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venerdì 1 luglio 2011

La manovra finanziaria da 47 miliardi: alcuni appunti, di Riccardo Achilli



In questo breve articolo, si analizzano alcuni dei tratti salienti della manovra finanziaria da 47 miliardi di euro di maggiori entrate e minori spese che il Governo si appresta a definire in questi giorni. L’intento è quello di dimostrare la natura socialmente regressiva di questa manovra, i suoi obiettivi etero-diretti (ovvero stabiliti dai mercati finanziari internazionali, desiderosi soltanto di rientrare rapidamente dalla loro esposizione con il debito pubblico italiano, anche se ciò significa una disastro sociale senza possibilità di risanare in modo strutturale i conti pubblici italiani) a cui sia la Commissione Europea che il nostro Governo sono asserviti. Si evidenzierà quindi come tale manovra finanziaria sia nata, e si sia formata nei suoi contenuti, in un modo del tutto analogo a quanto già fatto per la Grecia. E come, quindi, gli esiti (recessione economica, disastro sociale, ulteriore peggioramento dei conti pubblici, fino al limite del default) non potranno che essere gli stessi della Grecia, che stiamo osservando in questi giorni.

La manovra sulle entrate

E’ ancora prematuro parlare degli effetti tecnici legati alla manovra da 47 miliardi che il Governo si appresta a varare, perché siamo ancora in una fase di progettazione della manovra stessa. Alcune cose però già si possono anticipare. Spezzone importante della manovra è costituito dalla riforma fiscale, che si basa su due assi: la riduzione delle aliquote Irpef, dalle cinque attuali, a solo tre (20%, 30% e 40%) e l’incremento del gettito dell’IVA, aumentando soprattutto le attuali aliquote agevolate.
Vediamo nel dettaglio i singoli interventi, iniziando dall’Irpef. Benché la definizione degli scaglioni di reddito cui applicare le tre nuove aliquote sia rinviata a un successivo decreto attuativo, è chiaro che questa manovra è improntata all'obiettivo di far pagare meno tasse ai redditi medio-alti (infatti l'aliquota massima, oggi, è del 43%, domani sarebbe del 40%). Inoltre, il passaggio da cinque a tre aliquote riduce la natura progressiva del tributo, perché gli scaglioni di reddito che oggi sono sottoposti a tre aliquote (23%, 27% e 38%) domani saranno sottoposti solo a due (20% e 30%). Ciò determina una invarianza di pressione fiscale per redditi che vanno da 15.000 a 55.000 euro (assumendo gli scaglioni di reddito attuali), mentre oggi tali fasce di reddito subiscono pressioni fiscali differenziate, in funzione della loro diversa entità. Di fatto, quindi, riducendosi la natura progressiva dell’imposta sui redditi, viene a ridursi anche l’effetto redistributivo della stessa, con la conseguenza che aumenteranno i divari di ricchezza netta fra titolari di redditi basi e titolari di redditi medio-alti. In sostanza, una “sud-americanizzazione” della società italiana!
