Il proletario occidentale vanta un’età veneranda, visto che ha mosso i primi passi nella Roma repubblicana, e forse addirittura sotto il potere regio[1].
In quei giorni lontani, la società romana risultava suddivisa al suo interno in base al censo[2]: i cittadini più poveri, dotati di un patrimonio inferiore agli 11 mila assi[3], formavano la “sesta classe” che, se non altro, non aveva l’obbligo di fornire soldati all’esercito.
Si osservi che la citata sesta classe costituiva solamente una porzione della plebe romana[4] e, a quanto pare, raccoglieva poveri, poverissimi e veri e propri nullatenenti. Secondo lo scrittore di età imperiale (II° sec.) Aulo Gellio, “coloro che tra i plebei erano i più umili e poveri, e non dichiaravano all’erario più di 1500 assi, furono definiti proletari. Quanti, invece, non avevano alcun patrimonio o ne avevano uno piccolissimo (inferiore a 375 assi) erano chiamati capitecensi[5].”
Invero, soltanto l’autore delle Notti Attiche antepone i proletari ai capitecensi: il giurista Ludovico Guarini non trova riscontri documentali alle parole di Aulo, e conclude che “anche i possessori di somma maggiore di assi 1500 ma minore di 12500[6] non prestavano allo stato altro benefizio che la procreazione della prole. E perciò anche a questi, quantunque possessori di somma maggiore di assi 1500, potea convenire l’epiteto di proletarii. Quelli cittadini poi i quali possedevano meno di 375 assi e che Gellio chiama capitecensi, essendo anch’essi immuni dal servizio militare e dal tributo, del pari altro benefizio non prestavano allo stato oltre alla procreazion della prole: quindi anche ai medesimi potea convenire il titolo di proletarii. Queste considerazioni fanno conoscere quanto sia insussistente la distinzione dei proletarii e capitecensi, che Gellio fa derivare da una maggiore o minor possidenza: mentre è da dirsi piuttosto che tutti i cittadini poveri collocati nella sesta classe furono detti proletarii e capitecensi[7].”
Lo stile è datato, ma la sostanza chiara: proletario e capitecense sono sinonimi. Questa classe (il termine è ovviamente adoperato in un’accezione generica) rappresenta lo strato più infimo della plebe, non paga tasse ed è esentata – quando non si verifichino esigenze eccezionali[8] - da qualsiasi obbligo nei confronti dello stato. Dunque i proletari sono cittadini liberi, non servi, che “fanno numero” (capitecensi significa letteralmente “contati per testa”) ed hanno come unica ricchezza la prole; non sono necessariamente lavoratori, anche se nessuno vieta loro di svolgere un’attività più o meno umile. Esclusi dall’accesso alle cariche pubbliche, non si riconoscono in una categoria a sé stante: sono semplicemente i più poveri tra i romani.
Nell’antica Roma, in sostanza, dire “proletario” equivale a dire povero.
Quando Tito Livio detta i suoi Annales, la ripartizione in sei classi non è più attuale da secoli, proletari e capitecensi sono ormai relegati tra le curiosità storiche. I più miseri tra i miseri si sono da tempo diluiti in una generica plebs urbana che, per sopravvivere, si aggrappa alle distribuzioni gratuite di grano e affolla, avida di divertimenti, circhi e anfiteatri. Presso gli scrittori dell’età del Principato la parola “plebe” assume una coloritura spregiativa che conserverà fino ai giorni nostri.
L’umile motore dello sviluppo romano sono gli schiavi, il cui numero aumenta man mano che, gladio in pugno, la Res publica si espande e diventa mondo – un mondo in cui al cittadino povero spetta il ruolo di vociante comparsa.
Dopo venti secoli di letargo, il proletario è richiamato in vita da Karl Marx, che però, nel dramma umano, gli assegna una parte diversa e assai più attiva, oltre che tragica.
Nel Manifesto del Partito Comunista (1848) i termini “proletario” e “operaio” la fanno, paradossalmente, da padrone, ripetuti decine e decine di volte. Chi è il proletario evocato dal primo Marx? Un personaggio che non ha niente a che fare con il suo abulico omonimo romano: “Nella stessa proporzione in cui si sviluppa la borghesia, cioè il capitale, si sviluppa il proletariato, la classe degli operai moderni, che vivono solo fintantoché trovano lavoro, e che trovano lavoro solo fintantoché il loro lavoro aumenta il capitale. Questi operai, che sono costretti a vendersi al minuto, sono una merce come ogni altro articolo commerciale, e sono quindi esposti, come le altre merci, a tutte le alterne vicende della concorrenza, a tutte le oscillazioni del mercato.
