TOR SAPIENZA E' L'INTERA ITALIA
di Riccardo Achilli
Da sempre sostengo che i
quartieri popolari della cintura periferica di Roma sono una fotografia
emblematica, che racchiude tutte le sconfitte e le truffe che il popolo
italiano ha subito nella sua storia. Tor Sapienza è un quartiere periferico
della zona est di Roma, fra la Collatina e la Prenestina. Il primo insediamento
risale agli anni Venti, quando un ferroviere antifascista creò una cooperativa
edilizia per ospitare degli indesiderabili che, come usava in quegli anni, il
regime confinava in borgate sostanzialmente rurali, lontanissime del nucleo
urbano della Capitale, tagliati fuori fisicamente dalla città, anche per
assenza di collegamenti trasportistici.
Nel dopoguerra, il sacco edilizio
della città, favorito da consociativismi fra politica e business, i cui
protagonisti sono Giunte comunali democristiane e costruttori venuti su dal
nulla, rampanti e spregiudicati, stravolge completamente l'assetto pre-bellico
del quartiere. Le villette ad uno o due piani, circondate da giardinetti,
lasciano il posto ad un incubo di cemento armato, proiettato verso il cielo
verticalmente, alveari deprimenti dove centinaia di famiglie vivono appiccicate
l'una all'altra, separate da ambienti di scarsa qualità edilizia, con impianti
idraulici e sanitari non di rado insalubri. Niente verde urbano, niente
servizi, niente spazi di socializzazione, niente aree di parcheggio, la
motorizzazione di massa del boom economico produce un groviglio di automobili
parcheggiate ovunque, anche sopra i marciapiedi.
L'assenza di qualsiasi
razionalità urbanistica provoca una gravitazione di enormi fasce di popolazione
su strade di collegamento troppo anguste, generando un traffico infernale per
almeno 10-11 ore al giorno, e livelli di inquinamento da smog ed acustico da
terzo mondo.
Nell'abbandono e nel degrado, si
succedono coorti di defraudati e disperati: prima gli abitanti del centro
storico, trasferiti, per certi versi deportati, negli alveari della periferia,
attratti da un falso mito di modernità, mentre i palazzinari che hanno
costruito quegli alveari fanno un doppio business ristrutturando il centro
storico e rivendendolo a ricchi californiani o agli esponenti del ceto politico
e del jet set capitolino, il più parassitario jet set del mondo. Poi vengono
scaglioni di immigrati, attratti dalle opportunità di lavoro nella pubblica
amministrazione, nel commercio, nei servizi alla persona, nell'artigianato, che
la grande città offre negli anni della crescita: prima sono meridionali, poi
sono immigrati extracomunitari.
Generazioni di giovani crescono senza un luogo
dove ritrovarsi, in un enorme dormitorio dove il resto di Roma diventa quasi
un'altra città, un altro mondo, che al limite si va a visitare il sabato sera.
Nell'alienazione, si cerca rifugio, nel migliore dei casi, chiudendosi dentro
il proprio appartamento, intontendosi davanti alla televisione, nel peggiore, e
spesso per i giovani, nella droga, con il suo contorno di micro-delinquenza, di
violenza di strada, quasi come se la violenza fosse l'unico modo per evadere da
una prigione collettiva, per affermare “io esisto” dentro l'alveare di cemento
armato che cancella tutti, che rende tutti anonimi, che schiaccia tutti nello
squallore, nell'abbandono, nella solitudine metropolitana.
Pasolini, l'unico ad aver avuto
il coraggio di raccontare la gioventù bruciata della periferia, muore, ingoiato
dallo stesso incubo sociale che aveva descritto nei suoi libri. La fase eroica
dei sindaci comunisti Petroselli e Vetere, che risanano le borgate e danno un
grande slancio alle politiche sociali e redistributive, si esaurisce troppo
rapidamente. La sinistra si imbolsisce su un profilo radical-chic, che già si
avvertiva negli esperimenti culturali dell'Assessore Nicolini, dimenticando le
periferie.
