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mercoledì 14 gennaio 2015

CRISIS? WHAT CRISIS? di Fausto Rinaldi



CRISIS? WHAT CRISIS?

di Fausto Rinaldi




In un sistema ove i meccanismi di accumulazione del capitale facciano riferimento a un unico principio generatore – quello della massima redditività – e dove la valutazione morale del dogma del profitto sia, in quanto tale, sistematicamente espunta dalla stima del comportamento economico dei soggetti - , l’origine delle crisi sistemiche non può che essere ricondotta alle intime contraddizioni che il modo di produzione capitalistico racchiude in sé.

La grande maggioranza degli economisti (liberisti, neoliberisti, keynesiani, neokeynesiani, ricardiani, neoricardiani, regolazionisti, etc.), dei politici e dei governanti, ritiene che questa crisi sia il prodotto di una crisi finanziaria sfociata a gravare sull’economia reale (l’agitare la coda della finanza che muove il cane dell’economia reale di keynesiana memoria), sottovalutandone la profonda connotazione sistemica.
In un’economia capitalistica, le ricorrenti crisi sono il modo in cui si manifestano gli attriti interni ai meccanismi di accumulazione.
Il principale problema che affligge un’economia fondata sul famigerato modo di produzione capitalistico è dato dalla contrapposizione tra produzione e mercato; infatti, scopo delle imprese è quello di produrre merci il cui costo di produzione sia il più basso possibile e venderle al prezzo più alto possibile, allo scopo di massimizzare i profitti. La riduzione dei costi di produzione passa anche attraverso la realizzazione di “economie di scala”, cioè per la produzione di un maggiore quantità di merci nello stesso tempo di lavoro e a costi decrescenti (e, compatibilmente, con le condizioni della concorrenza, riducendo anche la qualità del prodotto). Per fare ciò, vengono introdotte tecnologie produttive sempre più sofisticate, macchinari più moderni a sostituire la forza lavoro e la razionalizzazione dei flussi produttivi, unitamente all’aumento di ritmi e intensità di lavoro da parte dei lavoratori.
Questa corsa all’aumento dei margini di profitto - e alla competizione concorrenziale tipica del mercato aperto - , conduce fatalmente la produzione ad eccedere le capacità ricettive del mercato, causando un permanente squilibrio tra capacità produttive e limiti di assorbimento dei potenziali acquirenti.


La sfrenata corsa del capitale alla ricerca della massima redditività produce una massiccia sostituzione della forza lavoro con macchinari, e la conseguente espulsione di lavoratori dal processo produttivo: questo va a incrementare le fila dell’ ”esercito industriale di riserva” e ad abbassare il costo del lavoro, ma, al tempo stesso, limita le possibilità del mercato di assorbire le merci. 
L’espulsione di lavoratori dal processo produttivo origina un incremento della domanda di occupazione (alla base della diminuzione del costo del lavoro) e, contemporaneamente, una riduzione della capacità concertativa e contrattuale delle forze sindacali. Secondo un studio della Banca dei regolamenti internazionali, dagli anni ’80 ad oggi in tutti i principali Paesi industrializzati si è avuto uno spostamento del Pil dai salari ai profitti: in Italia, la quota dei profitti è aumentata dal 23.1% del 1993 al 31.3% del 2005, per un valore equivalente di 120 miliardi di euro. Da sottolineare che la causa di questo fenomeno viene attribuita, non già alla concorrenza con i lavoratori dei Paesi in “via di sviluppo”, ma alla riduzione della capacità di resistenza e negoziazione dei lavoratori, di cui si è detto.
Inoltre, la riduzione della capacità di acquisto dei salari ha incrementato il ricorso al lavoro straordinario, che ha ridotto vieppiù la domanda di forza lavoro e aggravato la disoccupazione.
Mentre da un lato si moltiplica l’offerta di merci sul mercato, dall’altro si riduce la domanda di un mercato costituito, per la grande maggioranza, da lavoratori dipendenti, provocando uno squilibrio tale da non permettere alla domanda di crescere in maniera proporzionale all’offerta. Questo produce una tendenza alla sovrapproduzione di merci: questa tendenza è tipica del modo di produzione capitalistico, votato unicamente all’espansione dei margini di profitto.

