VIKTOR ORBAN E' BIANCO O NERO? O E' GRIGIO?
di Riccardo Achilli
Introduzione ed un caveat
E’ di
un certo interesse analizzare la situazione politica interna all’Ungheria del
premier Orbán, perché rappresenta un possibile “caso di studio” di Paese che si
colloca fuori dall’euro e dalle sue politiche. Un caso di studio che diverrebbe
anche attuale, nell’ipotesi in cui le politiche economiche europee non
cambiassero, costringendo, per motivi di sopravvivenza, i Paesi più sotto
pressione ad uscirne, oppure ad iniziare una linea della disobbedienza
sistematica nei confronti dell’Europa.
E’
anche utile dare una visione oggettiva di Orbán, che rifugga dalle due
estremizzazioni: da un lato una sinistra radicale acefala, che è diventata
sovranista, e che vede in lui l’Eroe della Lotta di Liberazione dei Liberi
Popoli Contro L’Euro, d’altro lato, i media e gli analisti di sistema, che,
siccome Orbán sfugge al loro ricettario tecnocratico, lo qualificano come un
satrapo da Repubblica centroamericana. Orbán, come vedremo, non corrisponde a
nessuna delle due estremizzazioni, collocandosi in un’area grigia, che è
importante analizzare in modo il più
possibile obiettivo (per quanto evidentemente chi scrive non provi nessuna
simpatia nei suoi confronti).
Un
caveat: va ovviamente premesso che l’Ungheria ha una serie di specificità che
nessun Paese dell’area euro possiede.
Intanto è stata assoggettata ad un regime
comunista, peraltro relativamente “atipico”, nel senso che il regime di Kádár,
memore del 1956, è stato relativamente più tollerante rispetto ad altri Paesi
della ex Cortina di Ferro, nei confronti del dissenso, e ciò può aver avuto un
ruolo nel mantenimento di una opposizione di destra, che nell’Ungheria post
comunista si è evoluta nel partito Fidesz, di cui Orbán è leader.
D’altro
canto, la lunga esperienza del comunismo ha segnato a fuoco, nelle menti delle
classi più deboli della società, ed in particolare dei più anziani (anche se
l’Ungheria ha una popolazione relativamente giovane, solo il 17,5% ha 65 anni o
più), il ricordo di uno Stato in grado di provvedere ai bisogni di tutti,
quindi una cultura statalista certamente molto più forte che da noi. Inoltre,
l’Ungheria è caratterizzata, da un lato, dalla presenza di 2,1 milioni di
ungheresi etnici residenti fuori dal Paese, soprattutto in Romania, Serbia e
Slovacchia (rispetto ad una popolazione di 10 milioni di abitanti) e
dall’altro, dalla importante presenza di minoranze etniche dentro il Paese
(Rom, tedeschi, rumeni e slavi rappresentano circa il 7% della popolazione).
Questa variabile etnica e demografica pone, ovviamente, sfide molto difficili
alla sinistra, e prepara il campo a tematiche nazionaliste, revansciste e
razziste, che la destra maneggia facilmente. Inoltre, l’Ungheria, sin da prima
del comunismo, ha una lunga e tormentata storia di nazionalismi reazionari e
paternalisti (vedi Horthy) e di rivendicazioni etnico-linguistiche e culturali,
che rende il popolo magiaro molto sensibile al tema della Terra e del Sangue.
Il malinconico e meritato declino della sinistra ungherese
Fatta questa doverosa premessa sulle
specificità magiare, quello che oggi ci compare di fronte è un Paese senza una
forza di sinistra consistente. Il partito socialista ungherese, l’MSZP, è il
parziale erede dell’ex partito comunista, nel senso che be ha ereditato il
patrimonio, e che molti dirigenti hanno fatto una carriera politica sotto il
comunismo. Gyula Horn, ex Ministro degli Esteri nel periodo comunista, è
rimasto parlamentare socialista fino al 2010, dopo essere stato capo del partito
stesso fra 1990 e 1998. László Kovács, altro leader socialista e Ministro degli
Esteri nei Governi socialisti, è stato vice Ministro degli Esteri, e membro del
Comitato Centrale, sotto il comunismo. Analoghe storie riguardano altri
dirigenti socialisti, come Ferenc Gyurcsány, Primo Ministro fra 2006 e 2009.
