DA
EDWARD LUTTWAK UNA LEZIONE DI STRATEGIA
Anche
il professore neocon che sbeffeggiò i bravi ragazzi ad Announo è un
“gombloddista”?
di
Norberto
Fragiacomo
Può
darsi che l’inquietante, arcigno Edward Luttwak non sappia cosa sia
la morale (né gli importi saperlo), ma la Storia la conosce di
certo.
A
febbraio, l’ennesima puntata del mio sceneggiato concorsuale mi ha
condotto – scorrevano già i titoli di coda – alla libreria della
Stazione Termini: cercavo un affidabile compagno di viaggio. In
passato mi era sempre andata bene, ma stavolta ho avuto qualche
difficoltà a pescare nomi o titoli accattivanti: gran copia di
romanzacci, poca sostanza. All’improvviso mi sono imbattuto in Lui,
il cinismo fatto persona – o per meglio dire, nella sua opera più
nota: La grande strategia dell’Impero
Romano. L’ho afferrata al volo, e
non me ne pento.
Il
libro è poco più giovane di me, avendo visto la luce nel ’76, e
circa un lustro fa ha avuto l’onore di una ristampa: più per il
suo valore oggettivo, direi, che non per la sinistra fama guadagnata
dall’autore a suon di apparizioni nei talk show nostrani. Chi oggi
scandalizza ipocriti e benpensanti (e fa bestemmiare gli onesti)
quarant’anni orsono fece lo stesso con gli storici dell’antichità,
raccontando Roma attraverso l’evoluzione/involuzione delle sue
forze armate. Poco spazio per facondi condottieri e gesta eroiche: al
Luttwak scrittore – che di rado fa balenare il raggelante sogghigno
– interessa quasi esclusivamente l’analisi della strategia
imperiale, cioè di relazioni con l’estero (e con l’interno), di
tattiche, strade, numeri, fortilizi e armamenti.
Impossibile
– e improduttivo – riassumere un saggio densissimo di idee, che
merita attenta lettura: basti sapere, per il momento, che l’autore
suddivide la cronologia imperiale in tre periodi, ciascuno dei quali
risulta caratterizzato da una specifica strategia di contenimento
della minaccia esterna. Nel primo, quello del Principato
giulio-claudio, i confini della romanità appaiono incerti,
scarsamente presidiati: le formidabili, ma ridotte (a parere di
Luttwak) legioni si concentrano sulle linee di espansione
territoriale, l’impermeabilità delle frontiere va garantita, con i
modesti mezzi a disposizione, dai re clienti, in grado di parare
attacchi a bassa intensità. Si può non essere d’accordo sul fatto
che le 28 legioni augustee – ognuna delle quali composta da circa
10 mila soldati, ausiliari compresi – fossero una forza militare
“ridotta”, in un mondo che ospitava due o trecento milioni di
persone, ma risulta convincente la tesi che le descrive come un
deterrente, una “atomica corazzata” da utilizzare con parsimonia,
e solo ai danni di popolazioni ancora ignare del loro potenziale. La
psywar
è una specialità americana, ma non l’hanno inventata loro.
In
una seconda fase, inaugurata dai Flavi ed esauritasi con Marco
Aurelio, l’approccio cambia radicalmente: gli stati vassalli
vengono inglobati, le frontiere fortificate (in ogni caso il termine
limes
– ci assicura Luttwak – indica non tanto il “confine”
imperiale, quanto la strada che corre nelle sue vicinanze, garantendo
la mobilità, comunque relativa, delle legioni) (1).
Si passa quindi ad una strategia di difesa
avanzata: i fortini eretti nella
terra di nessuno debbono impegnare il nemico prima
che metta piede in territorio romano, onde permettere alle truppe di
fanteria di intercettarlo al di fuori di esso. Anche in questo
modello i reparti legionari risultano dislocati alla periferia
dell’Impero: gli scontri sono più frequenti, e il costante attrito
comporta maggiori perdite d’uomini e mezzi, ma viene assicurata la
sicurezza delle province.
