QUEL
POCO CHE MI ASPETTO DAL PRESIDENTE
MATTARELLA
di
Norberto
Fragiacomo
Dal
punto di vista formale la cesura è netta: all’oratoria debordante,
“asiana” di Giorgio I e II (soprattutto del II) subentra lo stile
secco, quasi disadorno di Sergio Mattarella – frasi brevi, richiami
alla Costituzione, allergia agli svolazzi. Sui media ritorna in auge
il termine “sobrietà” che, a conti fatti, non portò troppa
fortuna ad un legnoso economista in loden cui tutti preconizzavano
l’ascesa al Quirinale (ma chi è causa del suo mal pianga se
stesso…). La somiglianza con Monti però finisce qui: malgrado le
indiscusse competenze giuridiche – è stato professore di diritto
parlamentare - il siciliano non ha mai nascosto di considerarsi un
politico.
Mezz’ora
di discorso – il minimo sindacale – inframmezzato da applausi:
ogni forza politica, M5S compreso, mostra apprezzamento, sottolinea
soddisfatta i passaggi più in sintonia con le proprie aspettative.
Saprà unire l’Italia, Mattarella? Quantomeno – viene da chiosare
– non la intontirà di chiacchiere come il suo predecessore.
Mi
sono letto un paio di volte le dieci pagine del testo presentato alla
stampa, cercando di comprendere i motivi di cotanto entusiasmo. Le
analisi sono appena abbozzate, gli impegni generici, a parte uno:
quello a rivestire il «ruolo di un arbitro, del garante della
Costituzione». Nulla di nuovo in questa promessa: i manuali di
diritto costituzionale descrivono con parole simili la funzione del
Capo dello Stato. Dal 2008 in poi, tuttavia, la crisi si è
sovrapposta alle regole, consentendo a Giorgio Napolitano di
interpretare la parte di solista, più che di giocatore. Ecco, un
ritorno al passato, alla norma
certificherebbe – o invoglierebbe a pensare – che l’emergenza è
alle spalle, che la tempesta è finita. Che l’approdo (non la UE,
Presidente: la
normalità) si
avvicina. “I
want to believe!”
gridano, come altrettanti Fox Moulder, parlamentari di seconda fila,
cronisti e cittadini angosciati, obliando che l’annuncio di una
rondine non fa primavera e che la sovrastruttura politico-sociale
incide solo marginalmente sulla struttura. La speranza che il nuovo
Presidente ci conduca fuori dalla crisi è un’assurdità, ma chi
sta per annegare si aggrappa a tutto, anche a un ramoscello.
Non
sostengo che Mattarella venda fumo: le sue affermazioni secche,
lapidarie (ma, lo ripeto, scarsamente impegnative) sfiorano problemi
forse irresolubili. Dopo il ringraziamento a Napolitano, caloroso ma
di prammatica, il neopresidente si sofferma sulla «lunga crisi,
(che) prolungatasi oltre ogni limite, ha inferto ferite al tessuto
sociale del nostro Paese e ha messo a dura prova la tenuta del nostro
sistema produttivo, ha aumentato le ingiustizie, ha generato nuove
povertà, ha prodotto emarginazione e solitudine.» Il relatore
scatta una drammatica istantanea del presente, adombra con
schiettezza il rischio che «la crisi economica intacchi il rispetto
di principi e valori su cui si fonda il patto sociale della
Costituzione» (tema centrale, da approfondire), ma poi si rifugia in
formule standard, lodando l’ammuina dell’esecutivo nel semestre
di presidenza europea. Il successivo richiamo all’articolo 3,
secondo comma, della Costituzione (perseguimento dell’eguaglianza
sostanziale come compito della Repubblica) fa da incongrua, stridente
premessa al passaggio in cui viene sottolineata «l’urgenza di
riforme istituzionali, economiche e sociali» che vanno in direzione
diametralmente opposta (v. la cancellazione delle tutele
giuslavoristiche, la riduzione degli spazi democratici a livello
centrale e locale ecc.); la rinuncia a «generiche esortazioni a
guardare al futuro», pur apprezzabile, è poco più di un espediente
retorico (volendo essere ipercritici, si potrebbe definirla excusatio
non petita),
visti i successivi appelli alla «tenace mobilitazione di tutte le
risorse della società», agli orizzonti di speranza e alle
immancabili forze vive.