Questa
eredità è stata vissuta, dai socialisti post-comunisti, come qualcosa di
ingombrante ed imbarazzante, di cui disfarsi. Qualcosa che li avrebbe messi
fuori dal consesso politico europeo e nazionale. Parliamo infatti degli anni
Novanta, del clima culturale da neoliberismo rampante che attraversò le lande
dell’est europeo post-comunista con una forza devastante, fra shock therapies
di neoliberismo selvaggio suggerite dal FMI e dai suoi discepoli (fra i quali
primeggiò il seguace di Milton Friedman, Jeffrey Sachs) e ceti sociali
emergenti che, impregnati di entusiasmo per il luna park del consumismo che gli
si apriva davanti, fornivano la base sociale ed elettorale di consenso a tali
esperimenti di liberismo estremo. D’altra parte, sul versante occidentale, una
Ungheria che aspirava all’ingresso nella Ue trovava un socialismo profondamente
arato dal blairismo e dal clintonismo, o da bizzarri esperimenti centristi,
come l’ulivismo italiano, o il riformismo liberale dell’ultimo Governo Gonzalez
in Spagna.
In
questo contesto, i socialisti ungheresi credettero di poter essere ottimi
allievi del nuovo che avanzava, e, con un opportunismo degno di numerosi altri
casi di post comunismo, si votarono al liberismo più selvaggio. Già nel
1995-96, arrivati al Governo, implementarono un massiccio pacchetto di riforme
economiche, privatizzazioni, tagli allo Stato sociale ed ai salari pubblici,
noto come “pacchetto Bokros”. Poi, nel 2006, tornati al Governo, implementarono
una dura politica di austerità finanziaria ed un tentativo di riforma sanitaria
talmente liberista da essere bocciato dall’ala sinistra del partito.
Questa
classe dirigente sostanzialmente opportunista e attaccata al potere si
evidenzia, in tutta la sua modestia, nel discorso registrato, durante una
riunione a porte chiuse del partito, in cui l’allora premier Gyurcsány dichiara
che “nessun Paese europeo ha fatto politiche più ottuse delle nostre. Non c’è
nessuna misura di governo per la quale possiamo essere fieri, ed abbiamo
sistematicamente mentito al nostro popolo negli ultimi due anni. Abbiamo anche
chiesto esplicitamente un sostegno clandestino da media e capitali privati”. Un
discorso che, a differenza dell’Italia, dove un incidente simile non sarebbe
nemmeno registrato dall’opinione pubblica, diede luogo ad una durissima
contestazione popolare, guarda caso guidata proprio dal Fidesz, che da lì
costruì il suo ritorno al Governo. E cosa rispose pubblicamente Gyurcsány
quando fu messo alle strette? Disse “l’intercettazione è vera. Però, sapete,
quando uno parla in una riunione a porte chiuse dice cose che in pubblico non
direbbe mai”. Come dire, opportunista, bugiardo ma anche un bel po’ imbecille.
In uno
scenario simile, non c’è da stupirsi se oramai, smaltita la sbornia di
neoliberismo degli anni Novanta, e misurati i danni sociali che questo ha
prodotto, i suoi alfieri dell’MSZP siano oramai scesi al 10% del consenso (come
da ultime elezioni europee di maggio). Se poi consideriamo che:
-
Il KTI, una strana alleanza composta da
socialisti di sinistra che si sono scissi dal loro partito, guidati dalla ex
parlamentare Katalin Szili, e partiti centristi e moderati, alle elezioni
parlamentari del 2014 ha preso lo 0,2%, anche per il suo profilo politico
indeterminato;
-
Il partito comunista (partito dei lavoratori) è
la quintessenza dello stalinismo più incredibilmente extragalattico, e prende
percentuali di voto da prefisso telefonico,
Allora
abbiamo che la sinistra è diventata, in Ungheria, politicamente marginale.
