CRISIS? WHAT CRISIS?
di Fausto Rinaldi
In
un sistema ove i meccanismi di accumulazione del capitale facciano
riferimento a un unico principio generatore – quello della massima
redditività – e dove la valutazione morale del dogma del profitto
sia, in quanto tale, sistematicamente espunta dalla stima del
comportamento economico dei soggetti - , l’origine delle crisi
sistemiche non può che essere ricondotta alle intime contraddizioni
che il modo di produzione capitalistico racchiude in sé.
La
grande maggioranza degli economisti (liberisti, neoliberisti,
keynesiani, neokeynesiani, ricardiani, neoricardiani, regolazionisti,
etc.), dei politici e dei governanti, ritiene che questa crisi sia il
prodotto di una crisi finanziaria sfociata a gravare sull’economia
reale (l’agitare la coda della finanza che muove il cane
dell’economia reale di keynesiana memoria), sottovalutandone la
profonda connotazione sistemica.
In
un’economia capitalistica, le ricorrenti crisi sono il modo in cui
si manifestano gli attriti interni ai meccanismi di accumulazione.
Il
principale problema che affligge un’economia fondata sul famigerato
modo di produzione capitalistico è dato dalla contrapposizione tra
produzione e mercato; infatti, scopo delle imprese è quello di
produrre merci il cui costo di produzione sia il più basso possibile
e venderle al prezzo più alto possibile, allo scopo di massimizzare
i profitti. La riduzione dei costi di produzione passa anche
attraverso la realizzazione di “economie di scala”, cioè per la
produzione di un maggiore quantità di merci nello stesso tempo di
lavoro e a costi decrescenti (e, compatibilmente, con le condizioni
della concorrenza, riducendo anche la qualità del prodotto). Per
fare ciò, vengono introdotte tecnologie produttive sempre più
sofisticate, macchinari più moderni a sostituire la forza lavoro e
la razionalizzazione dei flussi produttivi, unitamente all’aumento
di ritmi e intensità di lavoro da parte dei lavoratori.
Questa
corsa all’aumento dei margini di profitto - e alla competizione
concorrenziale tipica del mercato aperto - , conduce fatalmente la
produzione ad eccedere le capacità ricettive del mercato, causando
un permanente squilibrio tra capacità produttive e limiti di
assorbimento dei potenziali acquirenti.
La
sfrenata corsa del capitale alla ricerca della massima redditività
produce una massiccia sostituzione della forza lavoro con macchinari,
e la conseguente espulsione di lavoratori dal processo produttivo:
questo va a incrementare le fila dell’ ”esercito industriale di
riserva” e ad abbassare il costo del lavoro, ma, al tempo stesso,
limita le possibilità del mercato di assorbire le merci.
L’espulsione
di lavoratori dal processo produttivo origina un incremento della
domanda di occupazione (alla base della diminuzione del costo del
lavoro) e, contemporaneamente, una riduzione della capacità
concertativa e contrattuale delle forze sindacali. Secondo un studio
della Banca dei regolamenti internazionali, dagli anni ’80
ad oggi in tutti i principali Paesi industrializzati si è avuto uno
spostamento del Pil dai salari ai profitti: in Italia, la quota dei
profitti è aumentata dal 23.1% del 1993 al 31.3% del 2005, per un
valore equivalente di 120 miliardi di euro. Da sottolineare che la
causa di questo fenomeno viene attribuita, non già alla concorrenza
con i lavoratori dei Paesi in “via di sviluppo”, ma alla
riduzione della capacità di resistenza e negoziazione dei
lavoratori, di cui si è detto.
Inoltre,
la riduzione della capacità di acquisto dei salari ha incrementato
il ricorso al lavoro straordinario, che ha ridotto vieppiù la
domanda di forza lavoro e aggravato la disoccupazione.
Mentre
da un lato si moltiplica l’offerta di merci sul mercato, dall’altro
si riduce la domanda di un mercato costituito, per la grande
maggioranza, da lavoratori dipendenti, provocando uno squilibrio tale
da non permettere alla domanda di crescere in maniera proporzionale
all’offerta. Questo produce una tendenza alla sovrapproduzione di
merci: questa tendenza è tipica del modo di produzione
capitalistico, votato unicamente all’espansione dei margini di
profitto.
Le
crisi capitalistiche – ricordiamolo, eminentemente sovrapproduttive
– sono il modo violento in cui il capitale tenta di risolvere le
proprie contraddizioni. Nel corso di una crisi, non vengono solamente
bruciati miliardi di capitale fittizio nei crolli borsistici, ma
anche una consistente quota di capitale reale, attraverso la
svalorizzazione delle merci invendute e giacenti nei magazzini o
smerciate sottocosto, e dei mezzi di produzione sottoutilizzati o
inattivi.