Al
saluto agli italiani nel mondo e alla comunità straniera fa seguito
un pacato elogio della politica che, portando tanti giovani e tante
donne in Parlamento, ha mostrato una certa attitudine a rinnovarsi,
anche grazie alla «capacità di critica, e persino di indignazione»
espressa dal Movimento 5 Stelle (il riferimento è chiaro, anche se
non esplicito).
Piuttosto
ambiguo è invece l’accenno alla democrazia come conquista mai
definitiva, le cui formule vanno adeguate al mutamento dei tempi (o
alle “direttive” dei mercati?): che riformare la Costituzione
serva sempre a rafforzare il processo democratico è tutto da
dimostrare, e nelle attuali circostanze la prova si presenta assai
ardua, se non proprio diabolica.
Assolutamente
opportuno, più dell’invito all’approvazione di una nuova legge
elettorale (vecchio pallino di Napolitano, che viene citato ancora
una volta), è il richiamo alla «necessità di superare la deroga
costante alle forme ordinarie del processo legislativo»: l’uso del
sostantivo necessità
e dell’aggettivo costante
- scelti immaginiamo non a caso1
- lascia presagire un atteggiamento più severo rispetto a quello
assunto dal predecessore, interessato più alla sostanza dei
provvedimenti che alla salvaguardia delle forme.
Nel
prosieguo il Presidente si diffonde sul significato (specialmente
sociale) della Carta fondamentale, stigmatizza i guasti della
corruzione e tocca con maestria il tema del terrorismo: «per minacce
globali servono risposte globali – dichiara – la Comunità
internazionale deve mettere in campo tutte le sue risorse». Il
pensiero va irriguardoso alla partecipazione italiana, un
quindicennio fa, alla guerra della NATO contro la Serbia: all’epoca
il nostro ricopriva importanti incarichi di governo, e fu dunque
corresponsabile di una scelta contrastante con il ripudio
solennemente sancito dall’articolo 11.
Le
conclusioni sono, dal punto di vista contenutistico, abbastanza
scontate o, se preferiamo, politically
correct: l’Unione
Europea, già oggi «una frontiera di speranza» e di democrazia,
deve evolversi politicamente, ma in essa «l’Italia ha trovato
l’affermazione della sua sovranità (sic!)» - di conseguenza
sarebbe antistorico rinchiudersi «nel fortino degli Stati nazionali»
(cioè uscire dalla NATO, dalla UE e dall’euro).
Sintesi
panglossiana: nonostante le sue storture e le tante ingiustizie,
quello occidentale resta pur sempre il migliore dei mondi possibili,
ce l’ha già spiegato TINA e oggi, davanti al Parlamento in seduta
comune, lo ripete un Presidente ricco di sensibilità sociale, ma del
tutto a suo agio in quella che Diego Fusaro chiama “la gabbia
d’acciaio”.
Sia
chiaro: non gliene faccio una colpa, né mi aspettavo un messaggio
troppo diverso o addirittura rivoluzionario. Sergio Mattarella è un
giurista di vaglia2
e un uomo misurato: confido che metterà un freno a certi eccessi
governativi, vigilerà sul rispetto delle forme e, a Capodanno, terrà
chiuse nel cassetto eventuali letterine strappalacrime.
Questo
è ciò che mi aspetto da lui: non moltissimo in verità, ma i tempi
sono grami.
In
ogni caso auguri, signor Presidente, e si sforzi di tener presente
ogni giorno che il volto della Repubblica è anche il suo.
NOTE
1
Così come non appare casuale la sottolineatura, poche righe più in
basso, del ruolo di “arbitro” del Presidente e dell’esigenza
che i giocatori collaborino.
2
Anche se l’aver fatto parte, negli ultimi quattro anni, della
Corte Costituzionale non è necessariamente un titolo di merito,
considerato che troppe volte, dallo scoppio della crisi, il collegio
ha piegato le regole del diritto alle esigenze della Realpolitik.
La vignetta è del maestro Alessandro Federico
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