Evidentemente, però, le tematiche tipiche della sinistra, ovvero le istanze di
giustizia, protezione sociale, solidarietà, non muoiono con l’estinzione della
sinistra politica. Semplicemente, vengono prese in carico, a modo suo, cioè in
modo perlopiù demagogico, dalla destra del Fidesz.
Il “fenomeno” Orbán
Il
fenomeno è molto complesso, e non facilmente collocabile negli schemi politici
cui siamo abituati. La riforma costituzionale del 2013 è chiaramente
illiberale, ma non delinea una Costituzione fascista. Segue peraltro norme,
approvate nel 2010, cioè all’inizio del Governo Orbán, che limitano la libertà
di stampa, con i media messi sotto controllo da una commissione parlamentare
oggi dominata dal Fidesz (ma che domani potrebbe essere controllata da un altro
partito di maggioranza).
Detta
Costituzione, all’articolo U, non mette fuori legge il partito socialista
ungherese, come la stampa occidentale ha detto.
Dice che “le organizzazioni
politiche che hanno guadagnato riconoscimento legale durante la transizione
democratica in qualità di successori legali del Partito Socialista Ungherese
dei Lavoratori (il vecchio partito di regime) continuano a condividere le
responsabilità dei loro predecessori per
gli asset accumulati illegalmente”, e che “i detentori del potere sotto il
regime comunista devono essere sottoposti a dichiarazioni pubbliche, circa i
ruoli ricoperti e le azioni sostenute”. Si tratta cioè di una sanzione morale e
di immagine politica, certamente antipatica e scorretta, in una logica di
pluralismo, certamente rivolta ai socialisti ungheresi, i cui dirigenti sono
spesso stati coinvolti nella gestione del potere comunista, ma non stiamo
parlando di una messa al bando di un partito politico, anche se chiaramente
tale disposizione è volta a danneggiare gli avversari socialisti.
Gli
aspetti illiberali, più volte citati, riguardano la Corte Costituzionale, che
si vedrebbe ridurre la possibilità di esaminare emendamenti alla Costituzione,
se non nei limiti degli aspetti procedurali relativi alla loro elaborazione e
promulgazione. Tuttavia, tutti i sistemi democratici del mondo prevedono limiti
alla possibilità delle Corti Costituzionali di modificare, con sentenze, le
Costituzioni o provvedimenti di carattere costituzionale. Non sembra questo
essere un aspetto illiberale. Così come la sottoposizione della Banca Centrale
al potere politico non è di per sé un atto illiberale, considerato che anche in
Italia, fino agli anni Ottanta, la Banca Centrale era influenzata dalla
politica.
Gli aspetti
illiberali veri e propri riguardano invece i diritti civili ed individuali: la
possibilità di proibire ai senzatetto di dormire in spazi pubblici, la
possibilità di proibire a neolaureati che abbiano usufruito di aiuti pubblici
di lasciare il Paese per un certo numero di anni, il taglio antiabortista e la
definizione di famiglia esclusivamente come unione matrimoniale fra uomo e
donna, la limitazione del diritto elettorale attivo e passivo per chi è stato
condannato per un reato, o dichiarato mentalmente ritardato da un Tribunale, la
limitazione della libertà di espressione in casi generici e manipolabili, come
in caso di “violazione della dignità altrui”, oppure in caso di “violazione della dignità della
nazione ungherese o di una comunità religiosa, razziale o etnica”, e una certa
limitazione della libertà di comunicazione dei media, che potranno mettere in
onda dibattiti elettorali solo sulla televisione pubblica (in questo momento
controllata da dirigenti in quota Fidesz) e non su emittenti private. Questo è
l’insieme degli aspetti che realmente configurano una Costituzione poco
liberale, anche se, evidentemente, non bastano per parlare di fascismo, dal
momento in cui, al netto delle limitazioni sopra esposte, i principali diritti
politici individuali e collettivi, ed i principali aspetti della divisione fra
i poteri dello Stato, sono complessivamente rispettati. I diritti sostanziali
delle minoranze etniche e anche di quelle religiose (pur nel quadro di una
Costituzione che dichiara formalmente un primato per la Chiesa cattolica)
sembrano essere complessivamente tutelati, e se razzismo c’è in Ungheria,
questo è il prodotto di una storia molto lunga di discriminazioni, iniziata ben
prima di Orbán.