Parallelamente, l'incremento dell'IVA (che sarà concentrato soprattutto sui beni sottoposti ad IVA agevolata, generalmente di prima necessità, come carne, pesce, latte, uova, ortaggi e legumi, zucchero, farina, frutta, acqua minerale, ecc.) sposta il carico fiscale dai redditi ai consumi, ed in particolare ai consumi primari. Percentualmente, poiché i consumi primari sono quelli che incidono di più nel paniere dei più poveri, saranno soprattutto questi ultimi, in termini di incidenza relativa, a subire l’onere maggiore dell’incremento del gettito dell’IVA.
In sostanza, quindi, la riforma fiscale prevista dal Governo è connotata da un carattere fortemente regressivo, atto a ridurre la pressione fiscale (intesa come incidenza percentuale dell’imposta sul reddito lordo del contribuente) sui redditi medio-alti, spostandola su quelli medio-bassi. L'assetto è coerente con le teorie neoliberiste di Arthur Laffer, il “guru”, negli anni ’80, della riforma fiscale di Reagan, che credeva che un abbassamento del carico fiscale sui redditi medio-alti (ovvero quelli generalmente prodotti dagli imprenditori e dai professionisti) stimolasse la crescita del PIL, e anche, al contempo, producesse un miglioramento, nel medio periodo, del saldo del bilancio pubblico, tramite l’incremento di gettito derivante dalla crescita del PIL stesso, e da un recupero di evasione fiscale (l’idea sottesa era che, con una pressione fiscale alleggerita, si creasse un incentivo a non evadere le imposte). I risultati di questo modello si sono visti con l'amministrazione Reagan: enorme esplosione del debito pubblico, impennatosi dai 909 milioni di dollari del 1980 ai 2.868 milioni nel 1989, ovvero dal 7,2% al 12,5% del PIL. Ciò perché non è vero che la minore tassazione sui redditi medio-alti implichi automaticamente una maggiore propensione ad investire ed allargare la base produttiva, se, come avviene nell’attuale fase di recessione, non vi sono i mercati di consumo in grado di assorbire l'incremento della produzione. Inoltre, la minore tassazione non induce automaticamente un recupero di evasione, dipendente soprattutto da modelli culturali e civili, e non da incentivi fiscali. Anzi, con la parziale sanatoria delle liti fiscali fino a 20.000 euro di importo introdotta dalla manovra, viene incentivata, perché le sanatorie hanno sempre l'effetto di incentivare comportamenti opportunistici ed illeciti.
Ulteriore effetto di tale politica fiscale reaganiana, che Tremonti mostra di apprezzare (o piuttosto è costretto ad apprezzare) è il devastante allargamento della forbice delle diseguaglianze distributive. L’Ocse certifica, infatti, un progressivo incremento delle diseguaglianze economiche nella società italiana (con un indice del Gini, il parametro generalmente utilizzato per misurare la sperequazione nella distribuzione del reddito, e che è tanto più elevato quanto più alta è la diseguaglianza distributiva, che cresce di 0,4 punti fra la metà degli anni Ottanta e la fine degli anni 2000, mentre tale crescita, per l’area Ocse, è limitata a 0,3 punti, ed in alcuni Paesi, come la Spagna, l’Irlanda o la Grecia, l’indice in questione si riduce, segnalando quindi una diminuzione delle sperequazioni).