Nel frattempo passano gli anni
Ottanta, la grande devastazione edilizia è un dato di fatto, le periferie
pasoliniane, che un tempo traboccavano di popolo comunista e socialista, ora
sono diventate terreno di conquista degli unici che ancora danno attenzione
alla disperazione dei loro abitanti, ovvero gli esponenti della destra post
fascista: Er Pecora Buontempo, che dorme dentro una Cinquecento, con la quale
percorre quotidianamente la periferia, parlando con gli ultimi e con i
dimenticati, altri esponenti di quella destra eversiva che aveva, negli anni
Settanta, flirtato non troppo da lontano con l'eversione neofascista. Costoro
parlano alla disperazione ed alla rabbia con il loro linguaggio, un linguaggio
fascista, fatto di odio, di ricerca di capri espiatori. Restituiscono una vuota
e povera illusione di dignità ai disperati della periferia, quella dignità di
cui sono stati deprivati quando furono rinchiusi nelle prigioni di cemento
armato delle borgate. E lo fanno contrapponendoli ad una altra categoria di
disperati più recenti, ovvero gli immigrati extracomunitari, che popolano
quelle borgate con una tale densità da ricostruire intere comunità etniche a sé
stanti, con i loro negozi, con i loro punti di ritrovo, con la loro cucina e la
loro lingua.
Oppure i Rom, che politiche totalmente prive di qualsiasi
approccio strategico ammassano in campi per nomadi, dove vengono stipati, senza
una sia pur minima idea di cosa farne, di come integrarli dentro la comunità,
creando quindi dei lager più piccoli, dentro i lager più grandi delle borgate.
“Ecco”, diranno allora i profeti di sventura della destra sociale romana ai
carcerati del lager più grande, “voi non siete più gli ultimi, ci sono dei
nuovi ultimi che sono più ultimi di voi. Sono quelli che vivono nel lager più
piccolo. E stanno lì, nel micro-lager, per un motivo preciso, perché sono
peggio di voi. Puzzano, rubano, bevono, vendono la droga ai pischelli. Casomai
fanno domanda, entrano in graduatoria e vi fregano l'alloggio popolare che
volevate dare ai vostri figli. E si fregano i lavori. Lavorate per tenere
quegli altri, gli stranieri, gli zingari, all'ultimo posto, così che voi
potrete avere l'illusione di essere saliti di un gradino nella scala sociale”.
E così, nel giro di un ventennio,
la rabbia di essere stati dimenticati, quella rabbia che aveva colorato di
rosso rivoluzionario le borgate di Pasolini, è stata privata di direzione
politica e di classe, ed è stata riorientata su capri espiatori fisicamente
riconoscibili, perché zingari, neri, maghrebini o rumeni. L'alienazione da
droga e da esclusione, cresciuta nell'indifferenza e nell'individualismo
avventuristico del riflusso ideologico degli anni Ottanta e Novanta, è
diventata paura.
Paura, perché è dentro gli occhi dell'altro, del diverso,
dello zingaro, dell'albanese, che si riflette, come in uno specchio, la propria
devastata condizione esistenziale personale. Perché la violenza fatta
all'immigrato è la coazione a ripetere di una violenza precedentemente subita.
Paura di vedere nel diverso l'ombra di sé stessi, della propria incolpevole
sconfitta. E di doverla affrontare a viso aperto.
Arrivano amministrazioni comunali
di centro sinistra, culturalmente incapaci di confrontarsi con questo impasto
di paura, violenza, intolleranza e rabbia che cresce nelle periferie, e si
costruiscono una base sociale diversa da quella tradizionale della sinistra.
Corteggiano la piccola borghesia commerciale, degli alberghi e dei ristoranti,
con progetti turistici e di sviluppo culturale tanto boriosi e costosi quanto
inutili. Fanno fare affari d'oro al sottobosco dei professionisti e consulenti
dei Parioli con incarichi pubblici in Comune e nella selva delle partecipate.
Inaugurano la stagione delle grandi opere (l'Auditorium, la metro C, la “cura
del ferro” di Rutelli, le 759 opere pubbliche varate in occasione del Giubileo,
fra le quali il raddoppio del GRA, o il sottopasso del Lungotevere)
rivitalizzando la mai del tutto interrotta tradizione del rapporto
preferenziale fra amministratori capitolini e palazzinari.
Nel frattempo, le periferie
vengono date per perse, oramai abbandonate alla destra, e tutto il problema di
Rutelli e Veltroni è quello di arginare l'avanzata dei barbari borgatari verso
il cuore del potere del Campidoglio, rallentandone la marcia con piccole
regalie, qualche giardinetto comunale laddove c'erano solo palazzi ed asfalto,
qualche piccolo centro sociale nei quartieri difficili. Dimenticando che quello
che serve veramente alle periferie è la redistribuzione del benessere, sono i
servizi, anche essenziali, sono le politiche di integrazione, le politiche
sociali, il welfare, la cultura, gli interventi di risanamento edilizio, perché
i palazzi costruiti venti o trent'anni prima dai palazzinari cadono a pezzi,
l'edilizia popolare, perché il mercato immobiliare romano è fuori dalla grazia
di Dio, e conviene tenerlo così per favorire un piccolo gruppo di rentiers e
privilegiati. Non il giardinetto o la piazzetta.
