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martedì 1 marzo 2016

DA EDWARD LUTTWAK UNA LEZIONE DI STRATEGIA di Norberto Fragiacomo




DA EDWARD LUTTWAK UNA LEZIONE DI STRATEGIA


Anche il professore neocon che sbeffeggiò i bravi ragazzi ad Announo è un “gombloddista”?

di
Norberto Fragiacomo




Può darsi che l’inquietante, arcigno Edward Luttwak non sappia cosa sia la morale (né gli importi saperlo), ma la Storia la conosce di certo.
A febbraio, l’ennesima puntata del mio sceneggiato concorsuale mi ha condotto – scorrevano già i titoli di coda – alla libreria della Stazione Termini: cercavo un affidabile compagno di viaggio. In passato mi era sempre andata bene, ma stavolta ho avuto qualche difficoltà a pescare nomi o titoli accattivanti: gran copia di romanzacci, poca sostanza. All’improvviso mi sono imbattuto in Lui, il cinismo fatto persona – o per meglio dire, nella sua opera più nota: La grande strategia dell’Impero Romano. L’ho afferrata al volo, e non me ne pento.

Il libro è poco più giovane di me, avendo visto la luce nel ’76, e circa un lustro fa ha avuto l’onore di una ristampa: più per il suo valore oggettivo, direi, che non per la sinistra fama guadagnata dall’autore a suon di apparizioni nei talk show nostrani. Chi oggi scandalizza ipocriti e benpensanti (e fa bestemmiare gli onesti) quarant’anni orsono fece lo stesso con gli storici dell’antichità, raccontando Roma attraverso l’evoluzione/involuzione delle sue forze armate. Poco spazio per facondi condottieri e gesta eroiche: al Luttwak scrittore – che di rado fa balenare il raggelante sogghigno – interessa quasi esclusivamente l’analisi della strategia imperiale, cioè di relazioni con l’estero (e con l’interno), di tattiche, strade, numeri, fortilizi e armamenti.


Impossibile – e improduttivo – riassumere un saggio densissimo di idee, che merita attenta lettura: basti sapere, per il momento, che l’autore suddivide la cronologia imperiale in tre periodi, ciascuno dei quali risulta caratterizzato da una specifica strategia di contenimento della minaccia esterna. Nel primo, quello del Principato giulio-claudio, i confini della romanità appaiono incerti, scarsamente presidiati: le formidabili, ma ridotte (a parere di Luttwak) legioni si concentrano sulle linee di espansione territoriale, l’impermeabilità delle frontiere va garantita, con i modesti mezzi a disposizione, dai re clienti, in grado di parare attacchi a bassa intensità. Si può non essere d’accordo sul fatto che le 28 legioni augustee – ognuna delle quali composta da circa 10 mila soldati, ausiliari compresi – fossero una forza militare “ridotta”, in un mondo che ospitava due o trecento milioni di persone, ma risulta convincente la tesi che le descrive come un deterrente, una “atomica corazzata” da utilizzare con parsimonia, e solo ai danni di popolazioni ancora ignare del loro potenziale. La psywar è una specialità americana, ma non l’hanno inventata loro.

In una seconda fase, inaugurata dai Flavi ed esauritasi con Marco Aurelio, l’approccio cambia radicalmente: gli stati vassalli vengono inglobati, le frontiere fortificate (in ogni caso il termine limes – ci assicura Luttwak – indica non tanto il “confine” imperiale, quanto la strada che corre nelle sue vicinanze, garantendo la mobilità, comunque relativa, delle legioni) (1). Si passa quindi ad una strategia di difesa avanzata: i fortini eretti nella terra di nessuno debbono impegnare il nemico prima che metta piede in territorio romano, onde permettere alle truppe di fanteria di intercettarlo al di fuori di esso. Anche in questo modello i reparti legionari risultano dislocati alla periferia dell’Impero: gli scontri sono più frequenti, e il costante attrito comporta maggiori perdite d’uomini e mezzi, ma viene assicurata la sicurezza delle province.

Il terzo periodo è quello della decadenza (così direi io – Luttwak si limita ad esaminare fatti e tendenze, senza offrire giudizi che non siano strettamente tecnici): ai tempi dell’anarchia militare si adotta una difesa elastica, che consente agli esercizi stranieri di penetrare in profondità e dare il guasto ai territori romani prima di essere costretti alla lotta. Si tratta evidentemente di una strategia poco efficace, dettata dall’emergenza; già Settimio Severo (inizio III° secolo) aveva individuato un’alternativa alla terra bruciata nella difesa in profondità, concetto coscientemente adottato da Diocleziano, personaggio che l’autore senz’altro ammira. In cosa consiste questa nuova strategia? Nel circondare di mura i centri urbani esposti ad incursioni e assalti, in modo da garantire – se non la prosperità economica delle regioni, che rimane a rischio – un minimo di protezione agli abitanti, e un maggior lasso di tempo all’armata imperiale per organizzare la controffensiva. Un esempio ce lo offre Aquileia, fortificata in fretta e furia ai tempi dell’invasione di Quadi e Marcomanni (seconda metà del II° sec.), ma capace di resistere, quasi cent’anni dopo, all’assedio di un esercito romano condotto da Massimino il Trace. (2)

Ma insomma – vi chiederete – perché vai cianciando di cose capitate venti secoli fa, che al più possono essere tema di discussione per gli allievi di un’accademia militare?