Con l'estendersi dell'uso delle macchine e con la divisione del lavoro, il lavoro dei proletari ha perduto ogni carattere indipendente e con ciò ogni attrattiva per l'operaio. Egli diviene un semplice accessorio della macchina, al quale si richiede soltanto un'operazione manuale semplicissima, estremamente monotona e facilissima da imparare. Quindi le spese che causa l'operaio si limitano quasi esclusivamente ai mezzi di sussistenza dei quali egli ha bisogno per il proprio mantenimento e per la riproduzione della specie[9].”
L’autore non lascia adito a dubbi: operaio e proletario sono la stessa persona (nel significato latino del termine). Successivamente, nella sua opera principale, Karl Marx torna sull’argomento, entrando maggiormente nello specifico: “Il possessore della forza lavorativa, perché possa venderla come merce, deve poterne disporre, perciò deve essere libero proprietario[10] della propria capacità lavorativa, della propria persona. (…) Egli incontra sul mercato il possessore di denaro e i due si pongono in relazione tra loro quali possessori di merci di egual diritto (…) condizione indispensabile a che il possessore del denaro trovi sul mercato la forza lavorativa come merce è che il possessore di quest’ultima non possa vendere merci in cui sia oggettivato il suo lavoro, ma al contrario sia obbligato a vendere, come merce, la sua stessa forza lavorativa, esistente solo nella sua viva corporeità. (…) Quindi per trasformare il denaro in capitale il possessore di denaro deve trovare sul mercato delle merci il lavoratore libero, libero nella duplice accezione che usi, quale persona libera, la propria forza lavoro come propria merce, e che d’altronde non debba vendere altre merci, che sia libero e spogliato, privo di tutte le cose che occorrono per realizzare la sua forza lavorativa[11].” Che cos’è la “forza lavorativa” cui l’autore fa cenno? Un’esauriente spiegazione ci è stata fornita poche righe prima: “per forza lavorativa o capacità di lavoro noi intendiamo la somma di attitudini fisiche e intellettuali esistenti nella corporeità che egli fa agire ogni qual volta produce valori d’uso di qualunque specie.”
Attenzione alla terminologia, ma anche ai corsivi: sono oltremodo importanti. Rispetto al passo del Manifesto, cogliamo al volo alcune differenze: il lessico è più preciso – diremmo “scientifico[12]” -, il meccanismo meglio delineato, le parole parzialmente diverse. Resta però la costrizione: per quanto formalmente libero[13], il possessore della forza lavorativa non ha alternative a vendere quest’ultima al capitalista, non disponendo di altre risorse. Il fatto che qui non si parli di “operaio”, bensì di “lavoratore” (libero) non va enfatizzato: nella lingua tedesca l’una e l’altra parola si traducono con “Arbeiter” – l’operaio è il lavoratore per eccellenza.
La versione italiana, in ogni caso, ospita sia il proletario che il suo alter ego, l’operaio. Leggiamo alcuni stralci di un passo tra i più significativi: “allorché i lavoratori sono divenuti proletari[14] (…) si sviluppano in misura sempre più ampia la forma cooperativa del processo di lavoro, la consapevole applicazione tecnica della scienza (…) s’ingrandisce e si fa forte la miseria, la pressione, la schiavitù, la degenerazione, lo sfruttamento della classe operaia, ma s’acuisce allo stesso tempo il suo senso di ribellione ed essa allarga le sue schiere e si dà disciplina, un’unità e un’organizzazione grazie allo stesso meccanismo del processo di produzione capitalistico[15].” Su questo fondamentale passaggio torneremo in un secondo momento; per ora è sufficiente osservare che non c’è contraddizione tra il Marx del Manifesto e quello del Capitale: entrambi focalizzano la loro attenzione su un soggetto particolare, l’operaio di fabbrica – colui che materialmente “trasforma il denaro in capitale”.
Per capire la genesi dell’equazione, esplicitamente impostata da Marx nel suo Manifesto, “proletario=operaio”, è opportuno tenere a mente alcuni dati storico-sociali.
