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lunedì 26 settembre 2016

NE' UOMINI NE' DONNE: SOLO CONSUMATORI (SRADICATI E ASESSUATI) di Norberto Fragiacomo




NE' UOMINI NE' DONNE: SOLO CONSUMATORI (SRADICATI E ASESSUATI)
di
Norberto Fragiacomo



In quest'ultimo periodo - coinciso, per il sottoscritto, con un forzoso "silenzio stampa" - abbiamo assistito ad un frenetico, sconclusionato dimenarsi delle élite nazionali ed estere. Fatti e fatterelli hanno propiziato dichiarazioni roboanti, prese di posizione, battibecchi e scivoloni (questi ultimi ai piani più bassi). In Italia la falsa partenza del M5S a Roma - dovuta in parte a inesperienza, in parte alla brama di protagonismo di alcuni "cittadini" - è stata venduta dai media di regime come un armageddon: la Raggi è quotidianamente messa in croce per qualsiasi cosa accada, dalle scorribande di ratti extra large (ospiti affezionati della Capitale da sempre) all'allagarsi delle strade in seguito ad un acquazzone. Capitava anche prima? Sì, forse, non ricordo bene... ma la mancata nomina dell'assessore al bilancio ha di sicuro aggravato la situazione, ogni situazione. Nel frattempo, qualche gaffe e un provvidenziale lapsus calami di Di Maio hanno restituito il sorriso al premier, che è tornato il Renzi che conoscevamo: dopo le tirate d'orecchio ricevute da Scalfari, Napolitano e co. causa la rischiosa personalizzazione del referendum, si era infatti un po' defilato, "abbassando i toni"; la tragedia successa in Italia centrale, poi, ci aveva regalato l'istantanea di un governante misurato, compunto e dall'eloquio ispirato (da qualche ghost writer? mi auguro per decenza di no, viste le accuse sarcastiche rivolte dal nostro a D'Alema...).

 Istantanea, dicevo, perché il fiorentino è riemerso dalla breve canossa più sguaiato e sopratono di prima1, forte dell'appoggio garantito al sì referendario da personaggi che avrebbero titolo ad occuparsi di tutt'altro. Velate minacce: di questo erano infarcite le esternazioni dell'ambasciatore USA Philips, di Giorgio l'Emerito, di Frau Merkel (più cauta dei precedenti) e di qualche caporione di Confindustria sempre prodigo di numeri a caso. Attenti, italiani: se vi opporrete alle riforme modernizzatrici (sia quelle realizzate sia quelle in gestazione, e per prima la riscrittura della Costituzione) l'ira dei mercati si abbatterà su di voi! Ma che importa ai mercati della soppressione del CNEL e del depotenziamento del Senato?, potrebbe chiedersi l'ingenuo di turno. Che c'azzecca tutto questo con l'economia reale? C'azzecca, perché sono i potentati economici, oggi, i veri decisori politici, e se hanno ispirato queste - e non altre - riforme, un motivo (o un insieme di motivi) deve pur esserci. Non dirò quale: sono stanco di ripetermi all'infinito.

Anche sulle élite ho speso in passato fiumane di parole. C'è chi le mitizza, chi al contrario ne nega persino l'esistenza, o perlomeno la capacità di influenzare uomini ed eventi. Quanti vivono di complotti sono arcisicuri della loro capacità di determinare ogni cosa, dallo sviluppo delle nazioni alla più insignificante nomina in un remoto consiglio di amministrazione: gli onniscienti tentacoli della piovra arrivano ovunque. In verità sono ben poche le persone dotate di raziocinio che fanno propria una simile visione del mondo: molte di più sono le caricature disegnate a proprio uso e consumo dai c.d. opinion makers, che ritoccano abilmente riflessioni e asserti individuali allo scopo di screditare in blocco i contestatori dello status quo, vendutici come pazzi o cialtroni (ci sono anche questi e quelli, ovviamente, e non mancano i disinformatori).

Nel variegato universo di sinistra, invece, abbondano i "minimizzatori", quelli che degradano finanzieri, supermanager e relativi lacchè a mosche cocchiere, foglie nel vento che, malgrado cattive intenzioni e sforzi, non incidono davvero sulla realtà. Ad essere determinanti sarebbero soltanto i meccanismi dell'accumulazione economica, le esigenze di autoriproduzione e autoconservazione del Capitale: gli imprenditori non meno che i salariati ci vengono descritti come pedine, strumenti quasi inconsapevoli. Le origini di questa concezione assai diffusa possono farsi risalire a un'opera "minore", ma per certi versi pregevolissima: l'Antidűhring di Friedrich Engels, che ho riletto di recente.

