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giovedì 17 marzo 2016

PANORAMA MINIMO di Norberto Fragiacomo





PANORAMA MINIMO 
di Norberto Fragiacomo 




Giornata fredda, azzurra e ventosa, che già si arrende alla sera.
Camminando in mezzo al verde, soccombo alla tentazione di tracciare al volo bilanci in perdita. Quello personale, anzitutto: mai avrei immaginato, da bimbo, un futuro grigio topo come il mio presente. Un mese fa, a Roma, ho sostenuto la quinta e ultima prova di un concorso a tempo indeterminato, che come un’edera si avvinghia all’esistenza quotidiana dal lontano 2010 (bando pubblicato nell’autunno 2009). Ne sono uscito con onore, direi: risultati sensazionali all’inizio (prima manche: 2010-13), più che dignitosi alla fine (seconda manche: 2015-16). Mi correggo: non ne sono ancora uscito, dal momento che – a conclusione di due impegnative tornate concorsuali – le prospettive di effettivo impiego restano evanescenti, ipotetiche. Si trattava di diventare segretari comunali, ma d’improvviso, a primavera 2014, una slide renziana cancella la figura, sopravvissuta nei secoli ad annessioni territoriali, rivolgimenti e riforme. Cancella? Forse le cambia soltanto l’abito, promuovendola (o retrocedendola) a “dirigente apicale”… un dirigente dal ruolo nebuloso, dalle competenze tutte da scrivere. Fino a due anni fa il percorso di carriera era pianificabile, oggi l’iscrizione all’Albo – ma resterà l’Albo? Chissà… - sarà il primo, timoroso passo in una terra incognita. Non più segretari, dunque, ma neppure in prima battuta dirigenti e, di conseguenza, men che meno apicali. Forse ci toccheranno due anni da “funzionari”, in aggiunta a quelli che abbiamo quasi tutti alle spalle, ma su mansioni, trattamento e possibile destinazione il mistero resta fitto: che ne sarà di pubblici fantasmi - né dirigenti né segretari, né questo né quello - abilitati per comuni fino a 3.000 abitanti a fronte di una disciplina che sembra imporre ai piccoli enti l’esercizio della funzione in forma associata? Cerco sollievo nella disciplina regionale in gestazione, e il mio umore peggiora: la bozza menziona fuggevolmente i “colleghi” di fascia A e B, sui C non spende mezza parola. Indegni di “dirigere” e finanche di esistere, nonostante l’accesso alla carriera (?) sia condizionato al superamento di esami scritti ed orali al cui confronto i concorsi per dirigenti pubblici degradano a provette da terza media.


L’amarezza aumenta se considero la mia personalissima situazione per ciò che è: un prodotto, un segno dei tempi. Le generazioni nate a cavallo della guerra assisterono alla sorprendente invenzione dell’ascensore sociale: “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi” citati dalla Costituzione (art. 34/3) ebbero un’effettiva chance di raggiungere non solo “i gradi più alti degli studi”, ma il benessere e un’elevata condizione sociale. Come ho più volte ripetuto, si trattò più di una captatio benevolentiae che di un regalo – l’ascesa comunque ci fu. Oggi è sostanzialmente impossibile, come riconosciuto a Zapping dal professor De Nardis: non avviene più che il figlio di un impiegato o di un operaio “faccia il salto” fino alla cattedra universitaria. Siamo tornati al paradigma della servitù della gleba, del mestiere-di-padre-in-figlio (bene che vada). Certo, ci saranno delle eccezioni, solo alcune delle quali attribuibili a doti o volontà altrettanto eccezionali – non è tuttavia una manciata di fuoriclasse a trainare una società o un Paese, bensì una moltitudine di persone capaci e meritevoli. Oggi i “semplicemente bravi” sono tagliati fuori, a meno che non appartengano alle classi agiate: ai rimanenti tocca rassegnarsi, chiudere nel cassetto i sogni (non di gloria, ma) di impieghi all’altezza, aggrapparsi a lavori routinari da 1.000-1.500 euro al mese. Finché dura, si intende, e solo per quanti abbiano avuto la buona sorte di nascere prima degli anni ‘80. Sui figli del nuovo millennio pietà impone di non soffermarsi: per loro la scuola sarà una vana, se non beffarda perdita di tempo, l’alternarsi di lezioni e stage in azienda li abituerà ad una vita da subordinati cronici. Va di moda pontificare sulle caste, ma non occorre prendere esempio dall’India: assistiamo oggi all’imperioso riemergere di quelle differenze di classe che le riforme sociali del trentennio d’oro avevano un po’ attenuato.

Cosa resta al cittadino declassato a suddito? Davvero poco: non la garanzia della pensione, se ha 40-50 anni, né quella del “posto fisso”, puntello del quotidiano; semmai la ragionevole certezza di morire prima del tempo e con niente in tasca, di non potersi curare per davvero, il dubbio su dove investire quei quattro soldi che ansiosamente è riuscito a racimolare. Voglio essere ottimista: forse la compagnia rigenerante di un buon libro, una serata trascorsa a discorrere, la speranza che il figlio o la nipote abbiano “le mani d’oro” e se la cavino in qualche maniera.

