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giovedì 19 febbraio 2015

GLI INTRAMONTABILI MIGLIORISMI DELLA SINISTRA ITALIANA di Riccardo Achilli








GLI INTRAMONTABILI MIGLIORISMI DELLA SINISTRA ITALIANA
di Riccardo Achilli




Sui motivi della crisi politica della sinistra italiana, una crisi che oramai potremmo definire storica, si sono versati fiumi di inchiostro, e gran parte di quei fiumi colgono correttamente alcuni degli aspetti principali. Personalmente, sospetto (e l'ho detto da tempo) che il motivo più grave, che peraltro la sinistra italiana condivide con quella di tutto il mondo occidentale sviluppato, è l'incapacità di leggere correttamente i profondi cambiamenti che le società moderne hanno attraversato negli ultimi venti-trenta anni, con la fine del fordismo e della compattezza dei blocchi sociali novecenteschi, perdendo di conseguenza il contatto intimo con le proprie classi sociali di riferimento.

La globalizzazione della sinistra, nel tentativo di tenere dietro una globalizzazione economica e finanziaria crescente, sospinta in modo particolarmente violento dalla caduta del muro di Berlino e dall'imposizione di un pensiero unico che ha cercato (con successo) di imporre un modello omogeneo di relazioni sociali e produttive, ha contribuito a distaccare ulteriormente la sinistra dal suo substrato sociale di riferimento. Dentro il modello omogeneo del pensiero unico, il ruolo della sinistra non poteva che essere di supporto ai processi di globalizzazione produttiva e finanziaria, a scapito degli interessi nazionali, in questo cooperando, fino quasi a confondersi, con la destra liberista. Distaccandosi solo per un approccio meramente mirato a chiedere compensazioni alle esternalità negative prodotte da questo processo di progressiva alienazione sociale, culturale ed identitaria prodotto dalla globalizzazione. E rinunciando a presentare una alternativa di società. Cioè rinunciando alla sua stessa funzione ed al suo motivo di esistenza.


Sin qui, però, la sinistra italiana ha pagato derive comuni all'intera sinistra europea. Se, però, da noi le cose anno nettamente peggio che in altri Paesi, ci debbono essere anche fattori di crisi della sinistra specifici, oltre che comuni alle altre sinistre continentali. Anche qui ne potremmo identificare moltissimi. In questo articolo vorrei soffermarmi su uno solo di questi. Che è la tendenza particolarmente accentuata, rispetto alle altre sinistre europee, a piegarsi verso riformismi moderati e posizioni centriste, nel tentativo perenne di vincere una rincorsa verso il centro dello spettro della società, in concorrenza con le stesse destre. Perché? Certamente, ancora una volta, soprattutto per motivi strutturali, ovvero per il particolare peso che nel nostro Paese, da sempre, assumono i ceti medi impiegatizi e la piccola borghesia, rafforzata in termini di rappresentanza politica dal particolare assetto di un capitalismo che, per assenza di una rivoluzione industriale completata in tutte le sue fasi, conserva fino d oggi i suoi tratti primitivi, padronali e piccolo-imprenditoriali.
Ma su questi elementi strutturali si inserisce anche una componente sovrastrutturale di ordine culturale e di anomalo posizionamento, dentro lo spettro politico, degli interessi sociali di questo vasto ceto medio e di questa ipertrofica piccola borghesia.

Il problema di fondo è che, se nel nostro Paese sono in crisi le culture della sinistra, è anche in crisi, e da molto più tempo, la cultura liberale, per cui l'elettorato, il mondo intellettuale e la militanza politica sono attraversati permanentemente da branchi erranti di liberali in cerca di autore, che ultimamente si sono accasati in larga misura nel PD, non potendo ovviamente, dopo l'iniziale errore, poi corretto, di Montanelli, accasarsi con Berlusconi, che è l'anti-liberale ante litteram.

