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martedì 8 dicembre 2015

APPELLO PER IL RISORGIMENTO SOCIALISTA




APPELLO PER IL RISORGIMENTO SOCIALISTA



Un appuntamento di una certa importanza per la sinistra italiana si è consumato qualche giorno fa, con l’assemblea di Risorgimento Socialista che, a quanto pare, scioglie definitivamente il nodo gordiano del rapporto con un PSI oramai definitivamente digerito dentro il metabolismo neocentrista del PD. E’ una ottima notizia.

Così come è una ottima notizia che si ricostituisca un punto di riferimento per il pensiero del socialismo di sinistra in Italia. Sappiamo bene tutti quale sia l’analisi della situazione attuale. La verticalizzazione degli assetti di potere economico impressa dalla fase finanziaria del capitalismo, cavalcando sull’onda di una globalizzazione che ha spossessato i popoli europei della stessa capacità di governare i loro interessi, ha generato una deriva neoliberista senza frontiere e senza politica, realizzando le indicazioni di Von Hayek sull’Europa. Un’Europa oramai irrimediabilmente lontana dal progetto di Ventotene, in cui la moneta unica è servita da grimaldello per imporre agli Stati membri una strada forzata di imitazione delle politiche economiche ordoliberiste del Paese leader. La gestione di questo processo di incrudimento delle diseguaglianze e di impoverimento di strati crescenti della società richiede una progressiva cancellazione degli spazi della democrazia rappresentativa , facendo crescere un leaderismo plebiscitario e plebeista, privo di meccanismi di intermediazione, più simile al caudillismo che alla democrazia.


In questo contesto, la sinistra, in tutta Europa, ha perso quasi tutto il suo radicamento sociale naturale, nel mondo del lavoro ed in quello di chi il lavoro non ce l’ha. In primis perché i profondi cambiamenti sociali degli ultimi trent’anni hanno frammentato e reso più porose e meno chiaramente distinguibili le classi sociali novecentesche, ed hanno generato segmentazioni interne al mondo del lavoro, tali da ostacolare i tentativi di rappresentazione unitaria. Ma soprattutto per errori di strategia: non aver letto correttamente, con onestà intellettuale, i cambiamenti sopra menzionati, ha fondato l’illusione di poter governare tale fase in una logica di “riduzione del danno” (di compensazione delle esternalità sociali negative) tipica del social-liberismo.

Purtroppo anche gli esperimenti di sinistra più radicali che sono stati sinora messi in campo, come quello di Syriza, hanno manifestato l’incapacità anche solo di frenare la velocità della deriva economica, sociale e democratica dentro la quale la civiltà europea si sta estinguendo. In fondo, per lo stesso motivo: l’illusione di poter negoziare con l’egemonia ordoliberista un compromesso onorevole, senza mettere sul tavolo una concreta eventualità di rottura definitiva in caso di impossibilità di negoziare. Il tutto in un quadro in cui l’utopia dell’internazionalismo socialista si scontra con la dura realtà dell’assenza del foro politico entro il quale poterlo esercitare. Se l’Europa non è uno spazio politico democratico, e non può esserlo perché metterebbe a repentaglio la direzione di marcia neoliberista cui tengono i poteri economici e finanziari transnazionali, non c’è il luogo dover esercitare forme di internazionalismo. Se non un Parlamento Europeo che di parlamentare ha soltanto il nome, e che somiglia ad una Dieta dello zar. Per questi stessi motivi, non si può oggi essere ottimisti in merito al pur coraggioso tentativo unitario che la sinistra portoghese sta portando avanti, mancando la volontà di arrivare a far saltare il tavolo, ove necessario.

I momenti, nella vita degli individui come in quella delle società, in cui ci si trova con le spalle al muro, sono quelli in cui occorre prendere decisioni forti. Risorgimento Socialista, in questo contesto, ha un senso soltanto se rappresenta una opzione di cultura politica avanzata, in grado di mettersi al servizio di un progetto più ampio, di una idea di fronte popolare ampio, che trovi una sintesi utile a dare risposte a tutti gli sconfitti della crisi: il disoccupato, il lavoratore povero e i vari strati della precarietà lavorativa ed esistenziale, il pensionato, il piccolo imprenditore in rovina. Ciò a sua volta implica che l’autonomia di pensiero e di cultura politica socialista di questo soggetto sia spesa in un rapporto con le altre componenti che stanno lavorando ad una sinistra unitaria e plurale. Occorre ricostruire i legami molecolari fra i dispersi atomi della sinistra italiana, altrimenti non si fa sistema, e non si intercetta un fronte popolare, né ampio né sottile. Attenzione: questo fronte troverà altri riferimenti nel giacobinismo senza ideali e senza progetto di Grillo, o nella deriva xenofoba della Lega.