Di
fatto, Orbán non è un fascista né uno xenofobo e nemmeno un anti-europeista (ed
infatti si tiene ben lontano da qualsiasi alleanza o accordo con quelli di
Jobbik, che hanno, loro sì, tratti neofascisti, xenofobi ed antieuropeisti),
poiché il suo Governo si è fissato l’obiettivo di rimanere dentro l’Unione
europea e di rispettare i Trattati Europei. L’adesione alla Ue è vista però
come una associazione economica di Stati politicamente indipendenti, e non come
una strada per creare un super-Stato federale continentale, e la norma
costituzionale secondo cui la valuta nazionale è il fiorino rende per il
momento impossibile un percorso di adesione all’euro. Ed inoltre tale adesione
non è univoca, ma flessibile (un tratto che, come vedremo, caratterizza sempre
le politiche del Nostro). Infatti, accanto all’europeismo convinto, Orbán
strizza l’occhio anche alla Russia, per esempio sul progetto di gasdotto South
Stream, avversato dalla Ue.
La
dimostrazione più limpida del fatto che Orbán non è un fascista o un
nazionalista xenofobo deriva da un suo recentissimo discorso, in cui ha detto
che «oggi il mondo cerca di capire la natura di sistemi che non sono
occidentali, che non sono liberali e forse non sono nemmeno democrazie, ma che
hanno successo» menzionando però, come esempi cui riferirsi, Paesi che hanno
fra loro un livello di democrazia e di rispetto dei diritti umani e delle
minoranze etniche molto diversificato, come Singapore, Cina, India, Russia e
Turchia. Paesi che certo non sono fascisti, e che a volte hanno anche un certo
livello di tolleranza per le minoranze. Manca cioè, come avviene spesso per i
populisti, che tendono ad essere flessibili ed opportunisti, un modello fisso
ed univoco di riferimento. Si cerca cioè di prendere pezzi di modelli diversi,
adattandoli alla propria realtà nazionale.
Anche
la sua politica economica è eterodossa e rifugge da modelli univoci e rigidi.
E’ incastonata dentro principi generali ordoliberisti che impregnano la nuova
Costituzione (l’idea che ogni individuo è responsabile di sé stesso, che lo
Stato deve assumere semplicemente un ruolo di regolamentazione, mirato ad
estendere la concorrenza, ad eliminare posizioni di mercato dominanti, ed a
tutelare i consumatori) ma poi, all’atto pratico, è un mix di liberalismo e di
idee e principi socialdemocratici. Da un lato, l’introduzione della flat rate
per l’imposta sui redditi non può che sfavorire i poveri, ed aumentare le
distanze sociali in un Paese già gravato da forti ineguaglianze, così come
l’aumento dell’Iva al 27% e una politica di bilancio improntata all’austerità,
per raggiungere gli obiettivi di deficit/PIL previsti dall’Unione europea, ed
un obiettivo politico di riduzione del rapporto debito/PIL al 50%. E la riforma
del mercato del lavoro ha introdotto una forma di mini-jobs molto precari e
molto poco retribuiti, a fronte di lavori di pubblica utilità cui i disoccupati
vengono avviati. Un intervento che di fatto ha un forte potere calmierante
sull’aumento dei salari. I bassi salari vengono usati come strumento di una
politica di attrazione di investimenti esterni, di tipo industriale, molto
promettente, ma fatta pagare, evidentemente, ai lavoratori stessi.