Ma,
qual è il legame tra credito, produzione e mondo finanziario?
Per
finanziamento d’impresa si intende quel complesso di operazioni con
cui quest’ ultima acquisisce i mezzi finanziari necessari per lo
svolgimento della sua attività. La fonte può essere interna,
mediante l’ ”autofinanziamento” che si compendia nella
definizione “capitale di rischio” (cioè, il capitale portato dai
soci o dal singolo proprietario); oppure, esterna, ove si ricorra al
credito nella sua accezione più ampia, riassunto dalla formula
“capitale di debito”.
Il
credito a un’azienda può essere fornito da un istituto bancario,
attraverso l’emissione di obbligazioni o mediante la quotazione in
Borsa. Normalmente, la preferenza per uno di questi tre metodi di
approvvigionamento di risorse materiali, idonee alla creazione o al
mantenimento di un ciclo produttivo, è legata alle dimensione della
società: le piccole imprese sono quasi interamente legate alla
concessione di crediti da parte di istituti bancari (con tutte le
implicazioni e i rapporti di potere che si creano a livello locale:
non ultime, lo sfociare verso forme di finanziamento gestito da
entità legate al malaffare); a un livello più alto, l’ impresa si
rivolge normalmente al credito bancario e all’emissione di
obbligazioni; le grandi imprese tendono a ricorrere alternativamente
a tutte e tre le opzioni.
In
ambito capitalistico, la contrapposizione tra “economia
finanziaria” e “reale” è fuorviante.
In
realtà, i due ambiti sono interdipendenti: l’enorme sviluppo del
credito (banche) e dei mercati finanziari (Borse) ha, all’origine,
l’affermazione - propria del capitalismo industriale maturo - delle
grandi industrie multinazionali (corporation) e del loro bisogno di
capitali sempre più grandi per sostenere l’ attività. Inoltre, la
tendenza a una necessità di capitali sempre più grande viene
incrementata da una concorrenza sviluppata a livello mondiale, da una
crudità del sistema competitivo (articolato attraverso fusioni,
acquisizioni, OPA ostili, etc.), dalla necessità di economie di
scala sempre più pronunciate.
Evidentemente,
una massiccia offerta di credito finisce per stimolare la tendenza
alla sovrapproduzione di capitale e di merci, attraverso
l’allargamento della produzione; e può, attraverso un’ offerta
eccedente di liquidità generare bolle speculative (immobiliari,
borsistiche, etc.).
Questo
sancisce il nesso di interdipendenza tra credito e crisi.
Come
detto, il sistema capitalistico occidentale versa da anni in uno
stato di sovrapproduzione, a cui si è risposto favorendo il credito
facile (e il conseguente indebitamento) sia dal lato della produzione
che da quello del consumo (mediante il sostegno del “consumo a
debito”).
Negli
USA, per anni, e con il beneplacito dei governi (preoccupati di
mantenere intatto il “way of life” interno), la FED ha mantenuto
bassissimo il costo del denaro, spingendo le banche a prestare, anche
senza il supporto di qualsiasi ragionevole garanzia (ciò che poi,
sostanzialmente, darà origine alla crisi dei mutui “subprime”).
La
famosa crisi del ’29 aveva prodotto una rigorosa regolamentazione
dei mercati finanziari; questa regolamentazione si era, da fine anni
’60 in poi, via via andata sempre più allentandosi, fino al
definitivo “via libera”, conclamato con l’abolizione del
“Glass-Steagall Act” (e che aveva lo scopo di introdurre una
separazione tra attività bancaria tradizionale e attività bancaria
di investimento). Questa liberalizzazione apriva la strada alla
cosiddetta “finanza strutturata”, in grado di concepire prodotti
finanziari ad alto rischio e profondamenti opachi ( tanto da
risultare ostica l’analisi e il controllo anche da parte degli
organi preposti).
Ecco
che nascono i prodotti “derivati” – rapporti di debito/credito
trasformati in prodotti vendibili a terzi – come i CDO e i CDS, i
quali hanno dato vita a un mercato fiorentissimo e tale da superare
il valore delle transazioni borsistiche tradizionali. La finanza
creativa ha, inoltre, introdotto forme di incentivazione
all’indebitamento particolarmente sofisticate come le carte di
credito revolving e altro.
In
buona sostanza, la domanda di beni di consumo è stata drogata da
forme di indebitamento forzose e opache, senza basi consistenti e
interamente fondate su un rapporto debitore/creditore decisamente
instabile (come i fatti del 2007 confermano).