Il
terzo periodo è quello della decadenza (così direi io – Luttwak
si limita ad esaminare fatti e tendenze, senza offrire giudizi che
non siano strettamente tecnici): ai tempi dell’anarchia militare si
adotta una difesa elastica,
che consente agli esercizi stranieri di penetrare in profondità e
dare il guasto ai territori romani prima di essere costretti alla
lotta. Si tratta evidentemente di una strategia poco efficace,
dettata dall’emergenza; già Settimio Severo (inizio III° secolo)
aveva individuato un’alternativa alla terra bruciata nella difesa
in profondità, concetto
coscientemente adottato da Diocleziano, personaggio che l’autore
senz’altro ammira. In cosa consiste questa nuova strategia? Nel
circondare di mura i centri urbani esposti ad incursioni e assalti,
in modo da garantire – se non la prosperità economica delle
regioni, che rimane a rischio – un minimo di protezione agli
abitanti, e un maggior lasso di tempo all’armata imperiale per
organizzare la controffensiva. Un esempio ce lo offre Aquileia,
fortificata in fretta e furia ai tempi dell’invasione di Quadi e
Marcomanni (seconda metà del II° sec.), ma capace di resistere,
quasi cent’anni dopo, all’assedio di un esercito romano
condotto da Massimino il Trace. (2)
Ma
insomma – vi chiederete – perché vai cianciando di cose capitate
venti secoli fa, che al più possono essere tema di discussione per
gli allievi di un’accademia militare?
Mi
spiego: non ho introdotto questo tema per celia o mancanza di
argomenti più attuali, e di certo non sono qui per proporvi
un’inutile recensione. Mi preme invece porre l’accento su una
certa tendenza a “generalizzare” che molti studiosi – forse
piccati per l’intrusione nella loro riserva di caccia – hanno
rimproverato al geniale professore di origine ebraico-rumena. In
effetti, che imperatori e comandanti militari romani si siano sempre
attenuti agli schemi descritti nel saggio è insostenibile: talora le
contingenze hanno il sopravvento, senza contare che il carattere del
condottiero e il livello, anche motivazionale, delle truppe giocano
ogni volta un ruolo attivo. Di quando in quando il caso si erge a
protagonista: contro i Goti Valente sbaglia politica piuttosto che
battaglia (3),
nella valle del Vipacco (394 d.C.) a scompaginare il piano avveduto
di Arbogaste ci pensa la bora (che sta soffiando rabbiosa anche
adesso).
In
linea di massima, però, la lettura
proposta da Luttwak è persuasiva, le tessere del puzzle si
incastrano nella quasi totalità – e se qualcuna resta fuori,
pazienza: la Storia è un racconto confuso, scritto da miliardi di
mani, piedi, interessi, ondate improvvise (il “vento divino” che
annienta la flotta di Qubilay Khan!) e semplici coincidenze (la morte
del predecessore Ogodai, nel 1241, salva un’Europa impotente
dall’incubo mongolo). Agli uomini non è dato determinarne gli
esiti, ma condizionarli sì, almeno nel breve-medio periodo: il
delirio tolstoiano su Napoleone quasi “trascinato” a Mosca dalla
marcia dei suoi soldati è appunto un
delirio, sono i personaggi
eccezionali, e assai più spesso le élite socioeconomiche a mettere
le briglie ai popoli, non viceversa.
Oggi
ci ammoniscono che sostenere una tesi siffatta – che cioè la
classe egemone può influenzare percezione e comportamenti di chi sta
sotto, imporre una direzione alla società, diffondere una visione e
una lettura degli eventi che l’avvantaggi – equivale a fare del
“complottismo”. “Le cose succedono perché succedono!”
Spergiurano, allargando le braccia, epigoni senza talento di Tolstoi,
i quali pretendono – con notevole successo di pubblico, grazie al
controllo di media fintamente dialettici – che ogni disgrazia, ogni
crisi sia frutto della casualità, o ben che vada della dabbenaggine
umana. L’austerità sta ammazzando Paesi interi (con l’eccezione
delle rispettive upper class)?