Nelle loro infinite transumanze, dalla scomparsa dei loro riferimenti politici e 
culturali (ovvero Einaudi e Croce), costoro hanno, tornando indietro nel tempo, sostenuto Renzi, sostenuto Monti, sostenuto D'Alema ed i "liberal" dei Ds e del Pds, per un brevissimo periodo sostenuto Berlusconi all'inizio della sua avventura, sostenuto Mariotto Segni, strizzato l'occhio a Pannella ed alla Bonino, sostenuto il migliorismo nel PCI, hanno fatto un passaggio nel partito repubblicano di La Malfa senior, alle volte sono stati favorevoli a Craxi, ma solo per il suo atlantismo, i suoi progetti presidenzialistici in materia costituzionale, la lotta contro la scala mobile, non certo per l'espansione della spesa pubblica, la difesa delle Partecipazioni Statali, le buone relazioni con i sindacati e gli apparati della Pubblica Amministrazione o le simpatie terzomondiste che Craxi manifestava nella sua politica estera di grande equilibrio.

Oggi, in larga parte, stanno nel PD. Ripetutamente dalla parte sbagliata, ripetutamente a sostegno dell'uomo sbagliato, ma mai pentiti veramente. Mai con le palle sufficienti per mettersi insieme e farsi la loro battaglia per far evolvere la destra peggiore di tutta Europa, la più corporativa e xenofoba, la meno liberale, costoro hanno infestato la sinistra, cercando di piegarla ai propri valori, producendo quella degenerazione centrista che l'ha progressivamente fatta sparire dal panorama politico italiano.

Tali liberali camuffati da socialisti (e nel vecchio PCI anche da comunisti) hanno alcuni tratti identificativi, nel loro pensiero, validi per riconoscerli. Ad iniziare dal loro pantheon, che contiene, in molti casi, personaggi come Mario Monti o Draghi. Questo liberismo camuffato da socialismo liberale (Rosselli era tutt'altra cosa, anche come spessore culturale) guarda con malcelato interesse ai provvedimenti Hartz sul mercato del lavoro, difende quei socialisti europei in camicia bianca che non hanno mosso un dito per sostenere la battaglia di Tsipras, ed anzi, se tedeschi o nordeuropei, l'hanno anche apertamente contrastata.

La loro impostazione ha in fondo un'idea negativa, direi autorazzista, del nostro Paese e del nostro popolo, più o meno inconsciamente lo ritiene inadeguato, cialtronesco, incapace di riscatto morale e ideale, dentro di se crede che l'austerità imposta per interessi di profitto e nazionali ben precisi, ed esogeni all'Italia, sia in fondo la “giusta” punizione di un popolo empio, corrotto, anarchico, che può essere disciplinato soltanto dal bastone e da vincoli imposti dall'esterno. Come stupirsi se con una simile idea di Paese costoro non possano ottenere nemmeno un'unghia del consenso elettorale ottenuto da uno che il suo Paese dimostra di amarlo, come Tsipras?

Dall'impostazione di questi liberali camuffati da socialisti discende un moralismo del tutto allineato a quella cultura calvinista e puritana che è la base “filosofica” del liberismo: il benessere economico e sociale non è un diritto, va conquistato con il lavoro e l'operosità. Il punto centrale quindi non è quello di fare politiche che portino l'economia fuori da un punto di strutturale depressione dell'occupazione e dei redditi, e di costruire una società egualitaria, non solo nell'astrattezza delle opportunità di ascesa sociale, ma anche nella concretezza delle condizioni di vita, ma di stimolare quelle “forze vive”, liberandole da lacci e lacciuoli burocratici e corporativi, rendendo il Paese più “contendibile”, e chi se ne frega dell'eguaglianza o della solidarietà. Quelli sono problemi che si risolvono da soli, per magia.
Infatti, la visione redistributiva che questi liberali in incognito hanno è in fondo la stessa del liberismo “palese” dell’economia neoclassica: in condizioni di libero mercato, i fattori produttivi (lavoro e capitale) ricevono esattamente quanto danno, in termini di produttività, alla creazione di nuova ricchezza. Non può essere diversamente, in un mercato perfettamente concorrenziale e composto da operatori egoisti, onniscienti e perfettamente razionali, altrimenti sarebbe impossibile raggiungere il punto di equilibrio fra domanda ed offerta1. Quindi, per aumentare la quota di salari su profitti, i lavoratori devono essere più produttivi. La base del liberismo è nel porre la produttività dei fattori al centro delle politiche economiche e sociali, da cui poi discende l'ammontare di bisogni che possono essere soddisfatti sub-vincolo della produttività.