Negli
Usa e nel Regno Unito il debito delle famiglie, nel 2007, aveva
raggiunto il 100% del Pil. Un ulteriore sintomo della
liberalizzazione dei capitali finanziari è dato dalla leva
finanziaria di cui potevano disporre le banche: la leva finanziaria è
quel valore che, a fronte di una riserva valutaria presente nei
forzieri, designa l’entità dei prestiti erogabili. Le banche
europee, per ogni euro di capitale posseduto, potevano darne in
prestito 40; quelle USA ancora di più. E’ evidente che un’ alta
leva finanziaria determini, allo scoccare di una crisi, una
forte esposizione e una conseguente fragilità del sistema bancario.
Un
sistema così squilibrato è un sistema che si è spinto “troppo in
là”: nel 2007, la bolla immobiliare che aveva alimentato il
consumo a debito di migliaia di famiglie statunitensi e che aveva
permesso alle banche di impacchettare migliaia di miliardi di dollari
di CDO e CDS, venduti agli investitori di tutto il mondo, è
scoppiata, provocando un crollo del sistema bancario e assicurativo
nordamericano ed europeo, rimpinzato di titoli di credito del tutto
inesigibili e assicurati da una pletora di CDS, anch’essi
insolventi.
Numerosissime
banche, costrette ad iscrivere le perdite a bilancio (anche a fronte
di società satellite create allo scopo di ripulire i bilanci
necessari per sancire una presentabilità borsistica), falliscono,
vengono acquisite a prezzi irrisori, oppure vengono salvate dallo
Stato.
Migliaia
di miliardi di capitalizzazione borsistica vengono bruciati e, quel
che è peggio, si ingenera un clima di sfiducia che porta al blocco
del sistema interbancario e, conseguentemente, una grave contrazione
del credito, con effetti devastanti per le aziende, già pesantemente
indebitate e alle prese con una concorrenza internazionale forte
(ulteriore conseguenza della globalizzazione).
Tirando
le somme, il mondo occidentale a capitalismo avanzato - e l’
insieme delle economie assorbite dai venti impetuosi della
globalizzazione neoliberista – entra, a partire dai primi anni
Settanta, in una spaventosa crisi sovrapproduttiva - dovuta
essenzialmente alle intime logiche del modo di produzione
capitalistico - che, a seguito della ricerca del mantenimento del
tasso di profitto, origina una progressiva finanziarizzazione dell’
economia
(l’Arrighi lega questo fenomeno ad un processo di
transizione egemonica imperialistica, dovuta allo spostamento del
dominio economico globale verso la Cina: ma questa è un’ altra
storia).
Reagan
negli USA, la Thatcher in Europa, assurgono a vessilliferi di
un’economia che si incarica di drenare le risorse che erano state, dopo
la fine della Seconda Guerra Mondiale, distribuite attraverso modelli
sociali improntati ad una più attenta concertazione con il mondo del
lavoro; pertanto, con la collaborazione fattiva di un mondo politico
gonfio delle logiche introiettate dai Chicago Boys (corrente di
pensiero economico neoliberista capitanata da Milton Friedman), il
capitalismo vive una fase di recrudescenza che, nel corso degli anni
e in base ad una gradualità temporale capace di desensibilizzare le
masse (già provate nella loro coscienza dagli effetti
“mitridatizzanti” dei mediatori culturali e informativi), conduce
inesorabilmente ad un arretramento spaventoso dei diritti
riconosciuti ai lavoratori.
Banca
Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, Unione Europea, WTO,
novelli Cavalieri dell’ Apocalisse, dominano, in forza di trattati
ottenuti da governi acquiescenti, le politiche economiche del mondo
capitalistico: a forza di privatizzazioni, liberalizzazioni dei
movimenti di capitale, riduzione della funzione protettiva dei
sistemi di “Welfare” degli Stati nazionali, “mercatizzazione”
e mercificazione della vita sociale degli individui, “et cetera”,
l’ imperante “ratio” economicistica della vita sul globo ha
preso il sopravvento ed ha, gramscianamente, egemonizzato l’
immaginario collettivo, confinandolo entro gli angusti confini di un
mondo in cui i rapporti sociali altro non sono che una miriade di
transazioni commerciali regolate dell’ interesse individuale. A far
da sfondo, un mondo sempre più avvelenato dai prodotti di scarto di
una società che vive di una riproduzione costante di miliardi di
inutili oggetti, per arricchire una ristrettissima cerchia di
individui e lasciare il “godimento” delle scorie a tutti gli
altri.
13 gennaio 2015
dal sito La lanterna di Montaigne
La vignetta è del Maestro Mauro Biani
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