La colpa è di una sequela di errori di valutazione, tutti ovviamente
in buona fede… il che è come dire: abbiamo per leader dei
bamboccioni strapagati con lauree e master a ripetizione, ma così
deficienti che non hanno ancora compreso che 2+2 fa 4 anziché 3… e
che però si mettono il voto da soli, regalandosi ad ogni correzione
un promettente 7/8!
La
domanda giusta da porsi è: cosa c’è dietro questa apparente
demenza, questa coazione a ripetere invariabilmente a nostro danno?
Un “gombloddo” degno di salaci sberleffi? Nient’affatto: una
precisa strategia,
non troppo dissimile da quella intravista da Luttwak nella condotta
della classe dominante romana. Gli imperatori non “complottavano”
con i predecessori defunti: si attenevano a linee di comportamento
elaborate in passato e costantemente aggiornate, tese a garantire –
nei limiti del possibile – il fruttifero controllo di un ceto
sull’orbe. Ogni tanto si scannavano fra loro o sterminavano un
gruppo rivale, poteva addirittura avvenire che un’intera élite
finisse decapitata in battaglia (è il caso di Adrianopoli), ma
quella classe di patrizi prima honestiores
dopo restò saldamente in sella per svariati secoli, sacrificando
alla propria sicurezza e al proprio benessere quelli altrui.
Il
loro scopo era prosperare, accumulando e poi difendendo con rabbiosa
tenacia risorse strappate ai più deboli: come si vede in duemila
anni l’intento dei dominatori non è affatto mutato, benché oggi
gli strumenti di produzione siano straordinariamente più progrediti.
La “crisi” è un giudizio semidivino – ma di fattura umana –
che ha giustificato fino ad oggi lo spoglio dei beni comuni, del
welfare pubblico, dell’acqua e della terra (si considerino, a tal
proposito, il dramma dei nuovi senzatetto greci, in gran parte ex
ceto medio, e il germinare ovunque in Europa di pesanti meccanismi
impositivi sulla piccola proprietà fondiaria).
In
fin dei conti, il complotto altro non è che la versione
semplificata, ingenua e popolaresca di strategie troppo raffinate per
essere accessibili alle masse – che le cose stiano così ce lo
confessa involontariamente Luttwak nel suo libro, quando irride gli
storici di duemila fa che si fermavano alla superficie delle cose,
baloccandosi con orazioni e stereotipati giudizi morali.
Attenzione,
però: “La grande strategia dell’Impero Romano” non poté, tra
il quarto e il quinto secolo, impedire il rovinoso crollo dell’intera
impalcatura, per il semplice fatto che nulla, proprio nulla
è eterno… nemmeno il capitalismo,
che pure crede (o forse si illude) di avere i mezzi per spremere le
sue vittime fino all’ultima goccia di sangue e sudore.
NOTE
1
L’Autore giunge alla conclusione che, malgrado qualche occasionale
exploit (si pensi alle imprese di Cesare in Gallia e durante
il bellum civile), la marcia delle truppe appiedate era
generalmente lenta, e rispetto alle fonti antiche e contemporanee
effettua una stima al ribasso della velocità di spostamento per
terra e per mare (1-2 nodi). A queste condizioni una riserva
strategica acquartierata nei dintorni della capitale non avrebbe un
particolare valore militare (e infatti gli sparuti reparti
pretoriani avevano il compito di proteggere il sovrano da attentati
e sommosse). Luttwak sottolinea anche che l’apparente “perdita
di tempo” causata dalla giornaliera edificazione dei castra
rispondeva in realtà all’esigenza di assicurare un sonno
tranquillo ai legionari, con conseguente mantenimento di una buona
forma fisica.
2
Celebrato dagli storici più per l’eccelsa statura (2 metri) e la
forza erculea che per le doti di generale.
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