di Giuseppe Angiuli
Caracas: centro propulsore continentale dell’integrazione latino-americana e capitale mondiale del cosiddetto “Socialismo del XXI° secolo”.
Comunque
la si pensi, un viaggio in Venezuela di questi tempi è un’esperienza
che lascia impressioni indelebili giacché, fin dallo sbarco
all’aeroporto internazionale “Simon Bolìvar” e percorrendo le
affollatissime strade che conducono al centro cittadino, si ha la netta
impressione di trovarsi in un posto alquanto speciale.
Sulle ripide colline che costellano la vasta area urbana di Caracas si abbarbicano i barrios,
popolatissimi quartieri che raccolgono il sottoproletariato rimasto ai
margini della società per decenni ed a cui il governo chavista ha per la
prima volta riconosciuto un bagaglio di diritti minimi: espulsi dalle
campagne, dove la manodopera disponibile è storicamente in eccedenza
rispetto alla domanda di lavoro, milioni di persone indigenti hanno
costruito case di fortuna che sfidano la legge di gravità e creano dei
cumuli che somigliano, visti a distanza, ai nostri presepi natalizi.
23 de Jenero, Catia, Petare:
questi sobborghi brulicanti di case, di uomini, donne e soprattutto di
bambini, costituiscono la vera linfa vitale del processo rivoluzionario
inaugurato dal Presidente Chávez.
Il mio amico Gabriel,
per il cui matrimonio siamo accorsi in Venezuela, ci spiega che durante
il colpo di Stato supportato da George W. Bush nell’aprile del 2002, con
il quale una componente reazionaria dell’esercito venezuelano provò a
mettere da parte l’esperienza bolivariana, migliaia di persone si misero
in marcia spontaneamente da questi barrios, raggiungendo rapidamente il Palazzo Presidenziale Miraflores
dove reclamarono a gran voce il rientro del loro legittimo Presidente:
Hugo Chávez, anche grazie alla decisiva presa di posizione in suo favore
di alcuni maggiorenti dell’esercito, riuscì così a rientrare in sella
nel giro di 48 ore, in quella che finora viene ritenuta la prima
esperienza di colpo di Stato fermato da un moto popolare (1).
I
primi di dicembre del 2011 la capitale venezuelana ha dato il battesimo
ad una nuova organizzazione intergovernativa a carattere regionale,
sorta con la finalità di dare finalmente un corpo istituzionale
all’integrazione dei Paesi latino-americani: la CELAC (Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños).
La
nascita dell’organismo (a cui aderiscono 33 Paesi situati a sud del Rìo
Bravo, dal Messico fino all’Argentina, con la inedita esclusione degli
U.S.A. e la significativa inclusione di Cuba) costituisce un evidente
successo politico per il Presidente Chávez, nella cui mente la CELAC
costituirà d’ora in poi un gran polo di potere regionale, realizzazione
del sogno di un’unica Patria grande già coltivato da Simon Bolìvar e dal Che Guevara, punto di arrivo dopo 200 anni di battaglia per sottrarsi alla dottrina Monroe imposta da Washington (2).
Uno
dei primi aspetti che si colgono in un viaggio in America Latina è che,
da quelle parti, il latifondo e l’allevamento estensivo di bestiame,
praticati dalle più potenti famiglie oligarchiche di origine bianca ed
indo-europea, richiedono da sempre poche braccia per l’agricoltura e al
contempo sottraggono tanta terra preziosa alla coltivazione di prodotti
alimentari decisivi per il sostentamento della popolazione: in
quest’ambito il chavismo è intervenuto in misura pesante, con una
radicale riforma agraria che punta ad espropriare tutti i terreni
privati eccedenti un certo limite dimensionale e che risultano non
coltivati o improduttivi.