Evidentemente, in questo modo, si confonde il piano della competitività con quello della distribuzione, assoggettando il secondo al primo: se è vero che la produttività deve crescere per aumentare la competitività, la crescita della produttività però deve trovare un riscontro distributivo prima, e non dopo il suo incremento (che altrimenti sarebbe disincentivato: quale impresa investirebbe in aumento della produttività se non trovasse un riscontro sul mercato, in termini di consumi del maggior quantitativo di beni prodotto?) Sacrificando la domanda sull’altare della produttività, sulla base di una idea del tutto astratta di una economia che si trova tendenzialmente e spontaneamente, e salvo perturbazioni momentanee, in equilibrio, e che quindi riallineerebbe immediatamente e senza frizioni le retribuzioni dei fattori produttivi alla maggior produttività conseguita, si finisce quindi per sacrificare capra e cavoli.

E’ la situazione in cui rischia di precipitare la Germania, portandosi dietro l’intera area-euro: l’aumento di produttività conseguito nei primi anni Duemila con le politiche di Agenda 2010 non ha comportato un aumento parallelo ed automatico dei salari (perché le ipotesi del modello di equilibrio economico generale non sono vere), per cui il mercato interno non è in grado di assorbire la maggior produzione, ed è stato possibile evitare una crisi da sovraproduzione solo grazie alle crescenti esportazioni. Quando l’export non è più sufficiente, perché altri mercati, per inseguire lo stesso modello, o per fattori specifici propri, devono ridurre la crescita della loro domanda di beni tedeschi, il modello rischia di precipitare nella recessione e nella deflazione.
Spesso tali liberali mascherati propongono l’imposta patrimoniale come rimedio ad ogni male. Dietro la stessa ipotesi di una imposta patrimoniale sulle grandi fortune, di per sé idea giusta se usata per finalità di correzione degli squilibri distributivi (cioè di riduzione dell’indice del Gini), come ad esempio nelle proposte di Picketty, in costoro, c’è spesso una idea meramente contabile: l’imposta deve servire per ridurre il debito pubblico, e deve essere straordinaria e non ordinaria. Essi giustificano tale posizione come dei ragionieri: siccome l’imposta è un prelievo dall’attivo patrimoniale, allora, come insegnano i principi contabili, deve andare a decurtazione del passivo patrimoniale. Non è così corretto, in realtà, perché si usa un attivo patrimoniale privato per coprire un passivo patrimoniale pubblico. Viceversa, occorre trasferire questo attivo patrimoniale dentro il comparto privato, riducendo la ricchezza patrimoniale dei ricchi per aumentare quella dei poveri (ad esempio mediante un azzeramento dell’imposizione sulla casa per i redditi più bassi, o una riduzione del carico fiscale sui redditi, per consentire una maggiore accumulazione di risparmio). Una patrimoniale straordinaria, portata a riduzione del debito pubblico, non implica alcun miglioramento dei meccanismi distributivi, se essi sono già stati strutturalmente alterati da una politica di austerità finanziaria.

Un sottofilone di costoro concepisce la patrimoniale come uno strumento di efficienza del funzionamento economico: riducendo la ricchezza dei “rentiers”, tale imposta si lega all’idea liberale di una società più contendibile, una società delle opportunità per il meritevole (la traduzione laica ed economicistica della predicazione allucinante del calvinismo, con la sua idea intrinsecamente discriminatoria della grazia ultraterrena concessa solo a pochi eletti, e resa palese, per tale ristretta schiera, dalla fortuna accumulata nella vita terrena). Questa società non è certo in automatico più giusta. Tutt’altro. Alla fine conduce all'incubo anglosassone di una società dove le opportunità sono tante e diffuse, e quasi la metà della popolazione vive in condizioni di miseria assoluta.

Ed è evidente il motivo: un concetto di giustizia basato sull'efficienza non può combinarsi con un concetto di giustizia sociale basato sull'eguaglianza, l'eguaglianza nel qui ed ora, e non nell'oltremondo di un “sogno americano” delle opportunità da cogliere. Spinti al limite, questi due concetti divergono. L'efficienza massima richiede il sacrificio di un gran numero di vite e di desideri al funzionamento perfetto dell'ingranaggio. Vediamo perché.