D’altro
canto, però, la politica monetaria è sottoposta al controllo del Governo, e non
lasciata ad una Banca Centrale indipendente che finisce per obbedire ai mercati
finanziari. I benefici economici per lo studio universitario e per la maternità
e la famiglia sono stati reintrodotti, dopo essere stati tagliati dai
socialisti. Le imprese energetiche e le utilities sono in via di
rinazionalizzazione, dopo essere state privatizzate. Il sistema pensionistico è
stato nuovamente nazionalizzato. Sono stati adottati prelievi fiscali
straordinari sulle banche, accusate di essere la causa della crisi attuale.
Allora? Conclusioni
Allora?
Allora Orbán non è un fascista, non è un antieuropeista, non è un dittatore nel
senso tradizionale del termine. Questi aggettivi sono stati messi lì da
un’Europa che mal digerisce modelli diversi dal suo. E’ un fantasioso populista
di destra, alla ricerca della Terza Via come molto spesso fanno tutti i
populisti del mondo, una Terza Via che nel suo caso specifico mescola, in modo
flessibile, adattandoli pragmaticamente alla realtà del suo Paese, elementi di
conservatorismo familistico e clericalistico piccolo-borghese, di etno-nazionalismo spesso ridotto a mero
folklore, di liberalismo ortodosso, di economia sociale di mercato, e persino
di socialdemocrazia. E che, come tutti i populisti, come Peròn, ad esempio, ma
anche come Grillo, che non manca mai di fare dichiarazioni minacciose nei confronti
dei media e della stampa, mescola questi ingredienti utilizzando, come
strumento, una certa dose di autoritarismo, non tale, però, da rendere il suo
Paese una satrapia. Superando quindi, ovviamente in modo opportunistico, le
divisioni fra destra e sinistra, e mettendole in crisi, fintanto che non
riemergerà, a contrastarlo, una forte e moderna idea di sinistra che è sinora
mancata ai piccoli eredi di Kádár.
Nell'ottica
dell’Ungheria come caso di studio, abbiamo qui i tratti che potrebbero assumere
molti Paesi dell’area-euro se l’esperimento dell’euro dovesse fallire
definitivamente. Paesi caratterizzati da democrazie “ad intensità ridotta”,
dove cioè alcuni diritti politici e civili vengono ridotti, anche se non
annullati, e dove, sia pur per via elettorale, si afferma un leader politico
carismatico, in grado di superare (ed anche violare, quando necessario), con la
sua presenza, i meccanismi e le liturgie delle democrazie parlamentari
tradizionali, dove le politiche economiche vengono gestite con criteri
ordoliberisti, fondamentalmente orientati agli interessi del capitale, ma dove
il ruolo regolatorio dello Stato, organizzato attorno al leader ed alla sua
cerchia, è rafforzato, e si incorporano flessibilmente alcuni elementi
socialdemocratici per “tenere buona” la plebe frumentaria, dove la politica
estera si muove in modo elastico, a seconda degli interessi, fra le varie
potenze dell’equilibrio multipolare che si va configurando, senza adesioni
rigide e aprioristiche ad un campo o all’altro, e dove la coesione sociale
viene tenuta in piedi da un nuovo racconto, modernizzato, della immarcescibile
favola della Terra e del Sangue, garantendo unità in società profondamente
diseguali quanto a distribuzione del reddito. Ma il tutto senza esagerare, e
senza cadere nell’estremo opposto del nazionalismo neofascista/autarchico, che
in un mondo economico super-globalizzato diventa un ostacolo per il business.
Tenendo quindi le forze più dichiaratamente fascistoidi e nazionalistiche ai
margini, temperando il nazionalismo con la giusta dose di internazionalismo.