A differenza dell’insegnante, del contabile e di altre figure professionali storicamente “stabili”, ai tempi di Karl Marx l’operaio di fabbrica costituisce, al pari del suo sfruttatore, una sorta di homo novus. Se è vero che il lavoratore manuale è alacremente attivo sin dai primordi della civiltà, è altrettanto indiscutibile che, fino al ‘700, la sua opera si svolge per lo più all’interno delle mura domestiche, o in minuscoli laboratori appositamente attrezzati. In linea di massima, egli ci si presenta come lavoratore dipendente (cui spettano, in alternativa al salario, vitto e alloggio) nella fase dell’apprendistato, come piccolo imprenditore artigiano[16] in età matura. La Rivoluzione industriale scompiglia le carte, trasformando una miriade di produttori, ma anche contadini e pitocchi, in forza lavoro dipendente vita natural durante. Il nuovo modello economico si caratterizza per la costruzione di grandi opifici, in cui decine, centinaia o migliaia di persone sono costrette a lavorare gomito a gomito; per la semplificazione e standardizzazione dei compiti affidati al singolo (principio della divisione del lavoro), che non richiedono competenze specifiche, né un minimo di perizia e/o inventiva; per il progressivo assoggettamento dell’uomo alla macchina (a vapore), che proprio nel 18° secolo fa la propria comparsa, e della quale il lavoratore si riduce a mero ausiliario. Senza addentrarci in un territorio vastissimo, ci limitiamo ad osservare che, all’epoca e nel paese (l’Inghilterra) in cui Marx scrive, il modello fabbrica ha ormai raggiunto la sua piena maturità: il sistema impiega milioni di uomini, donne e bambini, che costituiscono altrettante sorgenti di plusvalore, cioè di profitto, per gli imprenditori. Il Capitale si regge sul lavoro formalmente libero - ma in realtà forzato da necessità e norme giuridiche - di un’umanità indifferenziata che vive (male, e senza approdare alla vecchiaia) esclusivamente per produrre merci destinate ad un mercato cui ha limitato accesso.
Il proletariato operaio è dunque il turboreattore della ruggente economia borghese, una massa destinata a diventare “classe” a sé non appena avrà raggiunto un minimo di consapevolezza del comune interesse che lega i suoi componenti. Inoltre, soltanto l’operaio può fornire, col suo lavoro sottopagato[17], quelle merci più o meno durevoli che dell’attività commerciale sono il presupposto.
Mentre il proletario doc produce beni, l’impiegato amministrativo, il contabile ecc. producono carte – certamente indispensabili in una realtà capillarmente organizzata (sia a livello generale che di fabbrica), ma poco vantaggiose per il padrone, visto anche che il loro valore si rivela piuttosto difficile da quantificare. Il dipendente non direttamente impegnato nella creazione di ricchezza è dunque un elemento di contorno, che rimane per così dire in disparte, ed esegue mansioni “vecchie” (=tradizionali); per di più, i ritmi di lavoro degli impiegati non sono inflessibilmente dettati da un macchinario, ed il loro numero, in confronto a quello delle mucche da plusvalore, risulta ridotto.
Un tanto spiega perché Marx, nelle sue opere, dedichi infinite pagine agli operai, parecchie riflessioni a contadini e piccola borghesia (negozianti, artigiani, scienziati e professionisti), poca attenzione a sgherri e Lumpenproletariat[18], e ancor meno ai travet che, seminascosti nella folla in marcia, fa gran fatica ad individuare.
Per quanto lo sguardo di Karl Marx si appunti su quanto avviene all’interno degli stabilimenti, la fabbrica, delle nuove realtà produttive, è solo la più appariscente e importante, non certo l’unica. Per respirare, l’industria necessita di polmoni – le banche – e di una serie di servizi offerti dalle imprese di assicurazione, molte delle quali vedono la luce nella prima metà dell’Ottocento. Il settore terziario ha conosciuto una vertiginosa espansione nel secondo dopoguerra, ma già cent’anni prima è tutt’altro che insignificante: in un Paese arretrato come il Regno d’Italia, esso impiega, nel 1861[19], il 12% dei lavoratori contro il 18% dell’industria manifatturiera, e non può essere banalmente ricondotto al solo commercio al dettaglio. Al padre del Socialismo scientifico, che vive e opera nella nazione economicamente più progredita (la Gran Bretagna), non sfugge la centralità del ruolo ricoperto dalle banche nell’evoluzione del sistema capitalistico; eppure, egli sembra sottovalutare la presenza, all’interno di sedi e filiali, di una moltitudine di impiegati che, a differenza che in fabbrica, non si limitano a svolgere un servizio accessorio, ma producono essi stessi ricchezza a beneficio di altri. Il bancario e il dipendente di una compagnia assicurativa lavorano a stretto contatto con un’infinità di colleghi, e lavorano duro: scorrendo i decaloghi di allora (che oggi va di moda appendere negli uffici, per innocua celia o per esorcizzare un futuro pauroso), veniamo a sapere che, in un’azienda modello come le Assicurazioni Generali di Trieste, le condizioni lavorative erano a dir poco terrificanti, tra orari interminabili e divieti di ogni genere, compreso quello di rivolgere la parola al collega. Altro che pausa caffè! Lo stipendio, poi, era miserrimo: per apprenderlo non occorre perdersi nella gelida Russia zarista – dove il disgraziato Akaky Akakievich[20], Fantozzi ante litteram, si toglie il pane di bocca per potersi permettere un purtroppo effimero cappotto -, basta sbirciare nella vita di (anti)eroi letterari assai più vicini a noi. Ettore Schmitz/Italo Svevo, che prima di sposare il benessere trascorse anni deprimenti negli uffici triestini della banca Union, descrive con un misto d’ironia e di amarezza le lunghe giornate di lavoro al freddo, la ripetitività dei compiti giornalieri – consistenti nella ricopiatura in bella di lettere commerciali – lo squallore degli alloggi in cui Alfonso Nitti ed Emilio Brentani[21] trascinano la loro grama, deludente esistenza. E’ sufficiente una visione di scorcio: “La carriera di Emilio Brentani era più complicata perché intanto si componeva di due occupazioni e due scopi ben distinti. Da un impieguccio di poca importanza presso una società di assicurazioni, egli traeva giusto il denaro di cui la famigliola (composta da lui e dalla sorella Amalia) abbisognava[22].”