La formalizzazione classica di una visione meramente efficientistica della società è quella dell'ottimo paretiano, come sistema in cui la distribuzione delle utilità individuali è tale da non poter essere più variata senza indurre esternalità non compensabili. Tale modello è formalmente legato allo schema neoclassico (la coincidenza fra le ipotesi di razionalità, individualismo, concorrenza perfetta e ottimizzazione paretiana è dimostrata da Arrow e Debreu). E quindi richiede una situazione il più possibile vicina a quella della concorrenza perfetta (da qui l'importanza di una patrimoniale che distrugge rendite di posizione acquisite, o l'ossessione per la liberalizzazione dei mercati).

Il problema è che questo modello non ci dice niente circa il modo in cui la produzione, ed il reddito, vengono distribuiti. In linea teorica, e dipendendo dal punto di partenza dal quale si avviano dei miglioramenti di benessere, è possibile avere un punto di ottimo paretiano in una condizione in cui pochissimi individui possiedono gran parte della ricchezza nazionale, ed il resto della collettività non ha niente. Si ha quindi la conclusione, apparentemente paradossale, ma perfettamente coerente con un modello di benessere sociale puramente basato sui volumi totali di produzione e consumo di una società, cioè su un modello che si preoccupa soltanto di massimizzare l'efficienza, in cui il massimo del benessere si può conseguire anche in corrispondenza con il massimo di iniquità distributiva!

In conclusione: vogliamo una sinistra che torni ad essere protagonista? Vogliamo evitare di ripetere gli errori di un liberismo fallimentare, spesso camuffato da socialismo? Sarebbe quindi ora di fare chiarezza nel campo della sinistra italiana. Chiarezza che implica la depurazione dai tanti liberali che, nell'assenza di una destra liberale nel nostro Paese, hanno storicamente inquinato la sinistra, nel tentativo di trovare una collocazione. Quei tanti che, camuffandosi da comunisti o socialisti, poi hanno dato vita ai vari migliorismi e trasformismi di destra, cresciuti come tumori dentro i partiti storici della sinistra italiana. Supportando quella degenerazione dei valori e dell'identità di sinistra che poi ha prodotto, come risultato finale, il camaleontismo politico del PD ed il renzismo.

Il socialismo liberale di Rosselli, cui spesso questi falsi socialisti si camuffano, era tutt'altra cosa rispetto al social-liberismo ed ai rigurgiti miglioristi e tardo-blairiani. L'idea di Rosselli era quella di un progresso continuo delle classi sociali più deboli, sia pur in un quadro liberale. Egli parlava di benessere di tutta la società, ottenuto con una condivisione democratica non solo degli strumenti politici, ma anche di quelli produttivi, non disdegnando affatto la loro socializzazione. Non avrebbe mai criticato una manifestazione contro un Governo che imponesse misure di austerità a carico dei più deboli. Al contrario, riteneva la manifestazione una evidenza di come gli assetti democratici potessero favorire l'ascesa delle classi più povere, ed una maggiore libertà collettiva. Difendeva una società complessivamente più giusta, non una società più contendibile, non una società più efficiente.




Nota

1 Date le premesse di mercato perfettamente concorrenziale, operatori meramente individuali egoisti, onniscienti e razionali, ed in presenza di rendimenti di scala costanti, per il teorema di Eulero, una funzione di produzione (ad es. Cobb-Douglas) Y = LaKb, dove Y è il prodotto nazionale, L l’input di lavoro, K quello di capitale, e a+b= 1 (per i rendimenti di scala costanti) la funzione è riscrivibile come:

Y = LaK(1-a)
ed ha le seguenti derivate prime rispetto a L e a K:
DY/L = aK(1-a)L(a-1)
Poiché L(a-1) = La/L, allora
DY/L = aK(1-a) La/L = aY/L

Quindi, la derivata prima rispetto al lavoro, che altro non è che la produttività marginale del lavoro, uguaglia la quota di reddito assorbita dal lavoro, moltiplicata per a, che rappresenta il coefficiente distributivo. In altri termini, la quota di reddito che va ai lavoratori come salario è collegata strettamente al livello della loro produttività.   



La vignetta è del maestro Mauro Biani





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