DAVVERO
TINA
HA SEDOTTO ALEXIS
T.?
di
Norberto
Fragiacomo
Udendo
le breaking news
sulla Grecia, ho resistito a stento alla tentazione – martedì e
ancor più il giorno innanzi – di sbattere in faccia a Tsipras la
mia indignata e impotente desolazione.
Dei
giornali di regime non mi fido, ma la loro gioia (maligna) suonava
genuina, mentre annunciavano trionfanti “la resa” di Syriza
all’Europa dei denari: non solo propaganda, stavolta. Sotto la
crosta dei giudizi s’intravvedeva la polpa dei fatti: il programma
di rinascita accantonato, le privatizzazioni che si rimettono in
moto, le “proposte di riforma” greche scritte sotto dettatura
tedesca. Offendeva, in particolare, l’atteggiamento ipocrita (direi
di peggio: renziano)
di un Alexis Tsipras che stonava vittoria per la sostituzione
meramente lessicale di “troika” con “istituzioni” ed il
pensionamento della parola (ma solo della parola!) “memorandum”:
bene ha fatto l’eroe Manolis Glezos a ricordare al premier che
“chiamare la carne pesce non cambia le cose”. Proprio la dura
presa di posizione del vecchio partigiano e, a poche ore di distanza,
quella del quasi coetaneo Theodorakis hanno fornito la conferma che
eurocrazia e media non giubilavano a casaccio, che qualcosa nella
macchina della speranza s’era rotto: che il compromesso non era
eticamente né politicamente accettabile.
Tsipras
traditore, Tsipras infilzato al primo assalto? Avrei detto, due o tre
giorni orsono, che il giovane premier ha dimostrato la propria
inadeguatezza a gestire una situazione delicatissima, e che la sua
principale colpa (al dolo seguito a non credere) consiste nel non
aver ideato un piano B. In un articolo pubblicato un mese fa, alla
vigilia delle elezioni, mi domandavo se “il programma di Syriza
fosse crittato”, contenesse cioè delle clausole per così dire
segrete: evidentemente non era così, il greco ha sfidato il Gran Re
senza munirsi di lancia, elmo e scudo. Ha cercato, come immaginavo,
di protrarre le trattative il più a lungo possibile, ma all’altro
capo del tavolo era seduto un muro di cemento, contro il quale le
frecce linguistiche sue e di Varoufakis si spuntavano l’una dopo
l’altra. Uno/due contro tutti, anche perché (ma Tsipras doveva
saperlo) gli altri “porci” – Spagna, Portogallo, Italia e
Irlanda – spingevano per la linea dura contro i cugini ellenici.
Tsipras doveva
saperlo, ripeto, perché l’umiliazione di Syriza rafforza le destre
liberal-unioniste al governo nei Paesi mediterranei: una resa
ignominiosa della sinistra d’alternativa greca toglierebbe
qualsiasi appeal elettorale a movimenti come Podemos, declassati a
“voio ma non
posso/no puedo”,
a inattendibili narratori di fiabe. Il fallimento di Syriza
implicava/implica/implicherebbe il definitivo abbandono di qualsiasi
velleità di ricostruire l’Europa pacificamente, cioè per via
elettorale.
Questo
avrei più o meno scritto, aggiungendo che il nuovo – ma in fondo
vecchio – governo avrebbe presto incontrato la sua nemesi: la quasi
certa spaccatura di Syriza avrebbe costretto il leader ad assoldare
una ciurma di rimpiazzi europeisti (Pasok, To Potami, neodemocratici
“responsabili”) o, in alternativa, ad affrontare nuove elezioni.
In ambedue i casi l’astro di Alexis si sarebbe definitivamente
eclissato; nel secondo, in particolare, consultazioni con un tasso di
astensione al 90% avrebbero procurato ad Alba Dorata e (forse) al KKE
un effimero momento di gloria. Buggerare un Popolo disperato –
quello stesso Popolo che acclamava il premier nelle prime giornate di
trattativa – equivale politicamente a un’autoevirazione.
