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domenica 24 novembre 2013

SIGNOR PRESIDENTE ENRICO LETTA di Renato Costanzo Gatti




SIGNOR PRESIDENTE ENRICO LETTA

di Renato Costanzo Gatti


“Presidente Letta tiri una linea, azzeri tutto, prenda atto che la (sua) legge di stabilità non è in grado di cogliere le priorità del Paese e di fornire risposte adeguate. Ha ancora pochissimo tempo a disposizione per porre rimedio, ma può ancora farlo se vuole dare un senso compiuto alla stabilità in linea con il sentimento e le esigenze vitali del Paese. Se non lo farà, il guscio di una governabilità fine a se stessa si rivelerà vuoto, segnerà la chiusura della sua esperienza governativa e, soprattutto, rischierà di aggravare irrimediabilmente il logoramento del tessuto economico e civile di un’Italia stremata e mai (davvero) ripartita. Abbiamo interpellato le forze produttive e sociali di questo Paese e abbiamo chiesto loro che cosa si attendono dalla prossima legge di stabilità. Siamo rimasti colpiti dal tasso comune (pesante) di una insoddisfazione  e dalla (straordinaria) convergenza su un punto strategico disatteso e. cioè, quello di rimettere al centro il lavoro, l’industria, la domanda interna”.

Chi scrive queste parole è il direttore del Sole 24 Ore organo ufficiale della Confindustria. La rimessa al centro del lavoro nelle sue forme variegate è un obiettivo di politica e di filosofia che implica e richiama ragioni costituzionali ed entra nella più perfetta logica della storia dell’analisi economica.
Rimettere al centro il lavoro significa criticare frontalmente la fase attuale del capitalismo: il capitalismo finanziario. Riuscire a entrare in questo concetto significherebbe aver posto le basi per una rivoluzione culturale che affossi gli ultimi trent’anni di storia dell’economia occidentale. Significherebbe inoltre mettere le basi per un nuovo inizio, di una ripresa ben diversa da quella preannunciata e sempre smentita prima da Monti e poi da Saccomanni. Significherebbe dare attuazione all’articolo Uno dell costituzione italiana.
Da quando Quesnay redasse il suo famoso Tableau, si cominciò a ragionare in termini sistematici dell’economia: per Quesnay c’era una classe di proprietari terrieri che tramite la rendita si appropriavano della ricchezza prodotta dall’unica classe produttrice, quella dell’imprenditoria agricola che riceveva uno e rendeva due, e da una classe sterile composta da lavoratori, commercianti, impiegati cui veniva distribuito ciò che ad essi serviva per sopravvivere. Poi Smith e Ricardo sostituirono all’imprenditoria agricola fisiocratica l’impresa ed il lavoro come produttori di ricchezza in permanenza di una classe parassitaria da superare: quella dei rentiers. Marx poi indico nel solo lavoro (inteso nel senso più vasto) la vera fonte della ricchezza che veniva distribuita in modo classista sfruttando, depauperando, alienando alla classe produttiva la ricchezza profonda per ridistribuirla ad un capitale che accresceva così la sua ricchezza e il suo potere.

Nel mondo odierno ci sono due elementi qualificanti; nel flusso della produzione-distribuzione della ricchezza, che riproduce il modello Smith-Ricardo-Marxiano, si verfica:
a)      il plusvalore appropriato dal capitale non viene più reinvestito nel processo produttivo ma esce da questo processo per entrare nel processo finanziario laddove non c’è assolutamente produzione di reddito ma redistribuzione tra “giocatori di casinò” (li avrebbe chiamati Keynes) della stessa ricchezza. Quindi sottrazione del capitale dal ciclo produttivo e gioco d’azzardo nel ripartirsi il bottino;
b)      i giocatori d’azzardo giungono alla raffinatezza inimmaginabile di ripartirsi ricchezza inesistente, immaginaria, virtuale. Se un metro cubo di cemento dal peso di una tonnellata prima vale 100, poi 110, poi 120, poi 130, poi 140 e così via, tra chi compera e chi acquista redistribuzione di ricchezza, c’è guadagno speculativo socialmente generato. Ma quel metro cubo di cemento è sempre là, sempre grigio, sempre sé stesso, silente e tristemente scettico; non vale socialmente neppure un centesimo di più di quanto valesse prima della incredibile crescita del suo valore di scambio. E la bolla speculativa continua a crescere, chi si arricchisce si è arricchito di una ricchezza inesistente, si è arricchito effettivamente perché si è appropriato di una ricchezza improdotta (income by appropriation) che non c’è.  Finché la bolla esplode ed il cubo di cemento ritorna ad essere semplicemente sé stesso. Nel frattempo si sono spostate ricchezze ingenti, ci sono nuovi ricchi (127.000 italiani nel 2012 neo milionari, come ci dicono gli svizzeri) e outsiders rovinati. Ma se il gioco coinvolgesse solo coloro che vi partecipano la cosa sarebbe anche accettabile. Il fatto è che lo scoppio della bolla speculativa ricade a cascata sulle banche che hanno prestato i soldi ai giocatori d’azzardo, le banche devono essere salvate dallo stato, lo stato deve far quadrare il bilancio fa i tagli crea depressione, il pil scende lo spread sale e la crisi, il gioco omicida del capitalismo finanziario si abbatte infine sui lavoratori, sui disoccupati, sui giovani.

Riaffermare il primato del lavoro significa rifiutare questo capitalismo. E se nella lotta contro il capitalismo finanziario i lavoratori dipendenti si trovano insieme ai lavoratori imprenditori, ebbene ben venga questa alleanza, questo compromesso storico, che è consapevole che la lotta per il lavoro passa attraverso alla affermazione di una nuova qualità della produttività così come è richiesto dal ciclo schumpeteriano che stiamo attraversando.
Solo con queste premesse si potrà sviluppare una sana concorrenza tra welfaristi e liberisti, oggi è necessario ritrovarsi sul ripristino di una concezione di base che vede nel capitalismo finanziario il nemico da battere, sapendo che il nemico non è solo nei grassi speculatori delle vignette di Grosz, ma è una cultura dilagata e dilagante, che si è consolidata nel senso comune di ognuno di noi; nel senso comune di governanti e governati; una cultura difficilissima da battere, ne siano esempio le difficoltà che incontra Obama nel portare avanti, dopo tre anni dalla emanazione, il suo Frank-Dodd act.



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