Svevo non è una voce fuori dal coro, impastata di pessimismo: Dickens, altri scrittori vittoriani e, più tardi, Franz Kafka[23] confermano accoratamente la durezza della condizione impiegatizia, il contenuto routinario e niente affatto stimolante della prestazione.
L’impiegato sveviano presenta molti caratteri in comune con l’operaio industriale, ma si avvertono pure delle dissonanze.
Innanzitutto, mentre in fabbrica l’operaio indossa abiti da lavoro, l’impiegato d’ufficio veste “in borghese”: nel ‘900 si parlerà, con efficace generalizzazione, di tute blu contrapposte a colletti bianchi. Indubbiamente l’abito non fa il monaco, ma sovente contribuisce a plasmare la percezione che l’individuo ha di sé: il copista in giacca e cravatta (entrambe da pochi soldi) elegge a suo modello il padrone milionario - cui, malgrado l’immensa differenza di censo, s’illude, si sforza di somigliare – e snobba il meccanico unto e illetterato, che considera socialmente inferiore. Nonostante la modestia dell’impiego, egli è fiero di non “sporcarsi le mani” (se non d’inchiostro) e, in paesi dove l’analfabetismo è molto diffuso, di saper scrivere e far di conto. In sostanza, scimmiotta il borghese[24] - e questo è ancor più evidente ai giorni nostri, con il piccolo funzionario che, spaparanzato al sole in una spiaggia tunisina, sogna un suv coreano da comprare a rate.
Un simile atteggiamento (indotto) produce conseguenze coerenti: l’impiegato non aderisce agli scioperi, mugugna ma non protesta, nelle vertenze tende a defilarsi e poi, invariabilmente, si accoda alla proprietà. Gli esempi di questa passività sono infiniti: dal grande, sanguinoso sciopero dei fuochisti del Lloyd austriaco del 1902 alle barricate di S. Giacomo del ’20[25], dalla marcia dei quarantamila al referendum di Mirafiori[26], la massa impiegatizia si segnala solo per remissività, miopia e conservatorismo.
C’è un elemento ulteriore di cui tener conto: dal lavoro d’ufficio è più arduo, per il datore di lavoro, estrarre plusvalore – o, perlomeno, quantificarne l’ammontare. In fabbrica il calcolo è tutto sommato semplice: dati i costi della materia prima e del salario di sussistenza versato al lavoratore (rectius: ai lavoratori), una volta trovato il valore complessivo della merce prodotta bastano una sottrazione ed una successiva divisione – per il numero di lavoratori, se ve ne sono due o più – e il gioco è fatto. Chiaramente, se la produzione del bene A richiede X ore di lavoro e quella del B X/2, il prezzo del primo sarà indicativamente il doppio di quello del secondo.
Il lavoro impiegatizio ha caratteristiche sue proprie: due lettere di contenuto identico, messe diligentemente in bella copia dal nostro Alfonso e inviate l’una all’impresa C, l’altra all’impresa D, offrono o meno opportunità di guadagno indipendentemente dall’impegno e dagli svolazzi calligrafici dell’addetto. A loro volta, due polizze assicurative approntate dallo svagato Emilio in un paio d’ore ciascuna possono prevedere premi assicurativi di diversa consistenza, commisurati alle esigenze del cliente.
Attenzione: dal punto di vista imprenditoriale la questione è rilevante, ma per il lavoratore cambia poco o niente, visto che comunque il suo stipendio è ancorato al livello di sussistenza. Si potrà obiettare che, nell’Ottocento, l’impiegato guadagnava più soldi dell’operaio, pur faticando di meno, ma - a ben guardare - l’argomento è debolissimo: sul mercato del lavoro vige la regola della domanda e dell’offerta, ed è naturale che, in una società che è cornucopia di analfabeti, l’individuo capace di leggere e scrivere sia merce particolarmente pregiata. Il manovale è sempre sostituibile, il copista no: perciò la sua esistenza/produttività va salvaguardata con particolare cura[27]. Inoltre, la “quota extra” di retribuzione che riceve non è spesa invano dall’imprenditore: essa si trasformerà nell’abito decente di cui l’impiegato abbisogna, nello svago domenicale che “scaccia i pensieri”, nella retta scolastica per i figli che, un giorno, prenderanno il suo posto.
