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venerdì 14 novembre 2014

UN “ISMO” SENZA GLORIA: IL SOLIPSISMO… di Norberto Fragiacomo





UN “ISMO” SENZA GLORIA: 
IL SOLIPSISMO
che può tuttavia rimare anche lui con Socialismo!
di
Norberto Fragiacomo




Oggi non scriverò di attualità, ma – a essere schietto – di un “tarlo” personale: l’estemporanea riflessione che segue è stata, infatti, occasionata dalla lettura de Il futuro è nostro, un saggio di Diego Fusaro che ha notevolissimi pregi e qualche pecca (in primis la prolissità, in secondo luogo l’utilizzo, da parte dell’autore, di un linguaggio fin troppo tecnico, da “iniziati” alla filosofia). Dico occasionata perché l’opera ha risvegliato in me un antico interesse per la filosofia, spingendomi alla ricerca di alcune fonti e a riconsiderare tematiche che, nella suadente primavera della vita, apparivano – e forse erano, forse sono – di capitale importanza.

Trattando dell’Idealismo e della carica rivoluzionaria in esso latente, il giovane filosofo torinese nota (a pag. 294) che “Dissonante rispetto alle logiche del monoteismo idolatrico del mercato, la ragione dialettica dell’idealismo deve continuamente (…) essere presentata in forme che possono con diritto essere definite come manicomiali. (…) La storiografia pigra tende irresistibilmente a mistificare il codice idealistico, presentandolo manicomialmente come soggettivismo solipsistico, come affermazione dell’inesistenza del mondo (…)”. Come viene meglio precisato in un altro passo del libro, l’accusa di solipsismo è rivolta specialmente a Fichte, che difatti Bertrand Russell, nella sua ponderosa Storia della filosofia occidentale, liquida in due righe, dipingendolo come una sorta di forsennato. Secondo quest’interpretazione mistificante, il pensatore tedesco incentrerebbe la sua speculazione su di un Io assoluto ma individuale (un Io-J.G. Fichte, per intenderci), che creerebbe la realtà a suo capriccio. Si tratterebbe di una variante dotta del delirante “Io sono Dio!” pronunciato da certi ubriaconi dopo una notte di baldoria.

Carte alla mano, Fusaro ha buon gioco nel dimostrare che il fondatore dell’Idealismo aveva in mente ben altro, cioè un Io collettivo rappresentato dall’umanità intera: un Io che con le proprie azioni, con il proprio inesausto agire edifica il mondo. Ciò che esiste non è dunque un oggetto dato, un a priori immodificabile (come, per i suoi loschi fini, l’ideologia del mercato ci induce a pensare), bensì il campo da gioco degli esseri umani, dai quali dipendono vittorie e sconfitte, progresso e arretramenti. L’Idealismo assurge a giustificazione filosofica dell’impulso al cambiamento, ad una superiore armonia socio-economica (impersonata dal Socialismo), di cui svela il carattere niente affatto velleitario. Volendo riassumere in uno slogan questo atteggiamento positivo, potremmo proporre “Sì, noi possiamo!”, a patto di costruire la frase su un substrato di serietà e concretezza che manca totalmente nel messaggio pubblicitario obamiano.

In ogni caso, non sto recensendo un volume, ma soltanto un suo passaggio – anzi, una strana coppia di parole: manicomiale e solipsismo. Mi ritengo parte in causa perché, ai tempi del liceo, il sottoscritto aderì con entusiasmo alla lettura non genuina del primo pensiero fichtiano. Di chi fu la colpa? Manuali iperschematici e Russell ne hanno un poca, ma credo che la responsabilità fosse principalmente mia: in quelle pagine rapidamente sfogliate trovai, per l’appunto, la mia risposta a quesiti posti durante la fanciullezza. Riconoscere in se stessi la fonte di ogni cosa e persona è senz’altro eccitante, oltre che – entro certi limiti – soddisfacente, quando si è giovani; in seguito, con il progredire dell’età, rinnegai la prospettiva solipsistica, forse perché è preferibile sapersi attorniati da esseri viventi anziché da spettri. Mi è sorto il dubbio, tuttavia, che la ritrattazione non sia stata completa, se è vero, come è vero, che in una recente conversazione siciliana ho ripescato il concetto di Io individuale creatore, attribuendolo ad un incolpevole Max Stirner. Purtroppo, la memoria (la mia di sicuro) tradisce più volentieri di Jago. Se non altro, ne sono amaramente consapevole: così, per verificare l’asserzione mi sono messo alla ricerca, su Internet, de L’Unico e la sua proprietà, imbattendomi ben presto in una traduzione italiana dei primi del ‘900. Sulle prime sono rimasto deluso: Stirner merita la denuncia di “soggettivismo solipsistico” ancor meno di Fichte.  