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Probabilmente faremmo meglio a non ascoltare la radio, a non comprare più i giornali: la nostra accresciuta apatia soddisferebbe i desideri di chi, anziché governarci, ci comanda, ma perlomeno ci risparmieremmo scatti di rabbia impotente (fanno male alla salute, e con la crisi della sanità pubblica…).
In Parlamento il PD dice no alla gestione obbligatoriamente pubblica del servizio idrico, e stralcia l’articolo 6 della proposta di legge del M5S. “Stravolto l’esito del referendum!”, protestano i pentastellati – nel merito hanno ragione, ma non tengono conto del fatto che è ormai passato un lustro dal giugno 2011, la volontà popolare è “prescritta”, quella sovraordinata delle lobby si riaffaccia sulla scena. “In via prioritaria è disposto l’affidamento diretto in favore di società interamente pubbliche” e ci promettono pure 50 litri a testa, ma l’acqua se la berranno tutta (e non alla nostra salute) i grandi gruppi privati. Patetici ma sempre arroganti, i difensori del colpo di mano si aggrappano alle formulette pigre cui l’Italia è avvezza: “in considerazione dell’importanza dell’acqua quale bene pubblico di valore fondamentale per i cittadini (…) assicurato alla collettività.” Quanto valgono simili rassicurazioni? Abbastanza se contenute in una Costituzione, meno di zero se disseminate negli articoli d’esordio di una legge: dichiarazioni di principio del tutto analoghe costellavano il testo della Legge Galli, ma non impedirono la furiosa privatizzazione avallata da un’oscena sentenza della Consulta (n. 325/10) e provvisoriamente bloccata dal referendum.
Al pari di sanità e servizi pubblici in generale, l’acqua è un “bene di valore fondamentale” – non per i cittadini però: per chi, potendolo fare, ha deciso di specularci su.

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Il Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia ha deciso di osare, ma non troppo: approva l’obbligo di chiusura degli esercizi commerciali in occasione delle principali festività civili e religiose, ma non estende il divieto di apertura ad un congruo numero di domeniche annue. L’atteggiamento è contraddittorio: se l’intenzione era quella – dichiarata - di “provocare”, spronare all’azione l’inerte Parlamento nazionale, sarebbe stato opportuno un segnale inequivocabile. Tanto, se gli andrà di farlo, il Governo impugnerà comunque, per lesione del diritto di concorrenza, vitello d’oro di cui la UE pretende l’adorazione. Cosa farà allora la Consulta? Tutela e presto anche “promozione” della concorrenza sono competenze esclusive statali, ma una norma salva-feste e salva-domeniche avrebbe assai più profonde radici costituzionali: gli articoli 2, 3, secondo comma, 4 – dove si parla di progresso spirituale della società – 19, 30, 31, 32… e poi il 35, che tutela il lavoro in senso lato, il 36 sul riposo settimanale e soprattutto il 41/2, che vieta all’iniziativa economica privata di “svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”, quella stessa dignità che il mercato, oggidì assurto a “Costituzione materiale” della colonia Italia, calpesta quotidianamente ed impunemente.

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Sfavilla il mare, increspato dalla bora, ma intorno a noi degrado e sciatteria si diffondono. Potrei dilungarmi sullo stato in cui ancora versa il giardino all’italiana di Miramar, ma un esempio migliore – perché meno clamoroso, più “normale” – è quello offerto dal Parco Revoltella, alla periferia di Trieste. Da piccolo ci andavo a giocare, giravo vorticosamente con la grande giostra, ascoltavo il canto degli uccelli, corricchiavo sotto lo sguardo vigile e intenerito del nonno. Ci ho rimesso piede qualche giorno fa: la giostra mi è parsa un relitto, le grandi voliere erano desolatamente vuote. La statua color piombo di Pinocchio, che a tre anni mi intimidiva un poco, c’è ancora, si affaccia però su una vaschetta senz’acqua. Sul fondo nemmeno una monetina… ovunque segni di incuria, quasi di desolazione.
Può sembrare curioso che alla cura maniacale dedicata da Illy e dai suoi successori alle facciate e alle piazze del centro cittadino faccia riscontro un sostanziale abbandono di parchi e giardini periferici, eppure la scelta ha una sua logica – una logica di natura squisitamente economica, affaristica. Bisogna sedurre i turisti, che portano soldi, ai cittadini penseremo semmai dopo. I nonni non pagano per far volare i nipoti sull’altalena: si accontentino di uno scivolo ammaccato, di una giostra semi-inutilizzabile e arrugginita. Si accontentino, appunto.
Che si tratti di acqua o di orari di lavoro, di aspettative di carriera o di parchi giochi, l’essere umano è ormai messo ai margini, lasciato a se stesso in un mondo in rapido disfacimento.


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