La manovra sulle spese

La manovra fiscale rafforzerà tale processo di ampliamento delle diseguaglianze, così come anche la manovra sulla spesa pubblica, che assume chiari contorni regressivi: aumento vertiginoso dei ticket sanitari, taglio con la mannaia dei residui trasferimenti statali agli enti locali (quantificabile in 9,6 miliardi), che si aggiungono ai 14,8 miliardi tagliati e "fiscalizzati", ovvero sottoposti alla futura autonomia fiscale degli enti locali, con il d. lgs. 78/2010.
In quest’ultimo caso, si tratta di una manovra legata all'introduzione del federalismo fiscale, sui cui effetti iniqui, specie per le regioni meridionali a minor base contributiva, e che hanno subito i tagli maggiori dei trasferimenti statali, occorrerebbe un'analisi a parte. Basti rammentare, in questa sede, l’annullamento de facto dei trasferimenti statali alle regioni, su settori strategici, quali la sanità (su questa sola voce, con la manovra del 2010 le regioni perdono 183 Meuro di trasferimenti, nonché altri 559 Meuro sull’edilizia sanitaria), le opere pubbliche (-544 Meuro), le politiche sociali (-371 Meuro), l’ambiente (-274 Meuro), le politiche per il lavoro (-111 Meuro). A tali tagli, riferiti al 2010, occorre aggiungere gli ulteriori 2,4 miliardi di minori trasferimenti previsti dalla manovra 2011. L’abolizione di quasi tutti i trasferimenti statali, sostituiti con la fiscalità locale, come previsto dal federalismo fiscale, imporrà alle regioni a minore base contributiva (essenzialmente quelle meridionali) di portare le addizionali all’Irpef ai livelli massimi previsti dai decreti attuativi del federalismo fiscale, nonché di tagliare con la mannaia le prestazioni erogate in materie fondamentali per i cittadini. Infatti, il meccanismo perequativo previsto per le regioni a minor capacità fiscale coprirà il 100% del costo dei soli servizi essenziali (sanità, assistenza domiciliare integrata, erogazione di acqua, servizi per l’infanzia, raccolta differenziata dei rifiuti, in parte i trasporti pubblici locali). Per il resto delle materie di competenza degli enti locali, ed in particolare le politiche del lavoro, l’infrastrutturazione del territorio, le politiche ambientali, l’edilizia popolare, le politiche contro la disabilità o di contrasto alla povertà, gli interventi per la famiglia, la perequazione sarà solo parziale, ed inevitabilmente le regioni e i comuni a minor capacità fiscale del Mezzogiorno dovranno tagliare i livelli di prestazioni, ai danni delle fasce sociali più deboli.
Accanto al taglio dei trasferimenti agli enti locali, il grosso del risparmio sui costi verrà ottenuto tramite un’ulteriore riforma restrittiva del settore previdenziale. In tale contesto, il colmo dell’iniquità risiede nella previsione di agganciare, a partire dal 2014, l’età di pensionamento alla speranza di vita media, e non più ad un’età-limite. Con la conseguenza che la possibilità di andare in pensione non dipenderà più dallo status soggettivo (avere una certa età) ma da un valore medio desunto da una statistica! Di fatto, per i lavoratori giovani, l’ipotesi di poter arrivare alla pensione, con questo meccanismo, è diventata pressoché irrealistica. Infatti, quando questi giovani arriveranno a 65 anni di età, la speranza di vita media sarà cresciuta al punto tale da rendere l’età di pensionamento per vecchiaia talmente avanzata da innalzare su livelli socialmente insostenibili il rapporto fra anni di vita destinati all’attività lavorativa ed anni di vita destinati alla quiescenza.
Poi naturalmente le misure "compensative" che la manovra prevede (ovverosia i sacrifici che non sono destinati ai comuni cittadini) sono poco più che acqua fresca. A partire da una riduzione minima degli stipendi dei politici, che comunque incide pochissimo sul bilancio, ed è quindi più che altro un provvedimento demagogico, alla vera e propria presa in giro della tassazione al 35% dei titoli finanziari gestiti o intermediati dalle banche. Intanto, si escludono obbligazioni, titoli di Stato e quote dei fondi di investimento, cioè il grosso dei portafogli titoli detenuti dalle banche. Poi l'incremento di tassazione, rispetto al regime precedente, è di soli 3,3 punti, perché tra Ires ed Irap tali attività erano tassate al 31,7%. Infine, oggetto della tassazione aggiuntiva è solo la differenza positiva fra valore ad inizio esercizio e valore a fine esercizio, oppure l'eventuale plusvalenza da vendita, del titolo. Con mercati finanziari ancora depressi, è improbabile che si verificheranno incrementi di valore tali da generare una rilevante pressione fiscale sulle banche. Nonostante ciò, Il Sole 24 Ore è pieno di piagnistei da parte degli operatori bancari e finanziari e delle loro associazioni di categoria, ma non raccoglie certo i lamenti del cittadino, che è il vero tartassato di questa manovra.