In realtà, San Max è dell’Idealismo tedesco il figlio degenere: egli rivolge l’arma dialettica contro i suoi forgiatori, sgombrando il campo da Dio e dai suoi pretesi surrogati. Fichte (specie il secondo) ed Hegel non rinunciano all’entità divina, Feuerbach sì: secondo quest’ultimo – nobilissima personalità e socialista autentico – Iddio è un’astrazione in cui l’essere umano aliena se stesso, regalandogli i propri tratti più elevati e caratterizzanti, la sua essenza. L’Uomo feuerbachiano resta però una figura ideale, incorporea, multipla: Stirner lo taccerà di essere un fantasma - al pari dello Stato liberale-hegeliano, della Società socialista e dell’Umanità baueriana – contrapponendogli un unico in carne ed ossa, pronto ad appropriarsi di tutto, luna compresa (ma senza vantare diritti, perché pure il diritto è un fantasma!), ed al contempo finito, caduco, privo di una dimensione spirituale… tanto che il trattato si apre e si conclude con la medesima sentenza, “Io ho fondato la mia causa sul nulla”, un nulla che si autoconsuma. Semplicemente, l’Unico non è affatto unico, ma solo un povero diavolo fra tanti: fa paura agli idealisti, perché cancella il loro punto di partenza (l’Io collettivo, l’esistenza di un fine), molto meno ai padroni, che di forza e proprietà dispongono per davvero.

Cercheremo di dimostrare a tempo debito che, malgrado le indignate proteste di Stirner, anche l’Unico può (deve, se è ragionevole) stabilmente associarsi ad altri per realizzare il Socialismo, stipulando un implicito contratto sociale che lo liberi dalla miseria impotente; in questa sede ci basta rilevare che il San Max dileggiato ne L’ideologia tedesca tornerebbe a vestire i panni dell’acchiappafantasmi se si trovasse faccia a faccia con il solipsista evoluto, mentre congederebbe con un sorrisetto sardonico (o più probabilmente pietoso, perché il nostro fu perseguitato da un destino avverso) il pazzo che si crede onnipotente.

Faccio un distinguo perché del solipsismo abbiamo perlomeno due versioni, la prima delle quali è quella propriamente “manicomiale”, esemplificabile nel delirio del matto – che può avere conseguenze tragiche, se il disgraziato si convince di essere invulnerabile o di saper volare, ma che, se ridotta ad espediente letterario, consente ad un autore di ricavare cinque minuti di soddisfazione dalla cancellazione di Renzi e del capitalismo o dall’improbabile trionfo di un partito comunista alle elezioni.

C’è però anche un solipsismo filosofico, che di manicomiale ha poco o niente e che, a parere di chi scrive, non preclude un impegno attivo nella vita “reale”, eventualmente (o necessariamente?) volto all’instaurazione del Socialismo. Corro troppo? D’accordo, procediamo per gradi.

Suggerisco al lettore di tenersi forte: sto per citare un fratellastro di Belzebù, il tradizionalista Julius Evola. A pagina 48 di Cavalcare la tigre il… loro annota, a proposito di Nietzsche, che il teorico del Superuomo “ha visto più nel profondo, non si è arrestato all’essere fisico quando ha parlato della «grande ragione» che è chiusa nel corpo e opposta alla piccola ragione, della grande ragione che «non dice Io ma è Io», che ha lo «spirito e gli stessi sensi come piccolo strumento e giocattolo»: «potente dominatore, savio sconosciuto (…) «filo che guida l’Io e gli suggerisce i suoi concetti»”.

Questo “savio dominatore sconosciuto” sarebbe in ciascuno di noi… ne sarebbe dunque disponibile una folla, una moltitudine infinita! Un sabba di spettri, si esaspererebbe Stirner; per chi scrive, memore del solipsismo coltivato in giovinezza, solo un numero sterminato di inutili copie di un originale che basta e avanza. Un singolo Selbst nietzschiano non ha necessità di “colleghi” per concepire un ologramma universale, completo di stelle, pianeti e abitanti.

A che scopo, sarebbe lecito chiedersi, e perché non creare piuttosto uno spazio reale? La prima domanda non pone eccessivi problemi: del Dio biblico ci viene detto che creò “il cielo e la terra”, non quali fossero le sue motivazioni – dal compiacimento che prova ammirando il “prodotto” possiamo dedurre che si sia attivato perché gli andava di farlo, perché l’azione del creare gli procurava piacere, un po’ come all’artista che, per puro diletto, passa la sua giornata a dipingere un quadro. Al secondo quesito rispondiamo invocando il principio di economia: così come si può fare a meno di una turba di dei e individualità – in fondo il singolo ha coscienza diretta solo della propria esistenza, nella quale si riflettono quelle (ipotetiche) altrui –, lo stesso discorso vale per una pleonastica “realtà” esterna al creatore, per niente indispensabile ad un Io capace di contenere tutto. Obiezioni? Respinte in via preliminare dal solipsista con un’alzata di spalle: nessun interlocutore significa nessun dibattito.

