IL
SOBRIO (E PROLUNGATO) SILENZIO
DEL COLLE
di
Norberto
Fragiacomo
Nell’ultimo
articolo prima del ritiro romano (pardon, veientano) scrissi che dal
neoletto Presidente Mattarella mi attendevo pochino, anzi abbastanza:
correttezza istituzionale, inflessibilità, rigoroso rispetto delle
forme.
Aspettativa realistica o vana fantasticheria? Lo sapremo presto,
prestissimo.
Su
riforma della Costituzione e legge elettorale è scoppiata nell’aula
parlamentare un’autentica rissa: le forzature regolamentari volute
da piè veloce Renzi sono state avallate dalla sussiegosa Boldrini
(il coro “serva! serva!” nella settimana di Sanremo era tutto per
lei) e alla frastagliata opposizione non è rimasta altra scelta che
quella aventiniana. L’affettuoso duetto in conferenza stampa tra il
capogruppo di SeL e un pimpante Brunetta (comicamente ertosi a
fustigatore dell’autoritarismo renziano) suscita facili e meritate
ironie, ma sul piano politico-istituzionale la situazione appare
piuttosto seria.
Il
dato è che il premier intende cambiare la Costituzione da solo, e
questo dovrebbe spaventare un po’ tutti, compresi i critici della
democrazia formale – compreso (e qui sta il punto) il Presidente
Mattarella, che di quella democrazia è invece il garante.
Non
mi riferisco alle intenzioni del fiorentino, che pure immagino
pessime (ed eversive, visti il carattere del personaggio, gli
interessi della sua cerchia e le pressioni esterne), ma alle modalità
in sé. Poniamo, per assurdo, che gli scopi perseguiti da Renzi siano
lodevoli, corrispondenti all’interesse generale: una siffatta
premessa non cancellerebbe il rischio di una riforma dannosa,
deformante. A suggerircelo non sono cassandre avvizzite, ma la storia
giuridica di questo Paese: nel 2001 l’agonizzante maggioranza di
centrosinistra riuscì a far approvare, contro la volontà di
Berlusconi, la legge costituzionale n.3, che ridisegnava l’assetto
istituzionale in senso “federalista”. Muro contro muro anche
allora (ma senza aventini in sedicesimo), risolto da un referendum
confermativo che spianò la strada al nuovo Titolo V. L’intento era
in verità apprezzabile: si puntava a riempire di contenuti la
scatola vuota delle regioni, attribuendo loro una potestà
legislativa generalizzata e riservando allo Stato solo le funzioni di
maggior rilievo, dalla difesa nazionale alla tutela della
concorrenza. Sembrava l’uovo di Colombo, invece fu una frittata:
ben presto ci si accorse che le competenze, ben distinte sulla Carta,
risultavano nella realtà aggrovigliate, si sovrapponevano e
mischiavano l’una all’altra costringendo la Corte Costituzionale
ad un continuo, sfibrante lavoro di apposizione di (incerti) confini.
Non mi voglio soffermare sulle materie trasversali a fisarmonica né
sul mutamento di indirizzi della Consulta nel corso degli anni (per
effetto della crisi, diciamolo a mezza voce), sottolineo soltanto che
una riforma teoricamente migliorativa creò confusione e peggiorò le
cose.
Perché?
In primis per una ragione prettamente tecnica: negli ultimi
venticinque anni il legislatore ha disimparato a fare il suo
mestiere. Certo, vi parleranno di semplificazione normativa, di
manuali, di drafting
(i termini inglesi sono garanzie di qualità al pari delle formule
magiche degli stregoni), ma questo rigoglio di foglie di fico non
basta a nascondere l’evidenza di uno scadimento impressionante del
prodotto normativo. Per un raffronto fra presente e passato non
occorre risalire fino alla “preistoria”, ai mirabili (dal punto
di vista stilistico, non necessariamente contenutistico) codici degli
anni ’30-’40, comprensibili al quivis
de populo: è
sufficiente rifarsi all’ultimo prodotto legislativo di una certa
qualità, la legge 241 del ’90 sul procedimento amministrativo. Si
trattava di una normativa di principi, chiara ed adattabile alle
esigenze dei singoli enti, nel cui codice genetico sono iscritte
riflessioni ed esperienza di quel grande giurista che fu Mario Nigro.
