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venerdì 27 febbraio 2015

DAVVERO TINA HA SEDOTTO ALEXIS T.? di Norberto Fragiacomo




DAVVERO TINA HA SEDOTTO ALEXIS T.?
di
Norberto Fragiacomo



Udendo le breaking news sulla Grecia, ho resistito a stento alla tentazione – martedì e ancor più il giorno innanzi – di sbattere in faccia a Tsipras la mia indignata e impotente desolazione.

Dei giornali di regime non mi fido, ma la loro gioia (maligna) suonava genuina, mentre annunciavano trionfanti “la resa” di Syriza all’Europa dei denari: non solo propaganda, stavolta. Sotto la crosta dei giudizi s’intravvedeva la polpa dei fatti: il programma di rinascita accantonato, le privatizzazioni che si rimettono in moto, le “proposte di riforma” greche scritte sotto dettatura tedesca. Offendeva, in particolare, l’atteggiamento ipocrita (direi di peggio: renziano) di un Alexis Tsipras che stonava vittoria per la sostituzione meramente lessicale di “troika” con “istituzioni” ed il pensionamento della parola (ma solo della parola!) “memorandum”: bene ha fatto l’eroe Manolis Glezos a ricordare al premier che “chiamare la carne pesce non cambia le cose”. Proprio la dura presa di posizione del vecchio partigiano e, a poche ore di distanza, quella del quasi coetaneo Theodorakis hanno fornito la conferma che eurocrazia e media non giubilavano a casaccio, che qualcosa nella macchina della speranza s’era rotto: che il compromesso non era eticamente né politicamente accettabile.

Tsipras traditore, Tsipras infilzato al primo assalto? Avrei detto, due o tre giorni orsono, che il giovane premier ha dimostrato la propria inadeguatezza a gestire una situazione delicatissima, e che la sua principale colpa (al dolo seguito a non credere) consiste nel non aver ideato un piano B. In un articolo pubblicato un mese fa, alla vigilia delle elezioni, mi domandavo se “il programma di Syriza fosse crittato”, contenesse cioè delle clausole per così dire segrete: evidentemente non era così, il greco ha sfidato il Gran Re senza munirsi di lancia, elmo e scudo. Ha cercato, come immaginavo, di protrarre le trattative il più a lungo possibile, ma all’altro capo del tavolo era seduto un muro di cemento, contro il quale le frecce linguistiche sue e di Varoufakis si spuntavano l’una dopo l’altra. Uno/due contro tutti, anche perché (ma Tsipras doveva saperlo) gli altri “porci” – Spagna, Portogallo, Italia e Irlanda – spingevano per la linea dura contro i cugini ellenici. Tsipras doveva saperlo, ripeto, perché l’umiliazione di Syriza rafforza le destre liberal-unioniste al governo nei Paesi mediterranei: una resa ignominiosa della sinistra d’alternativa greca toglierebbe qualsiasi appeal elettorale a movimenti come Podemos, declassati a “voio ma non posso/no puedo”, a inattendibili narratori di fiabe. Il fallimento di Syriza implicava/implica/implicherebbe il definitivo abbandono di qualsiasi velleità di ricostruire l’Europa pacificamente, cioè per via elettorale.

Questo avrei più o meno scritto, aggiungendo che il nuovo – ma in fondo vecchio – governo avrebbe presto incontrato la sua nemesi: la quasi certa spaccatura di Syriza avrebbe costretto il leader ad assoldare una ciurma di rimpiazzi europeisti (Pasok, To Potami, neodemocratici “responsabili”) o, in alternativa, ad affrontare nuove elezioni. In ambedue i casi l’astro di Alexis si sarebbe definitivamente eclissato; nel secondo, in particolare, consultazioni con un tasso di astensione al 90% avrebbero procurato ad Alba Dorata e (forse) al KKE un effimero momento di gloria. Buggerare un Popolo disperato – quello stesso Popolo che acclamava il premier nelle prime giornate di trattativa – equivale politicamente a un’autoevirazione.