Nonostante il clima politico
generalmente favorevole ai piccoli contadini, il mio amico Diego mi
riferisce che anche nelle immense campagne venezuelane (sebbene in
misura molto inferiore a quanto quotidianamente accade nella vicina
Colombia, ultimo bastione geopolitico degli U.S.A. nella regione) si
segnalano molti omicidi di campesinos aspiranti alla distribuzione di un piccolo fazzoletto di terra.
Ma
è nell’ambito della gestione dell’immensa ricchezza petrolifera che
Hugo Chávez ha impresso la svolta più significativa al Paese.
La completa nazionalizzazione dell’oro nero ha aperto al Venezuela due grandi risorse.
In primo luogo, le ha consentito di inaugurare la stagione della “diplomazia del greggio”,
usando il petrolio quale mezzo alquanto persuasivo per ingraziarsi
l’amicizia ed il sostegno politico di diversi Paesi viciniori, con
alcuni dei quali si è cementata l’integrazione economica mediante la
creazione dell’ALBA, un’area di scambio alternativa alla tradizionale zona di cosiddetto “libero commercio” (ALCA) da sempre egemonizzata da Washington.
Sotto
un altro profilo, il controllo pubblico sulle entrate del greggio ha
permesso in quest’ultimo decennio di “socializzare i profitti” della
vendita del petrolio, reinvestendoli in immense campagne governative
(definite Misiones) che hanno regalato a milioni tra i più
poveri ed emarginati del Paese ciò che essi non avevano mai avuto in
passato: assistenza sanitaria gratuita nei quartieri popolari delle
città (Misiòn Barrio adentro), con il decisivo apporto
professionale di personale sanitario cubano; alfabetizzazione di massa
estesa anche alle periferie più estreme del Paese (Misiòn Robinson); da ultimo, proprio nei giorni di quest’ultimo Natale si è inaugurata la Misión Niños y Niñas del Barrio, finalizzata a sottrarre i bambini dalla devianza minorile di strada attraverso un programma sociale di recupero.
La
mia amica Melys ci invita orgogliosamente a visitare il progetto di
recupero minorile di cui lei stessa è responsabile all’interno del
Municipio di Petare, uno dei luoghi a più alto tasso di
violenza e omicidi di tutto il Paese (se non dell’intero subcontinente).
Ma sono in tanti a sconsigliarci di fare ingresso all’interno del barrio, che sarebbe troppo pericoloso per dei gringos di pelle bianca come noialtri, perfino in orari diurni.
Rinunciamo
all’invito, anche per mancanza di tempo, ma non senza avere compreso un
aspetto causale poco conosciuto inerente la genesi di un certo tipo di
violenza di strada a Caracas: è più di uno ad informarmi del fatto che
all’interno del pericolosissimo barrio di Petare si sono
infiltrate delle cellule organizzate di paramilitari colombiani i quali
da tempo svolgono una lenta ma costante azione di destabilizzazione del
Venezuela, spesso fomentando disordini e microcriminalità e non
rinunciando al controllo dei flussi di cocaina (abbondantemente prodotta
nel loro Paese d’origine, a dispetto del tanto sbandierato Plan Colombia Made in U.S.A.).
Riusciamo
a conoscere anche Mariana, dentista venezuelana moglie di Antonio
(docente e intellettuale creativo emigrato dall’Italia) la quale ha
scelto per vocazione di operare proprio all’interno di Petare, praticando tariffe calmierate a beneficio della sua clientela di estrazione sottoproletaria che abita il barrio.
“Nonostante sia stata aggredita già 2 volte all’interno del mio studio dentistico – ci confida Mariana, la quale comunque vive in una graziosa zona residenziale di Caracas - traggo quotidianamente gratificazione, nel mio lavoro, dal rapporto con la gente umile del quartiere”.
In
fondo il Venezuela socialista e bolivariano di oggi è soprattutto
questo: una terra dove si tenta di colmare rapidamente le immense
differenze sociali formatesi in decenni di ricette neo-liberiste.
Alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, i locali discepoli del “gran sacerdote”
Milton Friedman (tra i quali si segnalava l’allora Ministro
dell’Industria Moisès Naìm, spesso ospitato sulle colonne del
settimanale italico pseudo-progressista l’Espresso, bibbia della nostra borghesia de sinistra)
avevano appena finito di privatizzare tutto ciò che c’era da
privatizzare in Venezuela, con la consueta egida del F.M.I., quando tra
le strade di Caracas scoppiò il finimondo: la rivolta del Caracazo,
nel 1989, fece centinaia di morti tra la popolazione civile che,
esasperata dal costo della vita divenuto insostenibile, prese d’assalto
banche e supermercati, un po’ come avrebbero fatto poco più di un
decennio dopo, per cause analoghe, gli abitanti di Buenos Aires
all’insegna del motto “que se vayan todos!”.
Non
tutti i settori della società venezuelana hanno accettato di buon grado
l’avvento del socialismo bolivariano a conduzione chavista: i gruppi
sociali che, prima dell’avvento di Chávez si collocavano nei piani alti
della piramide sociale, non hanno perdonato al Governo la pesante
ingerenza nei loro affari, dalla inedita imposizione fiscale (prima
quasi del tutto assente nel Paese) ai penetranti controlli sulla
regolarità del lavoro subordinato.
A tal proposito, mi ha colpito non poco scoprire che in Venezuela, quando gli ispettori del lavoro “fanno visita”
ad un esercizio commerciale riscontrandovi delle irregolarità fiscali o
contributive, sono autorizzati dalla legge ad apporre una specie di
cartello con funzione di marchio d’infamia sulla porta d’ingresso del negozio, a beneficio informativo della clientela.
Il
punto più critico dell’azione governativa, denunciato con particolare
intensità dalla comunità di emigrati italiani presente in Venezuela, è
quello degli espropri di alcune aziende.
Il socialismo chavista
riconosce il diritto alla proprietà privata e permette piena libertà
alla piccola iniziativa d’impresa ma interviene incisivamente
sull’accumulazione di capitale medio-grande con azioni mirate di
esproprio per pubblica utilità, in particolare contro le fabbriche e gli
stabilimenti ritenuti fermi o improduttivi. Un imprenditore di origini
italiane stabilitosi a Maracay non ci nasconde che per lui, se Chávez dovesse vincere anche le prossime elezioni previste per la fine del
2012, sarebbe preferibile spostare la sua azienda in Brasile, Paese
ritenuto più sicuro per gli investitori privati.
La verità è che
le azioni di esproprio sono spesso dirette da ambienti militari, nei
quali può annidarsi un tendenziale arbitrio che a volte collima con una
propensione endemica alla corruzione, costume ahimè molto diffuso a
queste latitudini.
Un Paese in cui si percepiscono
sentimenti contrastanti, quindi, il Venezuela, ma davvero molto lontano
dall’immagine rozza, falsa e caricaturale fornita dai mass media
italiani ed europei, che per descrivere il Paese sudamericano sono
spesso soliti ricorrere impunemente all’epiteto diffamante (oltreché
fuorviante) di “dittatura”.
Nel quartiere coloniale di El Hatillo,
sito alla periferia di Caracas, sono tutti benestanti e di indole
anti-chavista. Il titolare di un bar-paninoteca sfoga senza remore il
suo sentimento ostile al governo: “Lavoravo nella grande azienda petrolifera statale (la PdVSA, n.d.r.) ma
quando c’è stata la serrata che paralizzò per diversi mesi il Paese
(3), alla quale aderii, sono stato licenziato. Tuttavia adesso ho una
mia impresa che fattura l’equivalente di circa 600 dollari al giorno”.
Se di “dittatura” si tratta - mi viene subito da pensare - è una dittatura alquanto liberal, visto che il
chavismo ben permette ad un dissidente epurato dalla più importante
azienda di Stato di aprire un’attività ricettiva in un elegante
quartiere della capitale, con un fatturato niente male!