La liquefazione sociale ed esistenziale in cui precipita la nostra società (fotografata di recente persino dal Censis, come già negli ultimi rapporti dello SVIMEZ, che evidenzia questo ritorno di individualismo disperato, ovviamente ben accolto dalle classi dominanti) richiede solidità. Solidità contro lo sfacelo. Senza un radicamento di classe, che richiede la solidità di un albero che pianta le radici dentro specifici interessi sociali, per quanto ampi, l’orizzontalismo civico anti-casta ha poche prospettive. Una volta sostituita la vecchia élite, si riproducono gli stessi meccanismi precedenti, basati su un liberismo più o meno compassionevole, e su una retorica dell’onestà che ha le gambe corte, quando deve sporcarsi le mani con la quotidianità del potere. L’esempio della gestione grillina di un Comune come Livorno dovrebbe essere emblematico in tal senso.

Il nostro appello è che Risorgimento Socialista entri, come componente organizzata, e con un apporto culturale originale e preziosissimo, dentro i faticosi processi di costruzione di un partito di sinistra nel nostro Paese. Un partito, con la solidità di una organizzazione che consente il confronto plurale ed il dibattito fra le diverse posizioni, e quindi sedimenta le diverse culture politiche portandole ad una sintesi innovativa, che fa cultura politica, che seleziona e fa crescere una classe dirigente all’altezza. Azzerando in larga misura quella attuale, che francamente è fallita, senza peraltro coltivare retoriche nuoviste che hanno manifestato la loro natura gattopardesca.

E l’apporto culturale di Risorgimento Socialista deve fare leva sugli insegnamenti più preziosi, ed ancora attuali, di Lelio Basso per il diritto dei popoli e l’esigenza di un nuovo anticolonialismo, Riccardo Lombardi e Fernando Santi (quest’ultimo soprattutto perché è necessario ricostruire un sindacato forte, rappresentativo e moderno). Una attualizzazione del concetto lombardiano di “riforma di struttura”, che continui ad avere un ancoraggio di classe. La polarizzazione sempre più grave, di reddito e di opportunità, che dilania la società italiana, e gli enormi problemi di struttura che il capitalismo in crisi ci propone, problemi che mettono a repentaglio la nostra civiltà e finanche la sopravvivenza della specie umana, richiedono un approccio radicale. Non si può indugiare in vaghi richiami a Meade o a democrazie dei proprietari. Qui il problema non è più quello di redistribuire le opportunità di autorealizzazione dei singoli in una società liberale che ha realizzato l’emancipazione dal bisogno immediato, garantendo le capacità individuali. Il problema è diventato quello di rispondere ai bisogni primari riemergenti, dentro le nostre società, ed anche per i milioni di disperati che, fuggendo da un Terzo Mondo divorato dalle fiamme del neocolonialismo, premono alle nostre frontiere, e nei confronti di assetti ambientali globali prossimi al collasso. Non ha nemmeno più senso interrogarsi sul livello di “libertà” individuale cui rinunciare per avere un welfare State, come faceva Rawls, quando oramai le nostre società non hanno più il welfare pubblico e stanno per perdere le libertà.

Occorre tornare ad un approccio di classe, per quanto sufficientemente ampio da garantire una sintesi fra le diverse classi e sottoclassi sociali colpite dalla crisi. L’economia diventa “umana” se è in grado di rispondere a bisogni collettivi, non lo è se amplia la prateria per le ricorse solitarie di ciascuno. Qui occorre tornare a dare risposta al diritto al lavoro, al diritto alla casa, al diritto ad una istruzione di massa e di qualità, alla sanità pubblica per tutti, persino al diritto al cibo, e basta dare uno sguardo ad una mensa della Caritas o a certe scuole “di frontiera” per accorgersene.

Ed occorre farlo in un contesto in cui la crescita non c’è più. E non ci sarà più sui livelli del passato, perché non ci saranno più locomotive macroeconomiche come prima: Cina, gli altri Brics, Stati Uniti, Giappone, Europa, sono tutti alle prese con specifiche contraddizioni macroeconomiche, la cui soluzione per l’uno aggrava i problemi dell’altro, generando, progressivamente un multipolarismo con leader sempre più numerosi e sempre meno potenti, molto pericoloso anche sotto il profilo geopolitico. Ma soprattutto perché abbiamo raggiunto un duplice vincolo, sociale ed ambientale, alla crescita. Il primo ci dice che, con gli assetti attuali, la crescita di alcuni significa ulteriore impoverimento e guerra per gli altri, generando spinte migratorie globali oramai giunte al limite della sostenibilità culturale e sociale nei nostri Paesi, generando fenomeni di xenofobia e di erraticità delle politiche di gestione delle migrazioni. Il vincolo ambientale ci segnala che, lasciando da parte la polemica scientifica ed ideologica sul riscaldamento globale, che pure è incontrovertibilmente in atto, abbiamo raggiunto il limite massimo dell’impronta antropica sull’ambiente, in termini di pressione sulle risorse alimentari, idriche ed energetiche. Le innovazioni tecnologiche, le politiche ambientali e demografiche e i cambiamenti negli stili di vita basteranno solo per allentarlo, dilazionarlo, ma non per rimuoverlo. In un contesto in cui occorre ripensare completamente il paradigma lavoristico su cui si fondano le nostre società, perché, semplicemente, il progresso tecnico fa sì che non ci sia più bisogno di far lavorare tutti. Ed in un certo senso la precarizzazione dei mercati nazionali del lavoro fornisce una risposta liberista, ovviamente inadeguata, a questo vincolo: precarizzando il lavoro e la sua retribuzione, lo si distribuisce su un maggior numero di teste.