Ovviamente, quindi, la lunga
marcia dei barbari di borgata non viene arrestata, e si conclude con l'elezione
di uno di loro, Alemanno, portato in trionfo con contorno di saluti romani e di
esclamazioni “Italia agli italiani”. Spinto dentro il Campidoglio da un
programma elettorale securitario, Alemanno vende ai diseredati delle periferie
l'ultimo bidone: l'illusione di risolvere con i manganelli, i poliziotti di
strada, le espulsioni, le delocalizzazioni dei campi nomadi da un quartiere
all'altro, un problema di integrazione sociale ed etnica che mai nessuno ha
voluto affrontare, lasciandolo degenerare. La crisi economica fa tutto il
resto: acuisce le ingiustizie e le diseguaglianze economiche e di opportunità
sociale, e quindi fa crescere le paure, i rancori, le angosce, che la
propaganda politica della destra ha alimentato in vent'anni.
Propaganda che la
sinistra non ha saputo né voluto contrastare, preferendo rinchiudersi nei
quartieri-bene dove c'è la bella gente, mica quelli lì, brutti, sporchi e
cattivi, che non capiscono il delicato spirito estetico di un Veltroni che
inaugura una mostra al giorno, anziché varare programmi di lavoro di pubblica
utilità, o di un Marino, che contrabbanda come chissà quale svolta epocale la
pedonalizzazione di via dei Fori Imperiali.
Ecco, in queste brevi pagine, la
radice vera dei fatti di intolleranza che hanno visto protagonista Tor Sapienza
in questi giorni, che però si sono replicati, in modo sempre più frequente, in
tante altre periferie romane, come la vicina Torpignattara. Che quando ci
vivevo io, negli oramai lontani anni novanta, era un piccolo esempio di
convivenza pacifica multietnica. Ed oggi è un pentolone di odio e rabbia. E'
una storia di umiliazioni, di raggiri, seguiti da lunghi periodi di
indifferenza e di abbandono, di arretramento della politica di fronte alla più
bieca demagogia da ricerca di consenso. Una storia in cui ci sono dei
vincitori: i ceti sociali che dominano l'economia e la politica cittadina, da
sempre, che sono transitati attraverso la dominazione democristiana, sono stati
solo appena scalfiti dal brevissimo periodo dei sindaci rossi, e poi si sono
riciclati nel periodo della diarchia Dc/PSI, nelle Giunte di centrosinistra,
hanno avuto dei buoni alleati nella destra di Alemanno e del Pecora, una destra
di piccoli Cola di Rienzo che hanno costruito una guerra fra poveri, in modo da
distrarre i perdenti e gli sconfitti dalle reali cause della loro sconfitta, e
che li hanno abilmente messi l'uno contro l'altro.
L'italiano contro
l'immigrato, il disoccupato di borgata contro il Rom, la casalinga di
Centocelle contro il ragazzino siriano che è scappato da una guerra civile. Non
è un caso se ancora oggi i peggiori esponenti della destra italiana, da
Borghezio ad Alfano, continuano a girare suadenti attorno ai residenti di Tor
Sapienza, alimentandone l'odio e l'irragionevolezza. Perché questa è la loro
funzione: dividere gli sconfitti e metterli l'uno contro l'altro, per impedire
che possano avere una rivincita.
E questa bomba non verrà
disinnescata fintanto che sarà affrontata con l'appello ai buoni sentimenti.
Marino è una brava persona, però deve capire che non c'è una soluzione
ecumenica.
Non è vero, sindaco Marino, che i cittadini di Tor Sapienza che
chiedono la chiusura del centro di accoglienza non sono dei razzisti. Lo sono.
Sono dei razzisti calzati e vestiti, ed occorre avere il coraggio di dirlo.
Non
è vero, sindaco Marino, che c'è una politica del compromesso.
Non c'è nessun
compromesso possibile sui diritti umani fondamentali. E' un centro per profughi
politici, ci sono dei ragazzini che non hanno nessuna colpa per essere scappati
via dai loro Paesi, e per trovarsi in una periferia romana.
Non c'è nessun
compromesso possibile. Lo Stato deve farsi sentire, imporre la riapertura del
centro di accoglienza e vigilare affinché non si faccia nessuna violenza al
centro ed ai suoi ospiti.
Forse solo così, rispondendo con
l'intransigenza al razzismo ed alla rabbia cieca, si otterrà l'effetto di far
voltare questa rabbia verso i veri responsabili di tutto ciò.
Forse solo così
si farà integrazione.
La vignetta è del Maestro Mauro Biani
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