In sintesi, le due figure sono meno dissimili di quanto s’immaginino, anche se il travet ha un’aria più elegante, crede di appartenere alla borghesia e, per l’effetto, resta fedele al padrone. Proprio questa scarsa reattività parrebbe giustificare la sua esclusione dal proletariato, ma si badi: noi stiamo cercando a lume di lanterna il proletario marxiano, non il soggetto rivoluzionario. E’ ancora da dimostrare che i due coincidano.
Nel Manifesto (parte I. Borghesi e proletari) c’imbattiamo in alcune frasi suggestive, sulle quali merita riflettere: “La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte le attività che fino allora erano venerate e considerate con pio timore. Ha tramutato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l’uomo della scienza in salariati ai suoi stipendi. (…) Il progresso dell’industria precipita nel proletariato intere sezioni della classe dominante, di tutta la vecchia società (…) Gli ordini medi, il piccolo industriale, il piccolo commerciante, l’artigiano, il contadino, combattono tutti la borghesia, per premunire dalla scomparsa la propria esistenza come ordini medi (…) sono conservatori, anzi reazionari, poiché cercano di far girare all’indietro la ruota della storia. Quando sono rivoluzionari, sono tali in vista del loro imminente passaggio al proletariato (…) e abbandonano il proprio punto di vista, per mettersi da quello del proletariato.”
Nel primo periodo Marx sembra stilare un”elenco” dei salariati, in cui trovano posto figure professionali prestigiose, ma non l’umile copista. Qualcuno potrebbe congetturare che ciò che vale per i “grandi” valga, a maggior ragione, per i “piccoli”, e gridare trionfalmente: “todos proletarios!”; ma ci toccherebbe, purtroppo, rispondergli che ha stracapito. “Salariato” qui non è affatto sinonimo di proletario: l’autore ci dice soltanto che determinate categorie sociali si sono poste al servizio della borghesia capitalista – il che non significa che al lettore possa capitare, un giorno, di incontrare al mercato un prete o un dottore ansiosi di vendersi al fabbricante. Più promettente è il richiamo agli “ordini medi” (noi li chiameremmo “ceti medi”) e al loro conservatorismo, che ricorda quello, già descritto, degli impiegati. Il problema è che il piccolo commerciante, l’artigiano ecc. minacciati dalla proletarizzazione sono tutti, senza eccezione, gente tuttora provvista delle “cose che occorrono per realizzare la propria forza lavorativa”. L’assenza dell’impiegato dei “proletarizzandi” dalla lista non è dunque casuale: egli, che non compare nel Manifesto (a meno che non lo si voglia avventurosamente identificare col sorvegliante), ha ben poco a che fare con loro.
In breve, Marx ci ammaestra sul significato proprio del concetto di proletarizzazione, ma ancora una volta omette di trattare la questione del lavoro impiegatizio.
Riconsideriamo allora alcune espressioni contenute nel Capitale, e già riportate in precedenza[28]: “allorché i lavoratori sono divenuti proletari, si sviluppano in maniera sempre più ampia la forma cooperativa del processo di lavoro, la consapevole applicazione tecnica della scienza.” Da esse, e dal “Frammento sulle macchine” dei Grundrisse[29], Gianfranco La Grassa e, sulla sua scia, Costanzo Preve desumono che “per Marx il soggetto rivoluzionario non è affatto semplicemente la classe operaia e proletaria, ma è il lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale, alleato con il general intellect[30]” (che, a sua volta, consiste nel sapere umano immagazzinato nelle macchine).
La formula taglia apparentemente la testa al toro, visto che nella fila capeggiata dal direttore e chiusa dall’ultimo manovale c’è spazio per operai specializzati, segretarie, impiegati, funzionari e tecnici di ogni sorta. Il problema è che, a detta dello stesso Preve, non è affatto scontato che classe “operaia e proletaria” e “soggetto rivoluzionario” combacino (anzi, par di intendere il contrario): per la seconda volta rischiamo, dunque, di finire fuori strada. L’interpretazione letterale di quanto gli (illustri, ancorché discussi) autori affermano è la seguente: Marx avrebbe affidato compiti rivoluzionari ad un soggetto, ai tempi in cui egli scriveva, ancora in via di formazione, all’interno del quale sarebbero confluiti, al momento giusto, tutti i lavoratori dipendenti.
Si scruta, insomma, un ipotetico futuro, ignorando il presente (quello che per Marx era il presente!); quanto alla classe proletaria, gli studiosi citati concludono, poco problematicamente, che si compone di operai.
