QUANDO IL DITO MOSTRA LA LUNA, LO
SCIOCCO GUARDA… DONNARUMMA!
di
Norberto
Fragiacomo
Gianluigi Donnarumma:
colpevole, innocente o… fortunatissimo capro espiatorio?
In un consesso umano fondato
su principi di ragionevolezza nessuno potrebbe scandalizzarsi per il fatto che
un diciottenne rifiuti un’offerta lavorativa da un milione di euro l’anno per
poi riceverne una da sei milioni (netti!): questo per l’intuibile motivo che la
sola idea di pagare simili spropositi a un giocatore di pallone sembrerebbe
comicamente folle a chiunque, e uno sghignazzo sommergerebbe chi ardisse
esplicitarla.
Da noi – cioè nell’Italia
prostrata da una crisi artificiale, ma sferzante – vicende come quella
sommariamente descritta avvengono, e quando i numeri sono così elevati (ma solo
allora!) suscitano un certo scalpore, specie nel deserto di notizie che è
l’estate. La domanda che mi pongo (che tutti dovremmo porci) è la seguente: ha
senso indignarsi per l’accaduto? La mia risposta è sì e no: prima ch’io la
motivi, però, reputo opportuno rimpolpare un po’ la smunta cronistoria
iniziale.
Alla vigilia degli Europei
U21 il nostro baldo giovane si vede proporre dal Milan – la società che l’ha
lanciato – un contratto da un milione di euro a stagione. Molti (e non alludo
solamente ai suoi coetanei) toccherebbero il cielo con un dito; ma lui,
consigliato dal suo agente, dice no. La ragione non è tenuta segreta: altri
grandi club, fra cui il mitico Real Madrid, sarebbero interessati ad
assicurarsi i servizi di “Gigio”, e per averlo sarebbero disposti a indecenze.
Soltanto un escamotage architettato dal procuratore per tirare su il
prezzo? Difficile crederlo: i bluff raramente valgono cinque milioni (in più).
Comunque il “gran rifiuto” fa infuriare i tifosi rossoneri, che accusano il
giocatore di ingratitudine ed inscenano una colorita protesta, con tanto di
lancio di banconote. Fin qui niente di strano: i tifosi sono tifosi, e
pretendere dal popolo delle curve un’analisi socioeconomica sarebbe eccessivo e
stravagante.
Che Donnarumma sia o meno
avido e ingrato è questione secondaria; il quesito che vorrei sottoporre a chi
legge è tutt’altro: quanto vale in questo tipo di società un lavoratore
con le sue specifiche caratteristiche? E’ evidente che tirare in ballo il
fungibile operaio marxiano e il concetto di mantenimento della forza lavoro
risulta poco utile e conduce a un vicolo cieco: malgrado certe papere
all’Europeo suggeriscano il contrario, “Gigio” è oggi un prestatore quasi
infungibile, nel senso che la merce che egli porta al mercato presenta pregi
particolari. In una società capitalistica che assegna grande importanza all’entertainment
il giovanotto coi guantoni viene coperto d’oro perché è lui stesso una miniera
di quel metallo. Intendiamoci: non sono le future parate a valere quelle cifre,
anche se avere a disposizione un ottimo portiere, per di più giovanissimo, anziché
uno mediocre può garantire a una società ambiziosa un maggior numero di
vittorie in campionato e in Champion’s – vale a dire tantissimi soldi in più
nell’arco di parecchi anni. Col passare dei lustri, però, il calciatore è
diventato sempre meno atleta e sempre più uomo immagine: oggi le imprese
sportive traggono i guadagni più cospicui dal merchandising, la pubblicità e i
diritti televisivi. C’è anche un altro elemento di cui tener conto: un
giocatore svincolato può essere preso gratis dalla concorrenza, uno sotto
contratto fa fruttare alla società, in caso di cessione, cifre stratosferiche
(avete presente certe clausole rescissorie?).
Se le cose stanno così,
tocca concludere che il compenso preteso da Donnarumma è commisurato al suo
valore di mercato qui e ora: la riprova ci viene dal fatto che il Milan, che
non è propriamente un ente benefico, ha sestuplicato la sua offerta iniziale
pur di trattenerlo. In un’ottica puramente economica era stata la società
inizialmente a “giocare sporco”, approfittando dell’immaturità del portiere per
assicurarsi un indebito arricchimento (estorcere plusvalore?) a sue spese.
Quindi, dall’angolo visuale di entrambi gli attori della controversia, “il
prezzo è giusto”.
Leggo e sento però che i sei
milioni suscitano scandalo vero: prima di aver compiuto vent’anni il nostro
numero uno avrà già guadagnato assai più di quanto un medio dirigente e un
brillante avvocato riescano a mettere insieme in un’intera esistenza
lavorativa. Dal punto di vista etico-morale siamo di fronte a un abominio, ma
ha senso prendersela col portiere (e aggiungo fra parentesi: ha senso tirare in
ballo la morale se si accetta un ordine che da essa prescinde)? Evidentemente no:
la differenza di cinque milioni (soldi privati, non pubblici) sarebbe
altrimenti finita nelle tasche di qualche giocatore più scafato o in quelle
capaci della società, di sicuro non sarebbe stata distribuita tra i
disoccupati! La colpa è del Milan, allora… neanche, perché il Milan è una
società commerciale che punta al profitto, e deve misurarsi con concorrenti non
meno spietati e in certi casi con superiori risorse a disposizione.
