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domenica 20 novembre 2016

BOBO, I “COMUNISTI” E IL PIFFERAIO DI HAMELIN di Norberto Fragiacomo








BOBO, I “COMUNISTI” E IL PIFFERAIO DI HAMELIN

di

Norberto Fragiacomo



 Che tipo di pensieri passa per la testa di Bobo?

A giudicare dalle strisce che leggiucchio insofferente su L’Espresso, roba banale, stantia, concetti vacui che rassomigliano ad altrettanti slogan. Ma Bobo è questo, solo questo: un militante imbevuto di uno spettro d’ideologia, cui non importa un fico secco di apparire acuto, curioso e originale. Lui si contenta – si compiace – di essere fedele alla linea, ancorché curva, serpentinata, contorta. La linea, quale che sia, ovunque lo conduca.

Sergio Staino, l’autore, parla, giudica e urla come la sua creatura, anche se di quest’ultima gli difetta la bonarietà, l’aspetto pacioso: fisiognomicamente mi ispira schietta antipatia, per via dello sguardo miope, ma freddo, ostile, corrucciato. In televisione non fa una gran figura, mischiando scomuniche a corbellerie – perché ce lo mandano allora?

La risposta è semplice, disarmante: Bobo Staino parla al pancione del PD, grosso almeno quanto quello di un personaggio che, nei decenni, ha cambiato bandiera senza cambiare casacca. Sarei tentato di aggiungere: si è rincretinito senza invecchiare… ma probabilmente l’analisi è pietosa, perché anche quando stava dalla parte (per me) giusta, Bobo era lì per caso – per imprinting familiare, per disciplina di partito, per abitudine, per incapacità di guardare altrove.

Non so se valga lo stesso per Staino: lui non è certo un metalmeccanico, ha fatto carriera, arrivando persino a dirigere l’ombra di quella che fu L’Unità. Ha fatto carriera soprattutto negli ultimi anni, all’interno di una formazione che un marxista autentico non potrebbe che detestare: il PD sfacciatamente neoliberista di Matteo Renzi. Ci fa o ci è?, si direbbe in altre parti d’Italia. A parer mio “ci fa”, visto il tornaconto, ma la questione è in fondo priva di importanza: a tornare utili alla segreteria sono le sue plebee, sgangherate invettive, che arrivano dritte al cuore (allo stomaco? alla tessera?) di una fascia di elettorato difficile da conquistare a colpi di tweet.

Qualche giorno fa, ospite per l’ennesima volta di Lilli Gruber, il fumettista fiorentino ha rilanciato l’anatema: si inizia con Grillo e si finisce all’ombra della croce uncinata. Analisi da osteria, conclusioni da codice penale – eppure c’è del metodo in questo caricaturale dogmatismo. Ne ho conosciuti di piddini, vecchi e giovani, uomini e donne: una quota rilevante di loro assomiglia sul serio a Bobo. Per costoro il partito ha invariabilmente ragione, anche se con una svolta di 180 gradi abbandona il sentiero impervio della sinistra per ergersi a difensore degli interessi padronali (del grande padronato, soprattutto: quello sovranazionale); anche se dà via l’ideale dell’uguaglianza in cambio della paccottiglia dei diritti civili “a gratis”; anche se si consegna a una corte di bellimbusti e cheerleaders al cui confronto le soubrette berlusconiane parevano donne di Stato. L’importante è che sventoli un vessillo vagamente somigliante all’originale, almeno nelle tinte, che il pantheon non si svuoti (i blasfemi richiami a Gramsci), che echeggi qualche parola d’ordine orecchiabile. Che vi siano nemici da additare alle “masse”: sempre quelli, malgrado lo scorrere inesorabile dei decenni. Bobo il piddino, capofila di migliaia di improbabili “compagni”, è rimasto infatti al ’45, quando il Capitale era alleato della Stella Rossa, e gli avversari vestivano tutti la camicia nera (o bruna).

Facile persuadere gente simile che grillini, leghisti, sostenitori del NO ecc. si confondano tutti in una notte color orbace, e che di fronte a cotanta “minaccia” l’alleanza con padronato, finanzieri e plenipotenziari stile Monti rappresenti il male minore, se non addirittura un bene agrodolce.

E’ per suscitare questo riflesso pavloviano di ripulsa che il “compagno” Staino viene spedito in trasmissione: per tacciare di fascismo, dando in pasto a militanti insemenidi, chi sta infinitamente più a sinistra di lui e del suo capetto, e magari ha commesso l’imperdonabile colpa di esaminare a fondo una riforma che annichilisce la democrazia locale (Regioni, Province e Comuni, in barba alle svuotate enunciazioni degli articoli 5 e 114 della Carta) e altri provvedimenti-schifezza come lo Slaveries act renziano.

Lo Staino che parla alla pancia flaccida di un elettorato così ebete da immaginarsi comunista e sostenere col proprio voto politiche di destra è naturalmente soltanto una freccia, e manco la più appuntita fra quelle estratte dalla faretra dell’ultimo, onnipresente Renzi: insidie maggiori provengono dal ritorno dello Spread, arma micidiale e sperimentata, dalla retorica del cambiamento purchessia (anche passare dal proprio letto a un cartone sul marciapiede è un cambiamento: lo sperimenteremmo di buon grado?), dalle menzogne di media al guinzaglio che ripetono a disco rotto che i fautori del sì si occupano “del merito della riforma” mentre – per calcolo e comprovata inettitudine – fanno l’esatto contrario.

In ogni caso, non limitiamoci a guardare con commiserazione mista a scherno il fumettaro avanti con gli anni che, benedetto dall’alta finanza, rivendica pateticamente il suo essere “comunista”: fu la suggestionabilità di uomini e topi, non la di lui perizia artistica, a conferire potere al pifferaio di Hamelin.
Malgrado tutto, spero ardentemente che il 4 dicembre prevalga la pars valentior, e – nonostante i sondaggi, sinistramente a noi favorevoli – una slavina di NO zittisca gli squittii “riformatori”.



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