I risultati plausibili

Quindi, tramite tale manovra si genera più ingiustizia sociale, ma anche più povertà economica. Naturalmente, poiché è noto che gli strati inferiori di reddito hanno una propensione media al consumo maggiore rispetto agli strati superiori, un impoverimento di chi è già meno ricco, come quello che questa manovra impone, significa minori consumi, minore crescita, quindi minore gettito fiscale, quindi l'impossibilità di raggiungere gli obiettivi di risanamento delle finanze pubbliche. Il nostro Governo, con la complicità di Napolitano e dell'opposizione, ci sta quindi facendo avvitare in una prospettiva "greca": recessione, impoverimento e ulteriore peggioramento dei conti pubblici, fino al rischio di default. Sarebbe il caso di ricordare i risultati sin qui ottenuti dalla Grecia con siffatte politiche: mentre l’area-euro, nel 2010, è entrata in ripresa, con una crescita dell1,8%, ed una previsione di crescita dell’1,6% per il 2011, il PIL greco del 2010 è diminuito, per il secondo anno consecutivo, con una riduzione del 4,5%, ed anche per il 2011 dovrebbe scendere di un ulteriore 3,5%. In conclusione, mentre a livello di area-Euro la recessione porterà ad una diminuzione complessiva del PIL dello 0,7% nel periodo 2009-2011, nel medesimo periodo, grazie all’indovinato, democratico e generoso piano di salvataggio imposto da FMI e UE, il PIL greco sarà tracollato del 10%, un calo in grado di portare rapidamente la Grecia da una condizione di Paese del primo mondo a quella di economia in via di sviluppo. Infatti, con tale riduzione, nel 2012 il Pil pro capite greco, (il Pil pro capite è, grosso modo, una stima del valore della ricchezza mediamente a disposizione degli individui per consumi o risparmio; e fino al 2008 quello greco era il 28-mo più alto del mondo) non sarà molto lontano da quello delle Bahamas (con una differenza di ricchezza media mensile pari a circa 130 euro fra il cittadino greco e quello delle Bahamas). Il tasso di disoccupazione è passato dal 7,7% del 2008 al 12,6% del 2010, e dovrebbe arrivare al 15% a fine 2011. Ma se si conteggiano anche i lavoratori scoraggiati, il vero tasso di disoccupazione è già nell’intorno del 20%.
Naturalmente, poiché le finanze pubbliche sono endogene alla crescita economica, l’obiettivo di questa cura ammazza-cavallo, che è il riequilibrio delle finanze pubbliche del Paese, è già ampiamente fallito. Sul fronte del rapporto fra debito pubblico e PIL, quello greco si conferma il più alto d'Europa, passando dal 127,1% del 2009 al 142,8% del 2010, con una previsione del 157,7% del 2011. E nel 2012 salirà ancora al 166,1%. Con un rapporto deficit/PIL stabile: al 10,5% nel 2010 (cfr. R. Achilli, “Quando Ue e FMI Salvano Gli Investitori Ai Danni Dei Popoli: Il Caso Greco”, su http://bentornatabandierarossa.blogspot.com/2011/05/quando-ue-e-fmi-salvano-gli-investitori_21.html).
Non è un caso, infatti, se questa manovra sia stata anticipata, e resa ancora più salata, dall’azione combinata delle nuove regole del patto di stabilità europeo (le stesse che si applicano alla Grecia) che impongono il pareggio di bilancio entro il 2014 (lo stesso concetto di pareggio di bilancio è un’assurdità in una fase di crescita pressoché stagnante, perché si traduce in una sottrazione netta di risorse per la crescita; il pareggio di bilancio non esercita effetti depressivi solo se la crescita è dinamica) e una riduzione del debito pubblico per quote costanti e predeterminate e dall’intervento di Moody’s, che ha minacciato la riduzione del rating del debito sovrano italiano (esattamente come fecero le agenzie di rating, qualche settimana fa, con la Grecia, al fine di spronare il Governo greco a varare una nuova, pesante manovra finanziaria). Quindi, come si vede, la Commissione Europea opera da agente degli interessi dei mercati finanziari, pesantemente esposti con i titoli del debito pubblico delle economie PIIGS, in stretto raccordo con le agenzie di rating. I Governi, impotenti e deboli, obbediscono e provvedono.
Il segno più tangibile dell’impotenza del Governo Berlusconi di fronte a continue manovre finanziarie restrittive ed impopolari risiede nel fastidio con cui Berlusconi stesso riceve tali provvedimenti, elaborati da Tremonti (che è il vero agente italiano degli interessi dei mercati finanziari globali), senza però poterli modificare (nonostante il fatto che Berlusconi sia il presidente del consiglio, e Tremonti un semplice ministro). Con la manovra del 2010, si arrivò al punto di una vera e propria minaccia di licenziamento di Tremonti, che però si risolse in un nulla di fatto. Con la manovra del 2011, si è aperta una vera e propria spaccatura all’interno del Pdl, con il responsabile economico di quel partito, Crosetto, che ha dichiarato Tremonti “un caso psichiatrico”, e notevoli mugugni della Lega, specie sul versante del giro di vite sulla previdenza. Nonostante ciò, ancora una volta, la manovra sta per essere approvata sostanzialmente senza modifiche rispetto al progetto di Tremonti. E’ un segnale inequivocabile del fatto che la politica economica nazionale non è più diretta dalle istituzioni del nostro Paese, commissariate dai mercati finanziari e dalla Commissione Europea.
In sostanza, quindi, ciò che si va profilando tramite una manovra finanziaria recessiva, iniqua e meramente contabile è uno scenario “ellenico”: nuova caduta in recessione dell’economia (o nel migliore dei casi, prolungata stagnazione della crescita), impoverimento di ampie fasce della popolazione, ulteriore deterioramento degli assetti di finanza pubblica. D’altra parte, gli attori del processo sono gli stessi della Grecia: mercati finanziari bramosi di recuperare i loro crediti da Paesi iper-indebitati, che utilizzano le agenzie di rating da loro dipendenti come armi, e Governi (sia a livello europeo che nazionale) sottomessi a tali esigenze.

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