Siamo ancora ai nastri di partenza, gravati, per di più, da un dubbio aggiuntivo: sarà il signor direttore a darci il segnale dell’insurrezione? Ne scorgiamo pochi, in giro, di supermanager con fregole rivoluzionarie… anzi, notiamo che parecchi di loro – almeno quelli che guidano imprese ben ramificate e grandi enti – presentano i tratti caratteristici dell’imprenditore capitalista (o, al limite, del rentier), non certo quelli del salariato. La tematica meriterebbe adeguato approfondimento, ma per adesso accontentiamoci di rileggere Marx: secondo noi, questo lavoratore di domani – schiavizzato, spremuto, ipersfruttato, e pur tuttavia “associato” e consapevole – non fa il direttore né il manovale, ma è una via di mezzo, una sorta di appendice cosciente di macchine sempre più sofisticate e “intelligenti”. Il progresso della meccanizzazione e la standardizzazione dei processi produttivi elimineranno via via (usiamo il futuro, perché proviamo ad indossare i panni di un contemporaneo di Karl Marx!) ogni distinzione tra lavoro manuale e intellettuale, tra operaio e impiegato, tra chi esegue e chi sovrintende[31]: avremo un lavoratore polivalente, in grado di eseguire molteplici compiti, tutti però piuttosto semplici – quindi ripetitivi e poco gratificanti - e riconducibili ad attività di controllo, visto che la materiale creazione di ricchezza sarà demandata a robot autosufficienti (o quasi). A questo punto ci troveremo di fronte ad una contraddizione insanabile: macchine avanzatissime inonderanno il mercato di beni, prosciugando al contempo le fonti del plusvalore (perché i lavoratori risulteranno ormai marginalizzati); questo costringerà i capitalisti, per suggerne le ultime gocce, ad appesantire inutilmente[32] tempi e condizioni di lavoro, trasformando il regno dell’abbondanza in una specie di Lager.
La morte per consunzione del plusvalore spianerà la strada ad una trasformazione, presumibilmente violenta: con l’aiuto di “una parte degli ideologi borghesi, che sono riusciti a giungere alla intelligenza teorica del movimento storico nel suo insieme[33]”, il lavoratore sociale – evoluzione del proletario – reciderà il nodo gordiano, gettando le basi di una società egualitaria.
In attesa della palingenesi, restiamo alle prese con l’esigenza teorico/pratica di incasellare questo povero mezzosangue (l’impiegato) in una classe definita. Nonostante certi vezzi e pose, Marx non lo arruola – l’abbiamo visto – tra i borghesi, che realizzano autonomamente la loro forza lavorativa, ma nemmeno lo confina tra i proletari: per il filosofo/economista di Treviri è come se i Nitti e i Brentani non esistessero. Eppure esistono, anche se spesso hanno nomi meno letterari.
Come uscirne? Forse ci aiuta l’analogia. Anche braccianti e operai agricoli rimangono sullo sfondo, negli affreschi marxiani – tuttavia, nessuno ardirebbe mettere in discussione la loro identità di proletari, per il semplice fatto che, al pari degli operai di fabbrica, essi non hanno altra merce da vendere che se stessi.
Contabile, bancario, usciere e copista[34] versano in fondo nella medesima situazione: posseggono, ben che vada, un titolo di studio, ma non i mezzi (e, casomai, il talento) indispensabili per intraprendere un’autonoma attività. Dopo la “svendita” sono alla mercé del padrone, che li sfrutta a piacimento, pagandoli meno che può. Loro accettano, per il banale motivo che non hanno altra scelta, se non quella di morire di stenti o di adattarsi a mansioni ancor più faticose.
In pratica sono proletari come gli altri: ciò che li distingue, semmai, è l’inconsapevolezza del proprio status, che spinge talora a comportamenti o convinzioni contrastanti con gli interessi di gruppo.
Pensiamo che questa lettura sia in linea con il pensiero di Marx che, non casualmente, definisce la capacità lavorativa[35] “somma di attitudini fisiche e intellettuali”, evidenziando il primo dei due aggettivi.
Perché il corsivo? Sbaglieremo, ma siamo dell’avviso che il genio renano - nel Manifesto e nelle opere successive - ricorra ad una sineddoche, indichi cioè una parte (gli operai) per rappresentare il tutto (i lavoratori).
Quando, in passato, veniva allestita una grande flotta militare si parlava, alle volte, di centinaia di “vele”, identificando la nave con il sistema di propulsione che le consentiva di andare avanti, e dunque di assolvere la sua funzione. Un tanto vale anche per gli operai che, come Marx ebbe modo di rilevare, costituivano e costituiscono la frangia più dinamica, determinata, cosciente e oppressa del proletariato: una punta di lancia che il tempo si incaricherà di affilare.