Negli
ambienti vicini a Chávez, viceversa, si respira un’atmosfera di
elettrizzante e contagioso entusiasmo che la recente malattia del
Presidente ha finito per rinvigorire, anziché abbattere: per tutta la
capitale si leggono scritte e murales che augurano una pronta guarigione al Presidente con l’incitamento “Pa’ lante, Comandante” (Avanti, comandante)!
Tra
gli intellettuali ed i giovani chavisti, il fermento è palpabile: a
Caracas si lavora sul cinema, sulla cultura, sulle iniziative che
valorizzino le identità indigene ancestrali ed anche sulla
riorganizzazione dei mezzi di comunicazione, oggi in Venezuela ritenuti
un bene del popolo e per il popolo.
Il governo
chavista negli ultimi anni ha revocato la concessione a trasmettere via
etere anche a storiche televisioni commerciali come R.C.T.V. ma al
contempo ha distribuito dal basso nuove frequenze ad associazioni e
gruppi di quartiere: da qui la esplosione delle TV e radio comunitarie,
un’esperienza di reale democrazia partecipativa che dalle nostre parti è
ritenuta assolutamente “roba da marziani ” ma che invece in America latina vive una diffusione a macchia d’olio.
E
che il sistema della comunicazione in Venezuela funzioni ben
diversamente che da noi lo si comprende anche dal grado di diffusione di
certe notizie che qui in Italia non sono certo possedute dall’uomo della strada:
un istruttore di nuoto di mezza età, che mi ha offerto gentilmente di
aiutarmi a cercare un taxi in un mio momento di difficoltà, mi spiega
dettagliatamente cosa è accaduto alla Libia di Gheddafi (appena “aggredita dall’Impero”) e ci tiene a mostrarmi un filmato memorizzato sul suo cellulare che ritrae gli ultimi momenti di vita del leader libico. Da una frase in idioma spagnolo scappata dalla voce di uno dei carnefici di Gheddafi (“el fusil, el fusil!”) si deduce la probabile presenza anche a Sirte degli immancabili para-militari colombiani.
“Se lo hanno fatto alla Libia – conclude il mio gentile amico venezuelano – un
giorno potranno farlo anche a noi. Ma a quel punto noi ci stringeremo
in un abbraccio difensivo che coinvolgerà tutto il continente, a
cominciare dal nostro buon vicino Brasile. E vinceremo!”.
In
un’Europa sconvolta dalla crisi dei debiti sovrani, dal dominio della
finanza tecnocratica, dal generale impoverimento dei ceti medio-bassi e
dalla costante incertezza verso il futuro che ci attende, non farebbe
male a nessuno rivolgere un maggiore sguardo di attenzione verso il
continente sudamericano, che pulsa di vitalità e voglia di crescita,
ricordando sotto tanti aspetti i gioiosi anni ’50 e ’60 del novecento,
fase che in Europa fu vissuta dalla generazione protagonista
dell’immediato dopoguerra.
Il socialismo latino-americano
del XXI° secolo è interessante da studiare perché non ha dogmi ma è allo
stesso tempo un laboratorio di idee ed un cantiere vivo di progetti in
carne ed ossa.
E’ un socialismo redistributivo, gradualista ed autenticamente riformista (quanto è abusata in Italia, ed a sproposito, questa antica categoria concettuale!).
Un socialismo fondato sull’inclusione e sull’aspirazione al riscatto dei poveri e degli emarginati.
Un socialismo condito da un sano nazionalismo patriottico di stampo sovranista e solidale.
Un
socialismo che può apparire liberticida soltanto a chi ritiene che la
più sacra delle libertà dell’uomo sia quella di arricchirsi.