Riassumendo:
l’intenzione, pur astrattamente lodevole, di ridurre a più miti
consigli i vertici comunitari facendo leva sul rispetto dei diritti
umani messi in bella copia sulla Carta di Nizza era destinata a
scontrarsi con la natura virtuale (appunto: cartacea) di quei
principi, foglia di fico di ben più concreti interessi
politico-affaristici; pertanto il contraente debole avrebbe dovuto
procurarsi strumenti di pressione ulteriori, individuando per tempo
un’alternativa realistica anziché puntare le pochissime fiches
residue sulla simpatia dell’opinione pubblica europea e sulla
torpidezza (nient’affatto dimostrata) delle burocrazie
continentali.
Questo
pensavo, ma nelle mie indignate certezze s’è ieri insinuato un
dubbio – un dubbio che disperatamente inseguivo. Non c’entra
nulla con il gioco sporco della UE (la sottrazione del “fondo salva
banche” denunciata da Il Fatto), col torvo cipiglio del
“diversamente umano” Herr Schäeuble né con il voltafaccia
dell’inaffidabile amico americano: tutte queste cose andavano messe
in conto. Di per sé anche la conservazione di brandelli di programma
elettorale è irrilevante: potrebbero tornare utili per far
guadagnare tempo al governo, beninteso sul fronte interno. No, il
dubbio si è fatto strada in seguito alla lettura di un bell’articolo
di Ettore Livini, apparso sulle pagine del Gerione dei nostri media:
Repubblica
(http://www.repubblica.it/economia/2015/02/24/news/grecia_ecco_chi_vince_chi_perde_nell_accordo_con_bruxelles-108088546/?ref=search).
L’inviato
rivela innanzitutto che il “programma” presentato dal duo di
Syriza è in realtà una generica bozza: «Ad aprile il governo
Tsipras squadernerà il vero
piano di sviluppo per il paese. Il prevedibile via libera di
Bruxelles dà quattro
mesi di tempo ad
Atene per mettere
a punto nei dettagli le proposte di riforma presentate oggi a grandi
linee.» Inoltre Varoufakis, che ha significativamente parlato di
“ambiguità costruttiva”, «è riuscito in zona Cesarini a
infilare un bel po' degli impegni presi con gli elettori nel "libro
dei sogni" inviato a Bruxelles. Ci sono la promessa della luce
gratis e dell'assistenza sanitaria per tutti, il no alla confisca
della prima casa delle famiglie povere, i buoni pasto.» A ciò si
aggiungono la conferma dell’impegno a reintrodurre un salario
minimo dignitoso - non subito, però – e frasi sibilline sulle
privatizzazioni che tanto ingolosiscono i mercati: pare che quella
delle imprese elettriche sia già stata bloccata, in conformità –
si premura di precisare il governo ellenico - alle previsioni di
legge (notizia di oggi). «Promesse – soggiunge Livini - del tutto
indolori per l'ex Troika visto che potranno essere mantenute solo se
e quando ci sarà il via libera di chi ha il portafoglio dalla parte
del manico», ma che hanno fruttato al premier l’approvazione a
maggioranza del piano da parte dei deputati di Syriza. Furbizia
levantina o patetico escamotage ad uso interno? Il dato è che
Tsipras guadagna quattro mesi, e che FMI (Lagarde), BCE (Draghi) e
Schäuble esprimono nervosismo e sfiducia.