Ciò che emerge chiaramente dalle pagine marxiane – ripetiamo - è che, per il padre del Socialismo scientifico, il proletariato contemporaneo non è ancora maturo, non è ancora classe nel senso tecnico del termine: lo diverrà quando la maggior parte dei suoi componenti avrà acquisito piena contezza dell’esistenza di un interesse collettivo.
Solo allora proletariato e soggetto rivoluzionario saranno la stessa identica cosa.
A un secolo e mezzo di distanza dalla pubblicazione del Capitale, non ci sentiamo all’altezza di tirare un bilancio dell’esperienza storica, ma solo di proporre al paziente lettore alcune brevi considerazioni.
Come esattamente previsto da Marx, l’introduzione di macchinari sempre più perfezionati[36] ha rivoluzionato la produzione, rendendola ininterrotta e copiosa: a paragone di cent’anni fa, ciascun paese avanzato può considerarsi, oggi, favolosamente ricco. Solo una quota dei proventi di questo straordinario incremento produttivo si è tradotta in benessere per la classe lavoratrice, ed anche quella fetta sottile sta svanendo, vittima dell’appetito dei ceti egemoni.
Si usa dire che, dagli anni ’50 in poi, gli operai si siano progressivamente imborghesiti (grazie all’aumento del salario ed alla costruzione del welfare pubblico); per descrivere gli effetti dell’attuale crisi economico-finanziaria si ricorre all’espressione “proletarizzazione del ceto impiegatizio”. Queste locuzioni vanno benissimo, se le si adopera genericamente, per indicare un relativo arricchimento e, poi, il drastico impoverimento cui oggigiorno stiamo assistendo in Europa; gravemente erroneo sarebbe invece asserire che “il proletariato non esiste più” o lasciarsi andare a dichiarazioni consimili che, nella migliore delle ipotesi, denotano superficialità di giudizio. Certo, il termine è desueto, e niente vieta di sostituirlo con un altro, più “al passo coi tempi”; ma svecchiare il lessico è lecito – anzi: altamente opportuno! – a patto che, assieme al nome, non si sacrifichi pure il concetto sottostante.
Di questi tempi, al mercato del lavoro, vediamo sbracciarsi una moltitudine di figure (il co.co.co laureato, l’interinale a vita, lo stagista, il reduce di call center, l’immigrato, il dottorando ecc.) che Marx non conosceva, ma che sono giunte dal futuro per vendere la stessa merce offerta dall’operaio di Manchester o Glasgow: la forza lavorativa.
Definiamoli come vogliamo, ma sotto sotto restano proletari. Proletari in gran parte all’oscuro di esserlo, però: polli che, come Brentani, si credono aquile, e svolazzano qua e là in solitudine, senza recar danno che a se stessi.
L’amara constatazione è che i lavoratori sembrano meno classe oggi di quanto non fossero un secolo e mezzo fa: evidentemente, l’elite del capitale ha studiato Karl Marx più e meglio dei suoi seguaci, ed è riuscita ad escogitare contromisure idonee a neutralizzarne il messaggio.
L’odierna crisi potrebbe mutare la situazione, ma molto dipenderà dalla capacità (o dall’incapacità, più volte riscontrata) di formazioni politico-sindacali, movimenti, “coscienze critiche” e minoranze consapevoli di muoversi all’unisono: anche per noi, come per il lavoratore presentatoci da Karl Marx, “there is no alternative” – nel nostro caso, a una difesa comune che faccia da prologo a una controffensiva.
[1] Per Tito Livio la suddivisione dei cittadini in 6 classi sociali – a fini prettamente militari – risalirebbe al sesto re di Roma, Servio Tullio (VI° sec. A. C.).
[2] In origine, come ci insegna il Manuale di diritto pubblico romano del professor Alberto Burdese, il censo era nient’altro che un elenco dei cittadini e dei loro averi.
[3] Anticamente, l’asse era un semplice pezzo di rame o bronzo di forma irregolare (in verità, non è neppure certo che nella tarda età regia lo stato romano battesse moneta: è probabile che la consistenza dei patrimoni fosse calcolata in base alla proprietà di terreni, al numero di animali posseduti ecc.).
[4] Il termine plebeius non indica affatto il cittadino povero (c’erano plebei più che benestanti, e di illustre lignaggio: gli sfortunati consoli Flaminio e Varrone, ad esempio): plebeo è chi non può fregiarsi del titolo di patrizio, non discendendo direttamente (è questa una tesi convincente, anche se non l’unica) dal nucleo di fondatori.
[5] AULO GELLIO, Notti Attiche, Lib. XVI, c. 10.
[6] Tito Livio fissa il limite massimo ad 11 mila assi.
