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mercoledì 17 settembre 2014

L’insostenibile leggerezza della Germania, di Riccardo Achilli





Il fondamento della dottrina di politica economica tedesca, nella tempesta di questa crisi, è riassumibile nei due grafici che seguono. Il primo riguarda il saldo commerciale della Germania con l’area euro, il secondo con il resto del mondo fuori dall’euro. Come è possibile vedere, se il saldo commerciale intra-euro peggiora progressivamente, fino a diventare negativo (per via della contrazione della domanda dei Paesi euromediterranei sottoposti ad austerità) quello con il resto del mondo migliora. La politica economica tedesca, sin dagli anni pre-crisi del Governo Schroeder, ha prodotto un contenimento della crescita dei costi, insieme a forti investimenti di sistema mirati ad accrescere la produttività totale dei fattori. Con la conseguenza che, se la Germania, insieme ad un gruppo di Paesi nordici fortemente integrato al suo interno, ha una tendenza a contenere l’andamento del CLUP, cioè del costo del lavoro rispetto alla produttività, allora i Paesi dell’euro ad alto debito, pubblico o bancario, ed a basso potenziale di crescita, sono costretti a seguire questa tendenza, che comporta una politica deflazionistica, per avvicinarsi ai trend tedeschi di CLUP, pena uno spiazzamento competitivo in un’area dove non esiste uno schermo valutario a difenderli dalla bassa competitività: spiazzamento che produrrebbe inevitabilmente un ingente e sfavorevole processo di redistribuzione dei capitali e degli investimenti, ed una caduta di competitività internazionale tale da spingerli fuori da tale area (ma nessuna economia a basso potenziale di crescita ed a alto debito, checché ne pensino frange ultraminoritarie, è in grado di pagare il costo economico e politico connesso con l’uscita dall’euro. Tale ipotesi può essere trattata solo come piano B in caso di assoluta impossibilità di cambiare la direzione disastrosa delle politiche europee nel prossimo futuro, un po’ come i due protagonisti di quel famoso film americano, l’Inferno di Cristallo, che per evitare la morte sicura da combustione si buttano giù da un grattacielo, comunque con la quasi certezza di sfracellarsi). 

Negli anni della crisi, a partire dal 2008, questa strategia di tipo “follow the leader”, imposta ai partner deboli, è stata sostenibile, per il leader stesso (ovvero la Germania) grazie all’espansione commerciale al di fuori dell’area dell’euro, abbandonando mercati euromediterranei la cui domanda interna è stata demolita da detta strategia. Nel frattempo, il mantenimento dell’euro ha impedito di subire la concorrenza dal lato della svalutazione competitiva da parte dei Paesi euromediterranei (che storicamente la Germania ha sofferto molto, soprattutto dall’Italia, che ha, o forse aveva, una struttura manifatturiera settorialmente simile a quella tedesca).
Euro-fedeltà che è costata cara elettoralmente alla Cdu della Merkel, per via della crescita alla sua destra degli euroscettici dell’Afd, ma che nonostante tutto è stata mantenuta, proprio per impedire ai concorrenti dell’area euro di ricostituire una competitività di costo deflazionando la valuta anziché i costi interni. E che sarà difesa anche in futuro, perché la Merkel può rivendicare di fronte alla sua opinione pubblica l’idea (del tutto illusoria, come vedremo a breve) di aver intrappolato i propri partner in una gabbia, senza una via d’uscita praticabile a costi ragionevoli. Sarà quindi difesa politicamente dalla destra cristiano democratica e liberale tedesca, almeno fintanto che chi subisce questa strategia non deflazioni fino al punto da diventare attraente per le imprese e gli investitori tedeschi, depauperando in misura seria, non marginale, i livelli produttivi ed occupazionali della Mutterland. A quel punto, si potrebbero creare condizioni politiche, in Germania, tali da rompere il patto dell’euro in funzione difensiva dei propri asset produttivi ed occupazionali. Ma una simile inversione di competitività fra Germania e Paesi euromediterranei non è uno scenario che possa realizzarsi nei prossimi due o tre anni.