E allora? E allora dobbiamo
smetterla di inveire come allocchi contro il dito che si sforza di indicare la
luna. A venirci in aiuto, badate bene, è stato lo stesso Gigio Donnarumma che –
con gesto inconsapevolmente rivoluzionario - ha deciso, vinto il braccio
di ferro milionario, di disertare l’esame di maturità per andarsene in vacanza
a Ibiza. Gli insegnanti che oggi gridano al sacrilegio e pateticamente
incriminano lo sportivo per “lesa cultura” mi sembrano grottesche caricature di
don Chisciotte che però, anziché assaltarli, si dispongono a difesa dei mulini
a vento snudando i loro spadini di latta. Perché sostengo questo? Mi spiego. Innanzitutto
è improbabile che il nostro Topo Gigio sia un fuoriclasse anche sui banchi di
scuola (di solito i calciatori sono asini che tirano bei calci, e l’espressione
del campano non è delle più vivaci…), ma la questione fondamentale è un’altra:
quali motivazioni potevano spingerlo a impegnarsi per superare l’esame? In
ipotesi, una soltanto: l’amor proprio, visto che nessun pezzo di carta
ha la proprietà taumaturgica di accrescere le conoscenze di un umano. Quel che (non)
sapeva ieri (non) lo saprà (ne)anche domani, indipendentemente dalla stampa di
un diplomino e da un voto espresso in centesimi. Grazie ai test a crocette,
all’alternanza scuola-lavoro e ad altre “corbellerie” introdotte non casualmente,
le odierne superiori – che oltretutto han cambiato nome – non assomigliano a
quelle di trent’anni fa: sono sempre più un corso di addestramento per futuri
precari e sempre meno un luogo dove si apprendono nozioni anzitutto teoriche,
vale a dire una scuola in senso proprio. Quest’evoluzione risponde alla logica
capitalista: il sistema abbisogna di una base di sudditi-consumatori docili e
suggestionabili, non di persone dotate di senso critico, che potrebbero mettere
in discussione gli stessi postulati su cui esso si fonda. Non è che nel mondo
attuale la cultura non sia una merce: semplicemente è una merce di poco
o nessun valore – pertanto l’uomo acculturato ma non utilmente impiegabile (ad
esempio come intellettuale organico o giornalista di regime) ha poco o niente
da portare al famoso mercato, dove riceverà elemosine e sberleffi. In un’ecumene
nella quale un laureato a pieni voti deve rassegnarsi alla precarietà e a
lavoretti umilianti e sottopagati e ove tutto si misura in termini di
produttività e attitudine a creare profitto, il diploma di laurea – e, a
maggior ragione, quello dell’ex scuola superiore – ha un valore pari a quello
delle banconote del Monopoli, cioè a zero. Dal momento che tutto poggia
su questa struttura, manco vi sono vie di fuga – a meno che uno non
scriva/realizzi un’opera commercialmente appetibile o, all’inverso, si appaghi
di recitare le proprie poesie davanti a un pubblico di appassionati.
Snobbando l’esame Gianluigi
Donnarumma ci ha ammonito, senza neppure rendersene conto, che la matura non
serve né significa nulla, nella società capitalista di inizio millennio.
Dovremmo essergliene grati invece di rampognarlo, perché il gesto costringe a
riflettere, e la riflessione, inquadrando la vicenda in una cornice più ampia,
svela che questi presunti “eccessi” non sono una patologia, ma il suo sintomo
o, al più, i corollari di un’organizzazione sociale che manco prende in
considerazione valori che non siano immediatamente monetizzabili.
Donnarumma non ha colpe
oggettive, perché si è limitato a profittare di una situazione favorevole
determinata da altri; al limite, neppure l’ingordigia è rimproverabile, perché
in un sistema come l’attuale è più una qualità, una modalità di adattamento,
che un difetto.
Dunque non dovremmo
indignarci? Certo che dovremmo e dobbiamo, ma sottraendoci alla logica
truffaldina del capro espiatorio. Protagonista di questa squallida storia non è
un giovane portiere o una società di calcio, ma il Capitalismo medesimo, che
regala effimere ricchezze e genera enormi, diffuse miserie – manco per
“cattiveria”: perché non sa né può fare altrimenti.
Chi non è disposto ad
adoperarsi fattivamente affinché mutino in maniera radicale le regole della
produzione e del vivere sociale non venga poi a lanciare strali e a stracciarsi
le vesti perché un diciottenne dal vocabolario limitato guadagna duecento volte
più di un laureato in legge o in economia: l’odierno “panmercatismo” è questo,
amici, prendere o lasciare!
Grazie per l'articolo. Analisi impeccabile!
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