Questo
modello va benissimo al capitale. Come detto, l'Ungheria di Viktor il Tiranno
continua ad attrarre grandi flussi di investimenti esteri, specie
dall'industria tedesca, PIL e profitti crescono nonostante la crisi. Ed alla
plebe frumentaria sottopagata restano gli spettacolini folkloristici in costume
tipico, con il goulash e i violini tzigani, nelle varie feste del ripristinato
Orgoglio Nazionale organizzate dal partito.
Questo
modello non piace? Evidentemente no. E’ un modello che prefigura una sorta di
nuovo Medioevo, dove l’unità europea è vista solo come una confederazione lasca
dal punto di vista politico, ma corazzata sotto quello militare, della
sicurezza comune e del contrasto ai flussi migratori, al fine di affrontare
pericoli, reali o immaginari, provenienti da altri mondi (quello islamico, ad
esempio), una specie di riedizione del Sacro Romano Impero, insomma. Ma la
colpa non è di Orbán, che in fondo è solo un rizzabischeri paraculo (ma intelligente,
a differenza di certi cacicchi nostrani) che fa il suo
lavoro, ma della pseudo-sinistra, che desidera solo stare al servizio delle
tecnocrazie europee, e che glielo consente. Come diceva Petrolini, “nun ce l’ho
cò te, ma con chi te ce ha messo”.
In fondo,
l'insegnamento più importante che Orbán può dare alla sinistra è che non si
risolve niente con il nazionalismo, il fiorino al posto dell'euro, la Banca
Centrale a Budapest piuttosto che a Francoforte. Rimane, assolutamente
primaria, la lotta di classe, per sconfiggere ogni tipo di destra, sia essa
oligarchico-liberista o populista.
Sono un italiano che vivo da molti anni in Ungheria, a Budapest. Ho pure votato piú volte qui.
RispondiEliminaRitengo l'articolo scritto piuttosto aderente alla realtá, pertanto complimenti, perché sulla stampa italiana é rarissimo leggere articoli sui paesi dell'Est che rispecchino anche solo un po' la realtá.
Poi, purtroppo, aggiungo che la parte finale dell'articolo in oggetto si allontana dalla parte precedente.
Insomma il problema principale (é difficile da risolvere) sarebbe che si tende a fare un'analisi secondo la mentalitá e le categorie italiane, ma per parlare di molti aspetti presenti nell'articolo bisognerebbe anche capire la mentalitá/storia/atteggiamento del popolo ungherese, o meglio della sua maggioranza.
Innanzitutto la maggioranza degli ungheresi é razzista o xenofoba o per meglio dire non sono propriamente aperti verso i popoli "stranieri". (In parte non sisapprovo). La concezione dell'economia é spesso confusa e incerta per via dello statalismo precedente.
Le categorie destra-sinistra si fanno fatica ad applicare oggi (spesso sono ribaltate).
Fidesz/Orban oggi é potente anche per via di una mancanza di figure attraenti o di spicco nell'opposizione. Anche in Italia mi sembra, Renzi ha molti voti per la mancanza di politici carismatici.
Orban Viktor é intelligente da non mettersi contro l'UE, che per parecchio tempo lo ha cotrastato e ostacolato anche pesantemente. Ma oggi se gli Ungheresi dovessero votare se rimanere nell'UE oppure no, beh penso che...
Su molti temi oggi la penso come gli Ungheresi e non come gli Italiani: molti dei mali che ci sono in Italia é anche per questi motivi: l'aver perso lo spirito nazionale identitario, troppi immigrati, troppe politiche liberistiche, falsa democrazia, troppa enfasi su argomenti "gender" che riguardano una minoranza...ecc
Se si vuole prendere spunto dall'Ungheria di Orban allora per l'Italia ci sono molti spunti buoni. Applicandoli col tempo ci sarebbero dei buoni risultati. Con questo non significa che tutto é buono.