Insomma,
il documento greco non è né carne né pesce: lascia aperte
possibilità addirittura antitetiche. La situazione non è così
chiaramente delineata come pretendevano i gazzettieri festanti: è
ambigua,
per dirla con Varoufakis. Molto, ora, dipende dalla stoffa del
leader, dalla sua capacità (od incapacità) di predisporre quel
piano B che, forse per scaramanzia, non ha voluto formulare prima
delle elezioni. Quattro mesi sono un lasso di tempo limitato, ma
Tsipras adesso ha esperienza diretta di cosa sia la UE, di come
vadano le cose a Berlino e Bruxelles. Ha capito, se non è uno
sprovveduto, che nessuno gli farà sconti; che persino un
(improbabile) esito felice della battaglia contro corruzione ed
evasione fiscale non garantirebbe il placet europeo ai suoi piani di
contrasto all’onnipresente miseria. Potremmo dire, in giuridichese,
che gli viene riconosciuto non un diritto soggettivo ad attuare le
politiche promesse, ma un mero interesse legittimo, condizionato
all’approvazione altrui. Penso abbia inteso che i mercati ed i loro
rappresentanti istituzionali sono e saranno inflessibili nel
pretendere privatizzazioni, azzeramento dei diritti e regole
all’americana – e che per cambiare l’Europa non basta la buona
volontà, così come non basta aver ragione nel merito. Una casa
d’appuntamenti non si trasforma in basilica solo perché due
clienti hanno abbracciato la fede: per farla (se non altro) chiudere
è indispensabile persuadere gli altri avventori a cambiare le loro
abitudini. Come? Dando il buon esempio, mostrando di essere capaci di
osare.
Il
Grand Tour europeo di Tsipras e Varoufakis ha regalato a entrambi (e
alla loro causa) un pizzico di notorietà e, come ho già detto,
sincera simpatia: ora è tempo di tornare nell’ombra. I quattro
mesi di respiro vanno adeguatamente sfruttati. Come? Cercando sponde
in giro per il mondo, in primis nell’area mediterranea. Il nemico
tradizionale dei greci, la Turchia, mostra insofferenza alla
prepotenza occidentale ed è in rotta di collisione con la UE, che
non l’ha voluta: sarebbe opportuno allentare vecchie tensioni,
normalizzare i rapporti. Poi c’è la Russia di Putin, che anela ad
uno sbocco mediterraneo: è con Mosca che potrebbe giocarsi la
partita più importante – una partita necessariamente amichevole.
Un accordo con i russi (in nome della fratellanza ortodossa o della
Realpolitik: fate un po’ voi) spariglierebbe le carte, ma è chiaro
che la sua conclusione deve convenire ad entrambi. Un Putin alle
strette e voglioso di riscatto avrebbe senz’altro interesse ad un
partenariato con una Grecia fuori dalla NATO e dall’Eurozona,
disponibile – per esigenze di sopravvivenza – a prestare le
proprie basi navali; il Cremlino potrebbe accollarsi senza
particolari difficoltà i costi (in fin dei conti modesti) delle
misure necessarie a restituire ai greci dignità e benessere scippati
da FMI, BCE e UE. L’appoggio russo potrebbe essere anche speso
nelle future trattative con Bruxelles, in cambio di un fattivo
contributo ellenico alla cancellazione di sanzioni invise ai gruppi
industriali del continente. Ad essere onesto, sono scettico
sull’ipotesi che l’Unione delle lobby si lasci impressionare –
tuttavia la copertura offerta da Mosca (e da Istanbul) amplierebbe i
margini di manovra del governo di Atene. Di fronte all’arroganza
dei Draghi e degli Schäuble, Alexis Tsipras potrebbe rivolgersi al
suo popolo e agli europei, denunciando gli intollerabili ricatti ai
danni di tutti noi e presentando la decisione di uscire dalla UE come
una scelta di civiltà, un’attestazione di fiducia nel futuro del
continente. In fondo, per questi affamatori ed i loro mandanti
un’accusa di crimini contro l’umanità è il minimo che si possa
pretendere: un futuribile processo potrebbe trasformarsi in una
Norimberga del neoliberismo.
Sogni,
evidentemente. La realtà comunque incalza: toccherà a Tsipras (e
alla sua maggioranza) valutare i pro e i contro di eventuali mosse.
Non resti però sordo agli ammonimenti di chi, come Manolis Glezos,
per ideali di giustizia e libertà mise a repentaglio la vita: la
mancanza di coraggio, più ancora dell’avventatezza, può decretare
la fine ingloriosa del suo esperimento e di movimenti come Podemos e
la slovena ZL – per non parlare del prezzo insostenibile che noi e
le future generazioni saremmo chiamati a pagare.
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