Queste enormi sfide strutturali, non congiunturali, ci pongono davanti al tema di elaborare un nuovo modello di sviluppo. Meno quantitativo e più qualitativo, meno assurdamente globalizzato e più fondato sui legami sociali di comunità. Più partecipato, ed il paradosso della partecipazione è che, quando la si allarga, essa richiede gli organismi intermedi di rappresentanza che la sintetizzino, non le distopie casaleggiane del cittadino che vota sul social di Internet. In tal senso si pone anche l’esigenza di riproporre l’istituto della programmazione economica non eterodiretta e orientata secondo dettami costituzionali, ex art. 2, 3, 4, 35-47, con particolare attenzione a forme inedite di attuazione dei principi stabiliti dall’art. 43 e alla più recente riflessione politica e giuridica sulla indisponibilità dei beni comuni, cfr. Commissione Rodotà - per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici (14 giugno 2007).
E ciò richiede un approccio di breve periodo, su temi come la rimessa in circolo di una politica economica sulla domanda che arresti la spirale deflazionistica, la ricostruzione della scuola e del sistema formativo pubblici dopo anni di tagli e di dequalificazione professionale e la difesa della sanità, il governo dei fenomeni migratori con una politica estera, di sicurezza e di accoglienza intelligente, il governo politico, non militare, del multipolarismo che sta producendo, come dice Bergoglio, una guerra mondiale frammentata. Ma inevitabilmente getti lo sguardo sul lungo periodo, quando le contraddizioni di sistema imporranno un approccio nuovo, che eviti la trappola del decrescismo, perché il problema non è decrescere e tornare ad epoche premoderne, o peggio ancora negare ai Paesi emergenti il diritto a sperimentare una crescita del benessere, ma redistribuire meglio la crescita, sotto il profilo sociale, e renderla meno impattante sotto quello ambientale.

Tutto ciò già ora, già adesso, ci impone di rompere i primi equilibri. Non si tratta nemmeno di dividersi fra europeisti ed antieuropeisti. E’ sufficiente prendere atto del fatto che questa Europa è irriformabile dall’interno, in un’area valutaria unica senza trasferimenti monetari compensativi ed a bassa mobilità del fattore lavoro l’unica possibilità di cambiare radicalmente le politiche economiche è che le cambi il Paese leader, ossia la Germania. Cambiamento che la Germania non farà mai, se non per piccole modifiche marginali e di modesto impatto complessivo, nemmeno se nel 2017 vincessero i socialdemocratici, perché cesserebbe di essere il leader regionale. E quindi occorre, come minimo, preparare con uno sforzo adeguato strumenti di fuoriuscita, se possibile concordati e ordinati. Se non possibile, anche unilaterali e bruschi. Anziché dilettarsi su tatticismi per cui “se non possiamo negoziare il piano A, non possiamo nemmeno negoziare il piano B” basterebbe aver visto un film degli anni Sessanta, “l’Inferno di Cristallo”. La situazione dell’Italia e degli altri Stati europei sottoposti al dominio germanico è quella del protagonista di quel film che, all’ottantesimo piano di un grattacielo in fiamme, ha solo due scelte: scendere dalle scale, con la certezza assoluta di morire bruciato, oppure gettarsi dalla finestra, sperando che qualcosa freni la sua caduta, evitando la morte.
L’auspicio è che almeno una parte di queste brevi riflessioni possa servire a Risorgimento Socialista per svolgere un ruolo utile, sotto il profilo culturale e di contributo programmatico, dentro la ricostruzione della sinistra italiana.
Occorre riflettere sul piano della prospettiva sociale che RS vuol perseguire. È stato detto, in modo molto evocativo, che RS intende essere non già un capitolo della cosiddetta “diaspora socialista” bensì la fuoruscita da essa. Ciò coinvolge anche emotivamente molti compagni e compagne, cui va il rispetto per un reale travaglio generazionale. Nondimeno si tratta di individuare e perseguire un differente percorso: la ricostruzione di una forza di ispirazione socialista fra quelle classi sociali e anagrafiche tratteggiate a più riprese nel presente documento. A costoro poco o nulla dicono diatribe, peraltro sterili, su questioni di un passato antecedente alla loro nascita o alla persistente crisi esistenziale che attanaglia la loro generazione. Per costoro val la pena riprendere la china di un non breve né facile percorso verso equilibri più avanzati.


7 Dicembre 2015



Riccardo Achilli

Giuseppe Angiuli

Gaetano Colantuono

Norberto Fragiacomo

Ferdinando Pastore

Stefano Santarelli




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