Mi spiego: non ho introdotto questo tema per celia o mancanza di argomenti più attuali, e di certo non sono qui per proporvi un’inutile recensione. Mi preme invece porre l’accento su una certa tendenza a “generalizzare” che molti studiosi – forse piccati per l’intrusione nella loro riserva di caccia – hanno rimproverato al geniale professore di origine ebraico-rumena. In effetti, che imperatori e comandanti militari romani si siano sempre attenuti agli schemi descritti nel saggio è insostenibile: talora le contingenze hanno il sopravvento, senza contare che il carattere del condottiero e il livello, anche motivazionale, delle truppe giocano ogni volta un ruolo attivo. Di quando in quando il caso si erge a protagonista: contro i Goti Valente sbaglia politica piuttosto che battaglia (3), nella valle del Vipacco (394 d.C.) a scompaginare il piano avveduto di Arbogaste ci pensa la bora (che sta soffiando rabbiosa anche adesso).

In linea di massima, però, la lettura proposta da Luttwak è persuasiva, le tessere del puzzle si incastrano nella quasi totalità – e se qualcuna resta fuori, pazienza: la Storia è un racconto confuso, scritto da miliardi di mani, piedi, interessi, ondate improvvise (il “vento divino” che annienta la flotta di Qubilay Khan!) e semplici coincidenze (la morte del predecessore Ogodai, nel 1241, salva un’Europa impotente dall’incubo mongolo). Agli uomini non è dato determinarne gli esiti, ma condizionarli sì, almeno nel breve-medio periodo: il delirio tolstoiano su Napoleone quasi “trascinato” a Mosca dalla marcia dei suoi soldati è appunto un delirio, sono i personaggi eccezionali, e assai più spesso le élite socioeconomiche a mettere le briglie ai popoli, non viceversa.

Oggi ci ammoniscono che sostenere una tesi siffatta – che cioè la classe egemone può influenzare percezione e comportamenti di chi sta sotto, imporre una direzione alla società, diffondere una visione e una lettura degli eventi che l’avvantaggi – equivale a fare del “complottismo”. “Le cose succedono perché succedono!” Spergiurano, allargando le braccia, epigoni senza talento di Tolstoi, i quali pretendono – con notevole successo di pubblico, grazie al controllo di media fintamente dialettici – che ogni disgrazia, ogni crisi sia frutto della casualità, o ben che vada della dabbenaggine umana. L’austerità sta ammazzando Paesi interi (con l’eccezione delle rispettive upper class)? La colpa è di una sequela di errori di valutazione, tutti ovviamente in buona fede… il che è come dire: abbiamo per leader dei bamboccioni strapagati con lauree e master a ripetizione, ma così deficienti che non hanno ancora compreso che 2+2 fa 4 anziché 3… e che però si mettono il voto da soli, regalandosi ad ogni correzione un promettente 7/8!

La domanda giusta da porsi è: cosa c’è dietro questa apparente demenza, questa coazione a ripetere invariabilmente a nostro danno? Un “gombloddo” degno di salaci sberleffi? Nient’affatto: una precisa strategia, non troppo dissimile da quella intravista da Luttwak nella condotta della classe dominante romana. Gli imperatori non “complottavano” con i predecessori defunti: si attenevano a linee di comportamento elaborate in passato e costantemente aggiornate, tese a garantire – nei limiti del possibile – il fruttifero controllo di un ceto sull’orbe. Ogni tanto si scannavano fra loro o sterminavano un gruppo rivale, poteva addirittura avvenire che un’intera élite finisse decapitata in battaglia (è il caso di Adrianopoli), ma quella classe di patrizi prima honestiores dopo restò saldamente in sella per svariati secoli, sacrificando alla propria sicurezza e al proprio benessere quelli altrui.

Il loro scopo era prosperare, accumulando e poi difendendo con rabbiosa tenacia risorse strappate ai più deboli: come si vede in duemila anni l’intento dei dominatori non è affatto mutato, benché oggi gli strumenti di produzione siano straordinariamente più progrediti. La “crisi” è un giudizio semidivino – ma di fattura umana – che ha giustificato fino ad oggi lo spoglio dei beni comuni, del welfare pubblico, dell’acqua e della terra (si considerino, a tal proposito, il dramma dei nuovi senzatetto greci, in gran parte ex ceto medio, e il germinare ovunque in Europa di pesanti meccanismi impositivi sulla piccola proprietà fondiaria).

In fin dei conti, il complotto altro non è che la versione semplificata, ingenua e popolaresca di strategie troppo raffinate per essere accessibili alle masse – che le cose stiano così ce lo confessa involontariamente Luttwak nel suo libro, quando irride gli storici di duemila fa che si fermavano alla superficie delle cose, baloccandosi con orazioni e stereotipati giudizi morali.

Attenzione, però: “La grande strategia dell’Impero Romano” non poté, tra il quarto e il quinto secolo, impedire il rovinoso crollo dell’intera impalcatura, per il semplice fatto che nulla, proprio nulla è eterno… nemmeno il capitalismo, che pure crede (o forse si illude) di avere i mezzi per spremere le sue vittime fino all’ultima goccia di sangue e sudore.


NOTE


1 L’Autore giunge alla conclusione che, malgrado qualche occasionale exploit (si pensi alle imprese di Cesare in Gallia e durante il bellum civile), la marcia delle truppe appiedate era generalmente lenta, e rispetto alle fonti antiche e contemporanee effettua una stima al ribasso della velocità di spostamento per terra e per mare (1-2 nodi). A queste condizioni una riserva strategica acquartierata nei dintorni della capitale non avrebbe un particolare valore militare (e infatti gli sparuti reparti pretoriani avevano il compito di proteggere il sovrano da attentati e sommosse). Luttwak sottolinea anche che l’apparente “perdita di tempo” causata dalla giornaliera edificazione dei castra rispondeva in realtà all’esigenza di assicurare un sonno tranquillo ai legionari, con conseguente mantenimento di una buona forma fisica.

2 Celebrato dagli storici più per l’eccelsa statura (2 metri) e la forza erculea che per le doti di generale.

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