Riassumendo: l’intenzione, pur astrattamente lodevole, di ridurre a più miti consigli i vertici comunitari facendo leva sul rispetto dei diritti umani messi in bella copia sulla Carta di Nizza era destinata a scontrarsi con la natura virtuale (appunto: cartacea) di quei principi, foglia di fico di ben più concreti interessi politico-affaristici; pertanto il contraente debole avrebbe dovuto procurarsi strumenti di pressione ulteriori, individuando per tempo un’alternativa realistica anziché puntare le pochissime fiches residue sulla simpatia dell’opinione pubblica europea e sulla torpidezza (nient’affatto dimostrata) delle burocrazie continentali.

Questo pensavo, ma nelle mie indignate certezze s’è ieri insinuato un dubbio – un dubbio che disperatamente inseguivo. Non c’entra nulla con il gioco sporco della UE (la sottrazione del “fondo salva banche” denunciata da Il Fatto), col torvo cipiglio del “diversamente umano” Herr Schäeuble né con il voltafaccia dell’inaffidabile amico americano: tutte queste cose andavano messe in conto. Di per sé anche la conservazione di brandelli di programma elettorale è irrilevante: potrebbero tornare utili per far guadagnare tempo al governo, beninteso sul fronte interno. No, il dubbio si è fatto strada in seguito alla lettura di un bell’articolo di Ettore Livini, apparso sulle pagine del Gerione dei nostri media: Repubblica (http://www.repubblica.it/economia/2015/02/24/news/grecia_ecco_chi_vince_chi_perde_nell_accordo_con_bruxelles-108088546/?ref=search).

L’inviato rivela innanzitutto che il “programma” presentato dal duo di Syriza è in realtà una generica bozza: «Ad aprile il governo Tsipras squadernerà il vero piano di sviluppo per il paese. Il prevedibile via libera di Bruxelles dà quattro mesi di tempo ad Atene per mettere a punto nei dettagli le proposte di riforma presentate oggi a grandi linee.» Inoltre Varoufakis, che ha significativamente parlato di “ambiguità costruttiva”, «è riuscito in zona Cesarini a infilare un bel po' degli impegni presi con gli elettori nel "libro dei sogni" inviato a Bruxelles. Ci sono la promessa della luce gratis e dell'assistenza sanitaria per tutti, il no alla confisca della prima casa delle famiglie povere, i buoni pasto.» A ciò si aggiungono la conferma dell’impegno a reintrodurre un salario minimo dignitoso - non subito, però – e frasi sibilline sulle privatizzazioni che tanto ingolosiscono i mercati: pare che quella delle imprese elettriche sia già stata bloccata, in conformità – si premura di precisare il governo ellenico - alle previsioni di legge (notizia di oggi). «Promesse – soggiunge Livini - del tutto indolori per l'ex Troika visto che potranno essere mantenute solo se e quando ci sarà il via libera di chi ha il portafoglio dalla parte del manico», ma che hanno fruttato al premier l’approvazione a maggioranza del piano da parte dei deputati di Syriza. Furbizia levantina o patetico escamotage ad uso interno? Il dato è che Tsipras guadagna quattro mesi, e che FMI (Lagarde), BCE (Draghi) e Schäuble esprimono nervosismo e sfiducia.

