Il fondamento della dottrina di
politica economica tedesca, nella tempesta di questa crisi, è riassumibile nei
due grafici che seguono. Il primo riguarda il saldo commerciale della Germania
con l’area euro, il secondo con il resto del mondo fuori dall’euro. Come è
possibile vedere, se il saldo commerciale intra-euro peggiora progressivamente,
fino a diventare negativo (per via della contrazione della domanda dei Paesi
euromediterranei sottoposti ad austerità) quello con il resto del mondo
migliora. La politica economica tedesca, sin dagli anni pre-crisi del Governo
Schroeder, ha prodotto un contenimento della crescita dei costi, insieme a
forti investimenti di sistema mirati ad accrescere la produttività totale dei fattori.
Con la conseguenza che, se la Germania, insieme ad un gruppo di Paesi nordici fortemente
integrato al suo interno, ha una tendenza a contenere l’andamento del CLUP,
cioè del costo del lavoro rispetto alla produttività, allora i Paesi dell’euro ad
alto debito, pubblico o bancario, ed a basso potenziale di crescita, sono
costretti a seguire questa tendenza, che comporta una politica deflazionistica,
per avvicinarsi ai trend tedeschi di CLUP, pena uno spiazzamento competitivo in
un’area dove non esiste uno schermo valutario a difenderli dalla bassa
competitività: spiazzamento che produrrebbe inevitabilmente un ingente e
sfavorevole processo di redistribuzione dei capitali e degli investimenti, ed
una caduta di competitività internazionale tale da spingerli fuori da tale area
(ma nessuna economia a basso potenziale di crescita ed a alto debito, checché
ne pensino frange ultraminoritarie, è in grado di pagare il costo economico e
politico connesso con l’uscita dall’euro. Tale ipotesi può essere trattata solo
come piano B in caso di assoluta impossibilità di cambiare la direzione
disastrosa delle politiche europee nel prossimo futuro, un po’ come i due
protagonisti di quel famoso film americano, l’Inferno di Cristallo, che per
evitare la morte sicura da combustione si buttano giù da un grattacielo, comunque
con la quasi certezza di sfracellarsi).
Negli anni della crisi, a partire
dal 2008, questa strategia di tipo “follow the leader”, imposta ai partner
deboli, è stata sostenibile, per il leader stesso (ovvero la Germania) grazie
all’espansione commerciale al di fuori dell’area dell’euro, abbandonando
mercati euromediterranei la cui domanda interna è stata demolita da detta
strategia. Nel frattempo, il mantenimento dell’euro ha impedito di subire la
concorrenza dal lato della svalutazione competitiva da parte dei Paesi
euromediterranei (che storicamente la Germania ha sofferto molto, soprattutto
dall’Italia, che ha, o forse aveva, una struttura manifatturiera settorialmente
simile a quella tedesca).
Euro-fedeltà che è costata cara
elettoralmente alla Cdu della Merkel, per via della crescita alla sua destra
degli euroscettici dell’Afd, ma che nonostante tutto è stata mantenuta, proprio
per impedire ai concorrenti dell’area euro di ricostituire una competitività di
costo deflazionando la valuta anziché i costi interni. E che sarà difesa anche
in futuro, perché la Merkel può rivendicare di fronte alla sua opinione
pubblica l’idea (del tutto illusoria, come vedremo a breve) di aver intrappolato
i propri partner in una gabbia, senza una via d’uscita praticabile a costi
ragionevoli. Sarà quindi difesa politicamente dalla destra cristiano
democratica e liberale tedesca, almeno fintanto che chi subisce questa
strategia non deflazioni fino al punto da diventare attraente per le imprese e
gli investitori tedeschi, depauperando in misura seria, non marginale, i
livelli produttivi ed occupazionali della Mutterland. A quel punto, si
potrebbero creare condizioni politiche, in Germania, tali da rompere il patto
dell’euro in funzione difensiva dei propri asset produttivi ed occupazionali.
Ma una simile inversione di competitività fra Germania e Paesi euromediterranei
non è uno scenario che possa realizzarsi nei prossimi due o tre anni.