La 241 è stava successivamente stravolta, fino a mutarsi in un
incoerente coacervo di disposizioni e regole contrastanti: a titolo
esemplificativo, cito la strana coppia articolo 2-articolo 20 (la
prima norma impone in via generale la conclusione dell’istruttoria
con un provvedimento espresso, la seconda generalizza l’istituto
del silenzio assenso, cioè del provvedimento tacito), l’ibrido
pubblico-privatistico DIA – che fra l’altro cambia sigla e
disciplina di continuo -, la metastasi normativa che affligge la
conferenza di servizi ecc. Sembra quasi che il legislatore intervenga
a casaccio, mosso – anche nello stesso provvedimento – da
esigenze fra loro conflittuali; sovente aggiunge all’inettitudine
la malafede, inserendo di nascosto nei testi “invisibili” norme
ad personam
o ad…
categoriam:
anche qui non c’è che l’imbarazzo della scelta, tra Lodo
Bernardo, norma salva Renzi, salva evasori e mille altre. Il ricorso
alla decretazione d’urgenza e a fiducie a ripetizione moltiplica
storture, incongruenze e oscenità: come figurarsi, in questo quadro
da Pop Art, una riforma costituzionale degna di questo nome? Si
tratta, in effetti, di un’evenienza inimmaginabile: al di là dei
contenuti – sicuramente deleteri – la legge renziana sarà
senz’altro un obbrobrio confuso, mal scritto e di ardua
decifrazione.
Il
dramma è che il guitto fiorentino ha, con ogni probabilità, i
numeri per farla passare, vista anche l’intenzione di sottoporla
comunque all’ordalia referendaria (da qui il sospetto che le
forzature siano state messe in conto sin dal principio).
Fretta,
diktat governativi, malafede e incompetenza sono gli ingredienti di
un amaro calice che l’Italia rischia di dover trangugiare. La
domanda è: come si comporterà il docente di diritto costituzionale
che sta sul Colle? All’appello delle opposizioni non ha finora
risposto: il suo silenzio non è per il momento “significativo”
(non vale cioè assenso né rigetto della richiesta di provvedere),
posso solo augurarmi che non configuri, domani, un inammissibile
inadempimento. Penso e spero che, da giurista esperto, stia valutando
la situazione: la “riforma” in programma è assai più invasiva
di quella del 2001 e va perciò attentamente soppesata, discussa,
emendata. Pena un esito fallimentare, non può essere imposta da
un’esigua maggioranza a tamburo battente: la Viva
vox constitutionis
deve farsi sentire, richiamare all’ordine Renzi, ridistribuire le
carte. Non parlo per
il momento di
contenuti – ribadisco – ma di metodo, e aggiungo che,
nell’esercizio e nel rispetto delle sue prerogative, il Presidente
dovrebbe spingersi oltre, rammentando che nell’immediato dopoguerra
si optò giustamente per l’elezione di un’Assemblea
rappresentativa di tutte le forze politiche e sociali, all’interno
della quale primeggiavano tecnici di assoluto valore, e che per un
intervento di estesa riscrittura come quello attuale sarebbero
necessarie garanzie similari. La Costituzione non può essere toccata
da scalzacani, per di più espressione di un unico blocco di
interessi: ci troveremmo di fronte non a una riforma, bensì a un
vero e proprio attentato alle fondamenta del nostro vivere civile.
Presto,
dicevo all’inizio, conosceremo gli intendimenti del Presidente, che
nel frattempo spalanca le porte del Quirinale ai cittadini:
iniziativa gradita, ma ininfluente. Più che un trailer, uno spot.
Quanto alle lodi sperticate all’esibita “sobrietà”
presidenziale, faccio notare che si tratta di una qualità personale
dagli irrilevanti riflessi politici: dovessimo scegliere questo metro
per misurare la statura di un governante finiremmo per santificare
Adolf Hitler – che era astemio, trascurato e pure vegetariano – e
demonizzare (ma per i motivi sbagliati) un incorreggibile vizioso
come Winston Churchill.
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