 Commercio estero fra Germania e area euro 2006-2013


Fonte: Eurostat


Commercio estero fra Germania e Paesi fuori dall’area euro Gennaio 2006- Marzo 2014

Fonte: Eurostat


Dunque, a prima vista, questa strategia sembra sostenibile (ovviamente rispetto agli interessi nazionali tedeschi). Al 2013, secondo Eurostat, la Germania esporta infatti “solo” 202 miliardi verso i Paesi PIIGS a domanda decrescente (Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, e dobbiamo anche metterci la Francia, che sta per subire la stessa cura affibbiata ai Paesi appena citati), e più del triplo (692 miliardi) nei Paesi esterni all’area euro.
La strategia tedesca è veramente sostenibile in prospettiva? In realtà lo è solo nel breve periodo, perché produce effetti strutturali dannosi per la stessa Germania. Questa tabella riporta i contributi alla crescita del PIL tedesco delle diverse componenti della domanda aggregata, nel 2006, cioè prima della crisi, e nel 2013.
Come è possibile vedere, il contributo della domanda per consumi finali si riduce leggermente nei sette anni considerati. Il contributo della domanda pubblica è pressoché nullo, mentre crolla, divenendo praticamente nullo, il contributo degli investimenti in capitale fisso, così come quello delle esportazioni al netto delle importazioni (che nel 2006 era invece la seconda voce più pesante, in termini di contributo alla crescita economica tedesca).  