Le crisi capitalistiche – ricordiamolo, eminentemente sovrapproduttive – sono il modo violento in cui il capitale tenta di risolvere le proprie contraddizioni. Nel corso di una crisi, non vengono solamente bruciati miliardi di capitale fittizio nei crolli borsistici, ma anche una consistente quota di capitale reale, attraverso la svalorizzazione delle merci invendute e giacenti nei magazzini o smerciate sottocosto, e dei mezzi di produzione sottoutilizzati o inattivi.
Ma, qual è il legame tra credito, produzione e mondo finanziario?
Per finanziamento d’impresa si intende quel complesso di operazioni con cui quest’ ultima acquisisce i mezzi finanziari necessari per lo svolgimento della sua attività. La fonte può essere interna, mediante l’ ”autofinanziamento” che si compendia nella definizione “capitale di rischio” (cioè, il capitale portato dai soci o dal singolo proprietario); oppure, esterna, ove si ricorra al credito nella sua accezione più ampia, riassunto dalla formula “capitale di debito”.
Il credito a un’azienda può essere fornito da un istituto bancario, attraverso l’emissione di obbligazioni o mediante la quotazione in Borsa. Normalmente, la preferenza per uno di questi tre metodi di approvvigionamento di risorse materiali, idonee alla creazione o al mantenimento di un ciclo produttivo, è legata alle dimensione della società: le piccole imprese sono quasi interamente legate alla concessione di crediti da parte di istituti bancari (con tutte le implicazioni e i rapporti di potere che si creano a livello locale: non ultime, lo sfociare verso forme di finanziamento gestito da entità legate al malaffare); a un livello più alto, l’ impresa si rivolge normalmente al credito bancario e all’emissione di obbligazioni; le grandi imprese tendono a ricorrere alternativamente a tutte e tre le opzioni.

In ambito capitalistico, la contrapposizione tra “economia finanziaria” e “reale” è fuorviante.
In realtà, i due ambiti sono interdipendenti: l’enorme sviluppo del credito (banche) e dei mercati finanziari (Borse) ha, all’origine, l’affermazione - propria del capitalismo industriale maturo - delle grandi industrie multinazionali (corporation) e del loro bisogno di capitali sempre più grandi per sostenere l’ attività. Inoltre, la tendenza a una necessità di capitali sempre più grande viene incrementata da una concorrenza sviluppata a livello mondiale, da una crudità del sistema competitivo (articolato attraverso fusioni, acquisizioni, OPA ostili, etc.), dalla necessità di economie di scala sempre più pronunciate.
Evidentemente, una massiccia offerta di credito finisce per stimolare la tendenza alla sovrapproduzione di capitale e di merci, attraverso l’allargamento della produzione; e può, attraverso un’ offerta eccedente di liquidità generare bolle speculative (immobiliari, borsistiche, etc.).
Questo sancisce il nesso di interdipendenza tra credito e crisi.

Come detto, il sistema capitalistico occidentale versa da anni in uno stato di sovrapproduzione, a cui si è risposto favorendo il credito facile (e il conseguente indebitamento) sia dal lato della produzione che da quello del consumo (mediante il sostegno del “consumo a debito”).
Negli USA, per anni, e con il beneplacito dei governi (preoccupati di mantenere intatto il “way of life” interno), la FED ha mantenuto bassissimo il costo del denaro, spingendo le banche a prestare, anche senza il supporto di qualsiasi ragionevole garanzia (ciò che poi, sostanzialmente, darà origine alla crisi dei mutui “subprime”).

La famosa crisi del ’29 aveva prodotto una rigorosa regolamentazione dei mercati finanziari; questa regolamentazione si era, da fine anni ’60 in poi, via via andata sempre più allentandosi, fino al definitivo “via libera”, conclamato con l’abolizione del “Glass-Steagall Act” (e che aveva lo scopo di introdurre una separazione tra attività bancaria tradizionale e attività bancaria di investimento). Questa liberalizzazione apriva la strada alla cosiddetta “finanza strutturata”, in grado di concepire prodotti finanziari ad alto rischio e profondamenti opachi ( tanto da risultare ostica l’analisi e il controllo anche da parte degli organi preposti).
Ecco che nascono i prodotti “derivati” – rapporti di debito/credito trasformati in prodotti vendibili a terzi – come i CDO e i CDS, i quali hanno dato vita a un mercato fiorentissimo e tale da superare il valore delle transazioni borsistiche tradizionali. La finanza creativa ha, inoltre, introdotto forme di incentivazione all’indebitamento particolarmente sofisticate come le carte di credito revolving e altro.