Commercio estero fra Germania e area euro 2006-2013
Fonte: Eurostat
Commercio estero fra Germania e Paesi fuori dall’area euro Gennaio 2006-
Marzo 2014
Fonte: Eurostat
Dunque, a prima vista, questa
strategia sembra sostenibile (ovviamente rispetto agli interessi nazionali
tedeschi). Al 2013, secondo Eurostat, la Germania esporta infatti “solo” 202
miliardi verso i Paesi PIIGS a domanda decrescente (Italia, Spagna, Portogallo,
Grecia, e dobbiamo anche metterci la Francia, che sta per subire la stessa cura
affibbiata ai Paesi appena citati), e più del triplo (692 miliardi) nei Paesi
esterni all’area euro.
La strategia tedesca è veramente sostenibile
in prospettiva? In realtà lo è solo nel breve periodo, perché produce effetti
strutturali dannosi per la stessa Germania. Questa tabella riporta i contributi
alla crescita del PIL tedesco delle diverse componenti della domanda aggregata,
nel 2006, cioè prima della crisi, e nel 2013.
Come è possibile vedere, il
contributo della domanda per consumi finali si riduce leggermente nei sette
anni considerati. Il contributo della domanda pubblica è pressoché nullo,
mentre crolla, divenendo praticamente nullo, il contributo degli investimenti
in capitale fisso, così come quello delle esportazioni al netto delle
importazioni (che nel 2006 era invece la seconda voce più pesante, in termini
di contributo alla crescita economica tedesca).
Contributi alla crescita del PIL tedesco nel 2006 e nel 2013
Fonte: Bce
Cos’è successo? E’ successo che,
nonostante la galoppata continua delle esportazioni, che bruciano un record
dopo l’altro, ed oramai hanno superato i 1.000 miliardi, le importazioni
crescono anch’esse, talché il saldo di bilancia commerciale, fra 2007 e 2013,
cresce solo, complessivamente, del 2,2%, in valore (e quindi diminuisce in
volume, essendo una crescita inferiore a quella del tasso di inflazione nel settennio).
In realtà, la posizione internazionale della Germania non sta divenendo realmente
più forte, perché l’acquisizione di nuove quote di mercato in destinazioni
diverse da quelle dei tradizionali partner dell’area euro ha poco più che
compensato la perdita di export legata alla crisi dei mercati dei PIIGS.
La debolezza della domanda
interna tedesca ed il manifestarsi di sintomi di rallentamento dell’inflazione
erodono inoltre la propensione ad investire prendendo a prestito il denaro (se
l’inflazione dovesse diminuire, i tassi di interesse reali crescerebbero).
Infatti, nel 2013, gli investimenti in capitale fisso tedeschi diminuiscono,
per il secondo anno consecutivo. Nell’arco del periodo della crisi (2008-2013)
tale aggregato si è contratto dello 0,7% in termini reali. Ciò comprometterà la
competitività futura anche sui mercati in cui la Germania si sta attualmente
espandendo. Sarà infatti difficile, in prospettiva futura, tenere testa ai concorrenti
interni dei mercati extra-euro di esportazione senza investire a sufficienza.
Inoltre, dei circa 892 miliardi
di esportazioni tedesche destinati a Paesi diversi dai PIIGS + Francia nel
2013, poco più di un quinto, ovvero 190, sono molto precari perché destinati:
- -
Agli USA, che prima o poi dovranno fare una
manovra di aggiustamento del loro crescente disavanzo e debito di bilancio, con
effetti negativi sulla domanda per importazioni;
- -
Alla Cina, che sta sviluppando a ritmi
rapidissimi una industria di sostituzione delle importazioni, proprio nei
settori “forti” dell’export tedesco (automotive, chimica, meccanica) e che
comunque dovrà far rallentare la crescita esplosiva della sua domanda interna,
che sta generando bolle immobiliari e politiche;
- -
Al Giappone, rispetto al quale il saldo di
bilancia commerciale tedesco è negativo, per cui la Germania ha un gap di
competitività (e comunque non è dato sapere se gli effetti espansivi
dell’Abenomics sulla domanda interna saranno durevoli, o se il Paese tornerà in
stagnazione);
- -
Al Brasile, la cui domanda interna sembra aver
esaurito gran parte della sua spinta propulsiva degli anni passati;
- -
All’Ucraina, devastata da una guerra.