Contributi alla crescita del PIL tedesco nel 2006 e nel 2013


Fonte: Bce

Cos’è successo? E’ successo che, nonostante la galoppata continua delle esportazioni, che bruciano un record dopo l’altro, ed oramai hanno superato i 1.000 miliardi, le importazioni crescono anch’esse, talché il saldo di bilancia commerciale, fra 2007 e 2013, cresce solo, complessivamente, del 2,2%, in valore (e quindi diminuisce in volume, essendo una crescita inferiore a quella del tasso di inflazione nel settennio). In realtà, la posizione internazionale della Germania non sta divenendo realmente più forte, perché l’acquisizione di nuove quote di mercato in destinazioni diverse da quelle dei tradizionali partner dell’area euro ha poco più che compensato la perdita di export legata alla crisi dei mercati dei PIIGS.
La debolezza della domanda interna tedesca ed il manifestarsi di sintomi di rallentamento dell’inflazione erodono inoltre la propensione ad investire prendendo a prestito il denaro (se l’inflazione dovesse diminuire, i tassi di interesse reali crescerebbero). Infatti, nel 2013, gli investimenti in capitale fisso tedeschi diminuiscono, per il secondo anno consecutivo. Nell’arco del periodo della crisi (2008-2013) tale aggregato si è contratto dello 0,7% in termini reali. Ciò comprometterà la competitività futura anche sui mercati in cui la Germania si sta attualmente espandendo. Sarà infatti difficile, in prospettiva futura, tenere testa ai concorrenti interni dei mercati extra-euro di esportazione senza investire a sufficienza.  
Inoltre, dei circa 892 miliardi di esportazioni tedesche destinati a Paesi diversi dai PIIGS + Francia nel 2013, poco più di un quinto, ovvero 190, sono molto precari perché destinati:
-    -      Agli USA, che prima o poi dovranno fare una manovra di aggiustamento del loro crescente disavanzo e debito di bilancio, con effetti negativi sulla domanda per importazioni;
-      -    Alla Cina, che sta sviluppando a ritmi rapidissimi una industria di sostituzione delle importazioni, proprio nei settori “forti” dell’export tedesco (automotive, chimica, meccanica) e che comunque dovrà far rallentare la crescita esplosiva della sua domanda interna, che sta generando bolle immobiliari e politiche;
-       -   Al Giappone, rispetto al quale il saldo di bilancia commerciale tedesco è negativo, per cui la Germania ha un gap di competitività (e comunque non è dato sapere se gli effetti espansivi dell’Abenomics sulla domanda interna saranno durevoli, o se il Paese tornerà in stagnazione);
-     -     Al Brasile, la cui domanda interna sembra aver esaurito gran parte della sua spinta propulsiva degli anni passati;
-       -   All’Ucraina, devastata da una guerra.
E in tutto questo non sto, prudenzialmente, considerando l’ipotesi di un prolungamento sine die e/o di un indurimento delle sanzioni commerciali con la Russia, altrimenti l’export extra-PIIGS a rischio, per la Germania, sale fino a 226 miliardi, ovvero ad un quarto del totale.
In conclusione, la Germania non può contare a lungo su una strategia che costringe gli altri Paesi dell’area-euro ad adeguarsi alle caratteristiche strutturali della sua economia ed a seguire le sue stesse filosofie di politica economica, puntando sulla valvola di sfogo dei mercati extra-euro. Deve necessariamente tornare, nel giro di due-tre anni al massimo, a far crescere la sua domanda interna, ed al tempo stesso quella dei partner dell’area-euro, per tornare ad avere mercati “sicuri” per il suo export, sottoposto a crescenti tensioni al ribasso, e per non rischiare di ritrovarsi con piccole “tigri asiatiche” europee ai suoi confini meridionali, che hanno deflazionato al punto tale da diventare concorrenti aggressivi, per di più inseriti dentro un’aera di libero scambio e di libero movimento dei capitali. In tutto questo, mi limito all’insostenibilità economica, e non considero gli ulteriori fattori di insostenibilità politica della strategia tedesca (uno sprofondamento finale del fronte meridionale dell’euro non conviene agli USA, che stanno negoziando il TTIP, e che devono poter contare su alleati europei per fronteggiare la doppia minaccia della della Russia, e dell’instabilità sempre più grave del Medio Oriente; la Germania ha bisogno di alleati meridionali per gestire le politiche migratorie, altrimenti rischia di ritrovarsi alle frontiere, oltre a milioni di africani, anche milioni di italiani, spagnoli, greci, francesi, ecc.).
Per quanto riguarda la prima parte della correzione di strategia, ovvero il miglioramento dei livelli di domanda interna tedesca, a differenza dei Paesi PIIGS, nel periodo 2010-2013 la Germania ha difeso il livello di potere d’acquisto del salario medio (se il salario reale nel 2010 era pari a 100, nel 2013 è pari a 99,4) così come la Francia (che passa da 100 a 99,3). Tutti gli altri Paesi invece subiscono un calo del salario reale (con una perdita che supera i 13 punti percentuali nel caso peggiore, quello portoghese, si attesta sui 9 punti nel caso greco, e sui 4,4 in quello italiano, solo di poco meno grave di quello spagnolo). La difesa del salario reale però è troppo poco; come si è visto, non ha impedito una decrescita del contributo dei consumi interni alla crescita, nel periodo 2006-2013. Occorre farlo crescere, soprattutto in considerazione del fatto che la Germania ha gli spazi, in termini di aumento della produttività (cresciuta, in termini orari, dello 0,7% nel biennio 2012-2013) per far lievitare i salari senza nemmeno creare scompensi all’ideologia economia dominante della sua destra. Ed inoltre, e qui si passa alla seconda parte della strategia di uscita, occorre riaprire ad una crescita della domanda nei Paesi periferici in crisi. Iniziando da quelli che hanno già in atto un forte recupero di produttività (nel biennio 2012-2013, la produttività oraria è cresciuta del 5,4% in Spagna, dell’1,8% in Grecia, dell’1,2% in Portogallo, per cui, anche negli angusti limiti del modello tedesco, appare oggi indifendibile una politica di ulteriore deflazione nei confronti di questi Paesi). Diversamente, la Germania pagherà. Pagherà dopo di noi, ma pagherà caro, pagherà tutto.
In fondo, la lezione per i tedeschi è di flessibilità ed umiltà. In un mondo globale, non esistono le scappatoie alle infezioni dei propri vicini. E non si può pensare che le cure basate sulla propria esperienza possano andare bene per sempre.



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