Insomma, il documento greco non è né carne né pesce: lascia aperte possibilità addirittura antitetiche. La situazione non è così chiaramente delineata come pretendevano i gazzettieri festanti: è ambigua, per dirla con Varoufakis. Molto, ora, dipende dalla stoffa del leader, dalla sua capacità (od incapacità) di predisporre quel piano B che, forse per scaramanzia, non ha voluto formulare prima delle elezioni. Quattro mesi sono un lasso di tempo limitato, ma Tsipras adesso ha esperienza diretta di cosa sia la UE, di come vadano le cose a Berlino e Bruxelles. Ha capito, se non è uno sprovveduto, che nessuno gli farà sconti; che persino un (improbabile) esito felice della battaglia contro corruzione ed evasione fiscale non garantirebbe il placet europeo ai suoi piani di contrasto all’onnipresente miseria. Potremmo dire, in giuridichese, che gli viene riconosciuto non un diritto soggettivo ad attuare le politiche promesse, ma un mero interesse legittimo, condizionato all’approvazione altrui. Penso abbia inteso che i mercati ed i loro rappresentanti istituzionali sono e saranno inflessibili nel pretendere privatizzazioni, azzeramento dei diritti e regole all’americana – e che per cambiare l’Europa non basta la buona volontà, così come non basta aver ragione nel merito. Una casa d’appuntamenti non si trasforma in basilica solo perché due clienti hanno abbracciato la fede: per farla (se non altro) chiudere è indispensabile persuadere gli altri avventori a cambiare le loro abitudini. Come? Dando il buon esempio, mostrando di essere capaci di osare.

Il Grand Tour europeo di Tsipras e Varoufakis ha regalato a entrambi (e alla loro causa) un pizzico di notorietà e, come ho già detto, sincera simpatia: ora è tempo di tornare nell’ombra. I quattro mesi di respiro vanno adeguatamente sfruttati. Come? Cercando sponde in giro per il mondo, in primis nell’area mediterranea. Il nemico tradizionale dei greci, la Turchia, mostra insofferenza alla prepotenza occidentale ed è in rotta di collisione con la UE, che non l’ha voluta: sarebbe opportuno allentare vecchie tensioni, normalizzare i rapporti. Poi c’è la Russia di Putin, che anela ad uno sbocco mediterraneo: è con Mosca che potrebbe giocarsi la partita più importante – una partita necessariamente amichevole. Un accordo con i russi (in nome della fratellanza ortodossa o della Realpolitik: fate un po’ voi) spariglierebbe le carte, ma è chiaro che la sua conclusione deve convenire ad entrambi. Un Putin alle strette e voglioso di riscatto avrebbe senz’altro interesse ad un partenariato con una Grecia fuori dalla NATO e dall’Eurozona, disponibile – per esigenze di sopravvivenza – a prestare le proprie basi navali; il Cremlino potrebbe accollarsi senza particolari difficoltà i costi (in fin dei conti modesti) delle misure necessarie a restituire ai greci dignità e benessere scippati da FMI, BCE e UE. L’appoggio russo potrebbe essere anche speso nelle future trattative con Bruxelles, in cambio di un fattivo contributo ellenico alla cancellazione di sanzioni invise ai gruppi industriali del continente. Ad essere onesto, sono scettico sull’ipotesi che l’Unione delle lobby si lasci impressionare – tuttavia la copertura offerta da Mosca (e da Istanbul) amplierebbe i margini di manovra del governo di Atene. Di fronte all’arroganza dei Draghi e degli Schäuble, Alexis Tsipras potrebbe rivolgersi al suo popolo e agli europei, denunciando gli intollerabili ricatti ai danni di tutti noi e presentando la decisione di uscire dalla UE come una scelta di civiltà, un’attestazione di fiducia nel futuro del continente. In fondo, per questi affamatori ed i loro mandanti un’accusa di crimini contro l’umanità è il minimo che si possa pretendere: un futuribile processo potrebbe trasformarsi in una Norimberga del neoliberismo.

Sogni, evidentemente. La realtà comunque incalza: toccherà a Tsipras (e alla sua maggioranza) valutare i pro e i contro di eventuali mosse. Non resti però sordo agli ammonimenti di chi, come Manolis Glezos, per ideali di giustizia e libertà mise a repentaglio la vita: la mancanza di coraggio, più ancora dell’avventatezza, può decretare la fine ingloriosa del suo esperimento e di movimenti come Podemos e la slovena ZL – per non parlare del prezzo insostenibile che noi e le future generazioni saremmo chiamati a pagare.





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