve iniziare in modo simultaneo, quanto meno sull’intero continente europeo… Io scrissi a quel tempo: “Nessun paese deve ‘aspettare’ gli altri nella sua battaglia. Sarebbe utile e necessario ribadire l’idea elementare secondo cui l’inazione temporeggiatrice internazionale non può sostituire l’azione internazionale coordinata. Dobbiamo cominciare e continuare la nostra battaglia sul terreno nazionale senza attendere gli altri, nella piena convinzione che la nostra iniziativa servirà da impulso per la battaglia in altri paesi” (Ibidem). [L. Trotsky, Lo slogan degli Stati Uniti Sovietici d’Europa, La Terza Internazionale dopo Lenin, Cap.III]
Si potrebbe mostrare senza difficoltà di sorta, con ulteriori citazioni, che la nostra differenza con Lenin nel 1915 sulla questione degli Stati Uniti d’Europa era ristretta, tattica e, per la sua propria essenza, di carattere temporaneo; ma la miglior prova è fornita dal susseguente corso degli eventi. Nel 1923 l’Internazionale Comunista ha adottato questo controverso slogan. Se fosse stato vero che lo slogan degli Stati Uniti d’Europa era inaccettabile nel 1915 per motivi di principio, … allora l’Internazionale Comunista non avrebbe potuto adottarlo. La legge dell’ineguale sviluppo, verrebbe da pensare, non aveva perso la sua efficacia durante quegli anni. [L. Trotsky, Lo slogan degli Stati Uniti Sovietici d’Europa, La Terza Internazionale dopo Lenin, Cap.III]
L’intera formulazione della questione, come indicata sopra, scaturisce dalla dinamica del processo rivoluzionario preso nella sua interezza. La rivoluzione internazionale viene considerata come un processo interconnesso che non può esser previsto in ogni suo particolare e, per così dire, nel suo concreto susseguirsi, ma che è comunque assolutamente chiaro nei suoi generali lineamenti storici…. Le cose appaiono, però, in modo alquanto differente se si procede dall’idea di uno sviluppo socialista che avviene ed è persino completato in un singolo paese…Se viene adottato questo punto di vista, nazional-riformista e non rivoluzionario né internazionalista, scompare così la necessità dello slogan degli Stati Uniti d’Europa, o essa è quantomeno indebolita, ma questo slogan, dal nostro punto di vista, è necessario e d’importanza vitale perché in esso risiede la condanna dell’idea di uno sviluppo socialista isolato. [L. Trotsky, Lo slogan degli Stati Uniti Sovietici d’Europa, La Terza Internazionale dopo Lenin, Cap.III]
Lo slogan degli Stati Uniti Sovietici corrisponde la dinamica della rivoluzione proletaria, che non scoppia simultaneamente in tutti i paesi, ma che si espande da paese a paese e che richiede il più stretto legame tra i paesi, specialmente nell’arena europea, sia in senso difensivo contro i più potenti nemici esterni, sia in vista della costruzione economica. [L. Trotsky, Lo slogan degli Stati Uniti Sovietici d’Europa, La Terza Internazionale dopo Lenin, Cap.III]


13 settembre 2014




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