Più interessante, a questo punto, indagare sui rapporti tra “piccola ragione” e “grande ragione”, cioè tra l’unico Tizio e il suo “savio sconosciuto”. Se la relazione fosse creatura-creatore ricadremmo in un incongruo dualismo: in cielo sta Dio (un Dio-Oblomov, poiché ha fatto il minimo sindacale!), da qualche altra parte un poveraccio abbandonato a se stesso. La soluzione, insomma, non funziona: per tenere in piedi la baracca è indispensabile che il piccolo, limitatissimo Io-Tizio sia “generato dalla stessa sostanza” del Selbst – in altre parole, che il singolo sia il demiurgo che si autolimita e si nasconde a se stesso. Delirio? Può darsi (il solipsista convinto scrollerebbe di nuovo le spalle), ma ognuno credo abbia assaporato, nella sua vita, momenti di accresciuta, ancorché instabile consapevolezza, in cui la condotta, persino le parole degli altri sembravano prevedibili, e tutto pareva obbedire ad una logica fugacemente colta e, in qualche maniera, approvata. Per non perderci nelle astrazioni, ricorriamo a qualche esempio. Nella mia “Rivoluzione di settembre” c’è un protagonista, modellato sul sottoscritto; attorno a lui si muovono dei comprimari che, pur sommariamente tratteggiati, incarnano ed enfatizzano una sua qualità (l’ispettore un certo buon senso, Guidoni l’onestà e la baldanza giovanili ecc.) o il suo lato oscuro (l’assassino); altri personaggi (il prefetto, ad esempio) svolgono la funzione di ostacoli oggettivi che gli si parano davanti nel corso dell’avventura. Benché il commissario sia, in sostanza, l’unica “persona” e, per certi versi, una mia immagine, egli non è N., se non altro perché lotta e soffre in un mondo cartaceo e non può agire indipendentemente dal mio volere. Lui si esaurisce in me, mentre non è vero il contrario. Seconda esemplificazione: il sogno. Capita di vivere spettacolari romanzi onirici, ricchi di figure di contorno che appaiono, scompaiono e mutano improvvisamente identità e connotati al cospetto di un sognante che, seppur grossolanamente consapevole di sé, dalla gabbia non riesce – o riesce assai faticosamente – ad evadere.

Ma cosa c’entra tutto questo vaniloquio con il Socialismo? In apparenza, niente… al massimo potremmo concordare tutti sul fatto che l’essere umano preferisce la quiete al caos, l’armonia al disordine – direte. Brave, mie care ombre: senza rendervene conto, avete detto tantissimo! Per ringraziarvi vi faccio dono di un’ultimissima similitudine – quella fra l’uomo e l’ubriaco (mi scuso con gli astemi, impossibilitati a valutare la plausibilità del mio ragionamento… poco male, nel mio mondo solipsistico costoro non hanno diritto di cittadinanza!). Mi riferisco a quegli stadi avanzati di ubriachezza in cui il bevitore, che non ha perso conoscenza, avverte con vergogna e disgusto l’alterazione della propria voce, l’incapacità di esprimersi e ragionare in modo logico, l’abbrutimento in cui è scivolato, il disprezzo o la derisione degli astanti… fissa con sgomento soffitti in folle rotazione, e agogna due cose soltanto: il riposo, cioè la pace, ed un rapido ritorno in sé.

Ecco: per il solipsista l’Io minore, “fisico” per così dire, è un ubriaco che anela a snebbiarsi il cervello, a recuperare il controllo di sé (cioè del tutto) – e che per raggiungere il traguardo sa di dover riordinare la propria vita, percorrere un cammino tracciato, pervenire ad una superiore armonia. Alle urla scomposte devono subentrare silenzio e risa, allo stridore le melodie, al dolore la serenità – all’ingiustizia l’equità.

Allo stesso modo in cui preferisco la luce all’ombra, il sereno alla pioggia, il tepore al gelo e l’allegria alla disperazione, io – se fossi un solipsista - opterei convintamente per il Socialismo, persuaso che il poter osservare, dopo dure battaglie, una comunità giusta e ben governata (anche se olografica!) mi darebbe sincera gioia e, di conseguenza, mi avvicinerebbe all’Io autentico, che altro non può desiderare se non la piena realizzazione dei miei ideali, confusi ma potenti. Lo ribadisco: la creazione, qualsiasi creazione, non può che essere armonia.

Concludo con la speranza di aver restituito l'onore ai solipsisti: a meritare il manicomio non sono loro, bensì quei tristi, sozzi figuri che vanificano le proprie esistenze accumulando denaro e nocendo al prossimo.



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