E in tutto questo non sto,
prudenzialmente, considerando l’ipotesi di un prolungamento sine die e/o di un
indurimento delle sanzioni commerciali con la Russia, altrimenti l’export
extra-PIIGS a rischio, per la Germania, sale fino a 226 miliardi, ovvero ad un
quarto del totale.
In conclusione, la Germania non
può contare a lungo su una strategia che costringe gli altri Paesi
dell’area-euro ad adeguarsi alle caratteristiche strutturali della sua economia
ed a seguire le sue stesse filosofie di politica economica, puntando sulla
valvola di sfogo dei mercati extra-euro. Deve necessariamente tornare, nel giro
di due-tre anni al massimo, a far crescere la sua domanda interna, ed al tempo
stesso quella dei partner dell’area-euro, per tornare ad avere mercati “sicuri”
per il suo export, sottoposto a crescenti tensioni al ribasso, e per non
rischiare di ritrovarsi con piccole “tigri asiatiche” europee ai suoi confini
meridionali, che hanno deflazionato al punto tale da diventare concorrenti
aggressivi, per di più inseriti dentro un’aera di libero scambio e di libero
movimento dei capitali. In tutto questo, mi limito all’insostenibilità
economica, e non considero gli ulteriori fattori di insostenibilità politica
della strategia tedesca (uno sprofondamento finale del fronte meridionale
dell’euro non conviene agli USA, che stanno negoziando il TTIP, e che devono
poter contare su alleati europei per fronteggiare la doppia minaccia della
della Russia, e dell’instabilità sempre più grave del Medio Oriente; la
Germania ha bisogno di alleati meridionali per gestire le politiche migratorie,
altrimenti rischia di ritrovarsi alle frontiere, oltre a milioni di africani,
anche milioni di italiani, spagnoli, greci, francesi, ecc.).
Per quanto riguarda la prima
parte della correzione di strategia, ovvero il miglioramento dei livelli di
domanda interna tedesca, a differenza dei Paesi PIIGS, nel periodo 2010-2013 la
Germania ha difeso il livello di potere d’acquisto del salario medio (se il
salario reale nel 2010 era pari a 100, nel 2013 è pari a 99,4) così come la
Francia (che passa da 100 a 99,3). Tutti gli altri Paesi invece subiscono un
calo del salario reale (con una perdita che supera i 13 punti percentuali nel
caso peggiore, quello portoghese, si attesta sui 9 punti nel caso greco, e sui
4,4 in quello italiano, solo di poco meno grave di quello spagnolo). La difesa
del salario reale però è troppo poco; come si è visto, non ha impedito una
decrescita del contributo dei consumi interni alla crescita, nel periodo
2006-2013. Occorre farlo crescere, soprattutto in considerazione del fatto che
la Germania ha gli spazi, in termini di aumento della produttività (cresciuta,
in termini orari, dello 0,7% nel biennio 2012-2013) per far lievitare i salari
senza nemmeno creare scompensi all’ideologia economia dominante della sua
destra. Ed inoltre, e qui si passa alla seconda parte della strategia di
uscita, occorre riaprire ad una crescita della domanda nei Paesi periferici in
crisi. Iniziando da quelli che hanno già in atto un forte recupero di
produttività (nel biennio 2012-2013, la produttività oraria è cresciuta del
5,4% in Spagna, dell’1,8% in Grecia, dell’1,2% in Portogallo, per cui, anche
negli angusti limiti del modello tedesco, appare oggi indifendibile una
politica di ulteriore deflazione nei confronti di questi Paesi). Diversamente,
la Germania pagherà. Pagherà dopo di noi, ma pagherà caro, pagherà tutto.
In fondo, la lezione per i
tedeschi è di flessibilità ed umiltà. In un mondo globale, non esistono le scappatoie
alle infezioni dei propri vicini. E non si può pensare che le cure basate sulla
propria esperienza possano andare bene per sempre.
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