Un socialismo che guarda anche a noi che viviamo nel cosiddetto “mondo ricco”
(ricco ancora per quanto tempo?), ricordandoci che quando l’uomo è
totalmente alienato dal lavoro ed è tutto preso dalla smania compulsiva
di “competere” con i suoi simili, ha già perso una buona fetta della
propria umanità, anche se non ne è consapevole.
Giulio
Santosuosso, docente universitario di origini italiane, già assistente
del prof. Lucio Lombardo Radice alla “Sapienza” di Roma, da circa 35
anni emigrato in Venezuela, afferma di essere arrivato qui dopo avere
compreso che “l’occidente è morto da tempo”.
La sua idea di socialismo è stata condensata nello scritto "Socialismo en un paradigma liberal".
Monica
Vistali, giovane giornalista professionista di origini bresciane,
racconta quotidianamente la vita a Caracas dalle pagine del suo blog (http://monicacaracas.blogspot.com/): lei invece ha scelto di rimanere a vivere in Venezuela semplicemente “perché qui l’aria è più frizzante”.
G.A.
NOTE:
1) Tale vicenda, molto poco conosciuta in Italia, è stata raccontata in un raro documentario (“La rivoluzione non sarà teletrasmessa”) realizzato da una troupe
nord-europea, che si trovò casualmente a poter filmare sia l’arresto di Chávez all’interno del Palazzo presidenziale che il suo repentino
ritorno a bordo di un elicottero militare.
2) Per
comprendere appieno gli storici meccanismi di sfruttamento
socio-economico di tipo coloniale che per secoli (a partire dalle
dominazioni spagnola e portoghese nel ‘500 per giungere al dominio
inglese nel ‘700 ed a quello yankee nel ‘900) hanno ingabbiato i popoli
latino-americani, impedendo sviluppo e autodeterminazione, è
fondamentale la lettura del libro scritto dall’intellettuale uruguayano
Eduardo Galeano “Le vene aperte dell’America latina”, pubblicato in Italia nella collana editoriale "Continente desaparecido" curata dalla Sperling & Kupfer Editori. Il libro è stato pubblicamente dato in omaggio da Chávez a Barack Obama, nel corso di una recente conferenza intergovernativa.
3)
Dopo il fallito tentativo di Golpe del 2002, l’opposizione venezuelana
nel 2003 mise in atto una vasta azione di sabotaggio dell’intera
attività estrattiva di petrolio, col deliberato intento di mettere in
ginocchio il Paese e costringere il Presidente alle dimissioni. Tale
azione ricordò il famigerato sciopero dei camionisti che paralizzò il
Cile alla vigilia del colpo di Stato contro Salvador Allende, nel 1973.
Tutto l'Occidente ed in particolare tutta l'Europa ha molto da imparare dall'esempio di Hugo Chavez.
RispondiEliminaSe invece di spaccare il capello in quattro la sinistra andasse a vedere direttamente come in Venezuela si sperimenta un nuovo modello economico dal basso, ne trarremmo grande ispirazione per i nostri grossi problemi.
Sì, la sinistra europea e il PSE appartengono ad un mondo in decomposizione, mentre nel Sudamerica vive e si espande il Socialismo del XXI secolo, specialmente nella sua versione ecosocialista coniugata con i nuovi fermenti della teologia della Liberazione. Chavez ne è un esempio, con luci ed ombre, anche se non l'unico e nemmeno il più originale, lo è piuttosto la sinergia di questi movimenti socialisti sudamericani. Non lo si può certo imitare in blocco, ma costituisce comunque un forte elemento propulsivo ed innovativo, peccato che abbia lasciato cadere il discorso della V Internazionale che invece, oggi, credo sia molto importante per raccordarsi ovunque con tali nuovi modelli che emergono prepotentemente dal basso. In Italia dovremmo costruire una nuova aggregazione socialista sul modello Sudamericano che oggi non corrisponde ad alcuno dei partiti della sinistra italiana vigente. Possiamo pure provare ad inventarcelo noi..volendo. Venceremos!
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