[7] LUDOVICO GUARINI, La finanza del popolo romano, trattato storico-legale, VIII, Nota 7, 1841.
[8] “Nisi in tumultu maximo”, scrive ancora Gellio. In tali evenienze, toccava allo Stato armare (alla leggera) i proletari.
[9] KARL MARX, Manifesto del Partito Comunista, Parte I – Borghesi e proletari.
[10] Questo corsivo e quelli che seguono sono dell’autore.
[11] KARL MARX, Il Capitale, Libro I, seconda sezione, pagg. 139-140, ed. integrale, Newton Compton Editori, 2006.
[12] Com’è naturale che sia: il primo scritto è un agile pamphlet, il secondo un ponderoso trattato, frutto di lunghi anni di ricerche sul campo (e in biblioteca).
[13] Al pari, si noti, del proletario romano (è questo fatto, forse, a suggerire a Marx la riesumazione del termine).
[14] Grassetti nostri.
[15] K. MARX, Il Capitale, pag. 548.
[16] Secondo la definizione che ne dà il combinato disposto degli artt. 2082 e 2083 del nostro Codice civile.
[17] Perché il salario non è commisurato a ciò che il singolo effettivamente produce, o all’effettivo tempo di lavoro, bensì al costo dei beni (cibo, vestiario ecc.) strettamente indispensabili ad assicurargli la sussistenza fino al giorno in cui, divenuto inservibile, non sarà abbandonato al suo destino. Un tanto spiega il largo ricorso al lavoro infantile che, produttivo quasi quanto quello degli adulti (per la scarsa complessità delle mansioni svolte “al servizio” della macchina), è reso conveniente dal fatto che i bimbi “mangiano” – e pertanto costano – meno.
[18] La feccia: mendicanti, prostitute, piccoli delinquenti… più in generale, i divoratori parassitari degli avanzi che cadono dalla tavola di chi banchetta gratis (e si serve, all’occorrenza, dei primi).
[19] Dopo 50 anni, nel 1911, le percentuali sono pari, rispettivamente, al 22 e al 26%. Secondo dopoguerra: 26 e 32%; anni ’60: 30 e 41%; 1981: quasi 30%, 40% circa. Poi, il terziario “si mangia l’industria”. 1999: 63,69% e 31,59%; 2009: 67,09% e 29,2% (dati forniti dall’ISTAT, Italia in cifre 2011).
[20] Personaggio principale della toccante novella di N. Gogol intitolata, appunto, Il cappotto.
[21] Protagonisti, il primo, di Una vita, il secondo di Senilità.
[22] ITALO SVEVO, Opere, pag. 431, Dell’Oglio editore, 1965.
[23] Impiegato nella filiale praghese delle Generali.
[24] Si pensi al cappottino “all’ultima moda” del collega di Alfonso Nitti, condannato a rimanere appeso fino a tarda sera all’attaccapanni dell’ufficio.
[25] I due episodi citati sono ben noti a Trieste: allo sciopero dei fuochisti dedicò, alcuni decenni fa, un interessante articolo la rivista “Storia illustrata”.
[26] In cui il voto degli impiegati regala la vittoria a Marchionne, ripudiato – insieme al suo “autoritarismo rivoluzionario” – dalla maggioranza degli operai.
[27] Oggi non è più così: l’impiegato e l’operaio medio, avendo entrambi frequentato (almeno) la scuola dell’obbligo, sono difficilmente distinguibili per eloquio ed aspetto, e svolgono mansioni in parte simili: pertanto vengono pagati, più o meno, allo stesso modo.
[28] V. nota 15.
[29] “Le macchine (…) sono prodotti dell'industria umana; materiale naturale, trasformato in organi della volontà dell’uomo sulla natura o del suo operare in essa. Sono organi dell’intelligenza umana creati dalla mano umana; potenza materializzata del sapere. Lo sviluppo del capitale fisso mostra in quale grado il sapere sociale generale, la conoscenza (knowledge, vers.orig.), si è trasformato in forza produttiva immediata, e quindi fino a che punto le condizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo dell’intelligenza generale (general intellect, vers.orig.), e rimodellate in accordo con essa.”
[31] Viene in mente la “battuta” di Lenin – in realtà, il culmine di un ragionamento serissimo - sulla cuoca a capo del governo!
[32] “Inutilmente” da un punto di vista obbiettivo, si intende: per l’imprenditore un magro guadagno è pur sempre meglio di niente!
[33] K. MARX, Manifesto del Partito Comunista, Parte I.
[34] Ma anche insegnante, infermiere, vigile ecc.
[35] V. supra.
[36] Tra questi va senz’altro citato il computer, insostituibile compagno di lavoro dell’impiegato, e suo “gemello siamese” in ufficio: quando il pc non funziona anche l’addetto è “spento”, improduttivo.
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