In buona sostanza, la domanda di beni di consumo è stata drogata da forme di indebitamento forzose e opache, senza basi consistenti e interamente fondate su un rapporto debitore/creditore decisamente instabile (come i fatti del 2007 confermano).
Negli Usa e nel Regno Unito il debito delle famiglie, nel 2007, aveva raggiunto il 100% del Pil. Un ulteriore sintomo della liberalizzazione dei capitali finanziari è dato dalla leva finanziaria di cui potevano disporre le banche: la leva finanziaria è quel valore che, a fronte di una riserva valutaria presente nei forzieri, designa l’entità dei prestiti erogabili. Le banche europee, per ogni euro di capitale posseduto, potevano darne in prestito 40; quelle USA ancora di più. E’ evidente che un’ alta leva finanziaria determini, allo scoccare di una crisi,  una forte esposizione e una conseguente fragilità del sistema bancario.
Un sistema così squilibrato è un sistema che si è spinto “troppo in là”: nel 2007, la bolla immobiliare che aveva alimentato il consumo a debito di migliaia di famiglie statunitensi e che aveva permesso alle banche di impacchettare migliaia di miliardi di dollari di CDO e CDS, venduti agli investitori di tutto il mondo, è scoppiata, provocando un crollo del sistema bancario e assicurativo nordamericano ed europeo, rimpinzato di titoli di credito del tutto inesigibili e assicurati da una pletora di CDS, anch’essi insolventi.
Numerosissime banche, costrette ad iscrivere le perdite a bilancio (anche a fronte di società satellite create allo scopo di ripulire i bilanci necessari per sancire una presentabilità borsistica), falliscono, vengono acquisite a prezzi irrisori, oppure vengono salvate dallo Stato.
Migliaia di miliardi di capitalizzazione borsistica vengono bruciati e, quel che è peggio, si ingenera un clima di sfiducia che porta al blocco del sistema interbancario e, conseguentemente, una grave contrazione del credito, con effetti devastanti per le aziende, già pesantemente indebitate e alle prese con una concorrenza internazionale forte (ulteriore conseguenza della globalizzazione).

Tirando le somme, il mondo occidentale a capitalismo avanzato - e l’ insieme delle economie assorbite dai venti impetuosi della globalizzazione neoliberista – entra, a partire dai primi anni Settanta, in una spaventosa crisi sovrapproduttiva - dovuta essenzialmente alle intime logiche del modo di produzione capitalistico - che, a seguito della ricerca del mantenimento del tasso di profitto, origina una progressiva finanziarizzazione dell’ economia 
(l’Arrighi lega questo fenomeno ad un processo di transizione egemonica imperialistica, dovuta allo spostamento del dominio economico globale verso la Cina: ma questa è un’ altra storia).
Reagan negli USA, la Thatcher in Europa, assurgono a vessilliferi di 
un’economia che si incarica di drenare le risorse che erano state, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, distribuite attraverso modelli sociali improntati ad una più attenta concertazione con il mondo del lavoro; pertanto, con la collaborazione fattiva di un mondo politico gonfio delle logiche introiettate dai Chicago Boys (corrente di pensiero economico neoliberista capitanata da Milton Friedman), il capitalismo vive una fase di recrudescenza che, nel corso degli anni e in base ad una gradualità temporale capace di desensibilizzare le masse (già provate nella loro coscienza dagli effetti “mitridatizzanti” dei mediatori culturali e informativi), conduce inesorabilmente ad un arretramento spaventoso dei diritti riconosciuti ai lavoratori.

Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, Unione Europea, WTO, novelli Cavalieri dell’ Apocalisse, dominano, in forza di trattati ottenuti da governi acquiescenti, le politiche economiche del mondo capitalistico: a forza di privatizzazioni, liberalizzazioni dei movimenti di capitale, riduzione della funzione protettiva dei sistemi di “Welfare” degli Stati nazionali, “mercatizzazione” e mercificazione della vita sociale degli individui, “et cetera”, l’ imperante “ratio” economicistica della vita sul globo ha preso il sopravvento ed ha, gramscianamente, egemonizzato l’ immaginario collettivo, confinandolo entro gli angusti confini di un mondo in cui i rapporti sociali altro non sono che una miriade di transazioni commerciali regolate dell’ interesse individuale. A far da sfondo, un mondo sempre più avvelenato dai prodotti di scarto di una società che vive di una riproduzione costante di miliardi di inutili oggetti, per arricchire una ristrettissima cerchia di individui e lasciare il “godimento” delle scorie a tutti gli altri.


13 gennaio 2015




La vignetta è del Maestro Mauro Biani






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