Si tratta di un testo ambizioso, fin troppo, in cui l'autore si diffonde su questioni che vanno dalla matematica all'evoluzionismo (Darwin è citato con apprezzamento), dalla storia militare alle dottrine socialiste. Alcuni capitoli, dovuti in parte alla penna di Marx o da lui ispirati, riassumono efficacemente il contenuto del Capitale: per questo motivo il saggio è stato da molti considerato una sorta di introduzione al marxismo. Rispetto al "fratello maggiore", Engels ci appare meno incline al dubbio, più assertivo e (mi si passi il termine) dogmatico: certi passaggi sull'impossibilità di affinare ulteriormente l'arte militare, clamorosamente smentiti dagli eventi successivi, suonano un po’ ingenui, al pari dell’entusiastica esaltazione della dialettica, che ci fornisce senz’altro utili schemi per leggere e catalogare il reale, ma diventa un po’ “ingombrante” se le affibbiamo il ruolo di legge che governa l’universo, o pretendiamo di scorgere in essa una forza invisibile ed implacabile che somiglia non poco alla famosa volontà schopenaueriana. Certe forzature sono comunque ampiamente compensate dalla serietà dell’indagine e dalle notevoli doti che Engels dimostra come scrittore: il suo caustico, schietto, intelligente umorismo sarà invano imitato da generazioni di marxisti successivi, sovente più inclini a maneggiare lo spadone del sarcasmo che il fioretto dell’ironia.

Resta però un fatto: considerandosi una sorta di esecutore testamentario dell’amico, Friedrich Engels riporta i risultati raggiunti da Marx più che continuarne l’incessante ricerca, e talora dà l’impressione di scambiare l’abbozzo per un quadro rifinito e immutabile. Cito a mo di esempio un paio di frasi pescate a pagina 332 del libro nell’edizione di Lotta Comunista: “La semplice possibilità effettiva di estendere l’ambito della sua produzione, si trasforma per lui (cioè per il padrone) in un’imposizione di egual natura. La enorme forza espansiva della grande industria, di fronte alla quale quella dei gas è un vero giuoco da bambini, si presenta ora ai nostri occhi come un bisogno (questo corsivo è dell’Autore) di espansione sia qualitativa che quantitativa che si beffa di ogni pressione contraria.” Se interpretiamo questi periodi (e svariati altri) alla lettera siamo portati a concludere che, secondo Engels, sono le forze produttive che, oltre a fare la Storia, guidano ogni singola azione di ciascun “padrone”. Quest’ultimo, che si tratti di un piccolo imprenditore o di una multinazionale, ci si presenta come un ostaggio delle forze economiche, un soggetto non libero (sia pure relativamente) ma vincolato, che agisce in perenne stato di necessità – e dunque manco può essere ritenuto responsabile dei suoi atti. Direbbero i giuristi: non agit sed agitur. In questa costante, forsennata lotta per la sopravvivenza non c’è spazio per alleanze di classe, tanto meno per strategie di lungo periodo.

Personalmente sono dell’avviso che le forze produttive condizionino potentemente, ma non determinino il comportamento umano, lasciando al singolo (ai singoli) un notevole margine di discrezionalità. Robert Owen e Adriano Olivetti si sottrassero alla logica “imperativa” dello sfruttamento, eppure ottennero strepitosi risultati in termini di redditività d’impresa. Eccezioni, direte: d’accordo, guardiamo il fenomeno più in generale. Marx stesso attesta che, di fronte al calo tendenziale del tasso di profitto, gli imprenditori possono reagire in svariate maniere, alcune più efficaci di altre: sono in grado cioè di elaborare delle strategie, che sul breve-medio termine possono rivelarsi vincenti. Il successo dipende da molti fattori, fra i quali le capacità di manipolare la politica e colonizzare le menti. Il Capitalismo è di sicuro destinato ad implodere, ma per chi scrive non è indifferente che ciò avvenga fra cinque o cinquecento anni… e la tempistica dipende non solo da “forze” impersonali: la volontà umana gioca un suo ruolo. Adoperiamo una metafora che forse piacerebbe a Bersani: il capitalista non è un temerario che prova inutilmente ad aggrapparsi alla criniera di un purosangue selvaggio e indomabile, così come non è un centauro mitologico. E’ piuttosto un cavaliere provetto che fa del suo meglio2 per tenere sotto controllo la bestia lanciata al galoppo, anche se non sempre vi riesce3.

Oggi l’èlite economica appare saldamente in sella, malgrado gli scossoni subiti: dalle capitali di New York e Washington il suo potere si irradia sull’Europa intera, colonizzata e asservita (Ttip e Tisa docent), e tiranneggia buona parte del resto del globo. Ha uno scopo: succhiare l’intera ricchezza disponibile – e sa dove trovarla. Sa anche (o pensa di sapere) come mansuefare e togliere ogni velleità di rivolta alle vittime della predazione in corso.

Qualche giorno fa, abbandonando la carrozza del treno che mi riportava a casa da Bologna, ho incrociato per così dire lo sguardo con una faccia che giganteggiava sulla copertina della rivista di Trenitalia. Un volto pallido, androgino, dai tratti gradevolmente angolosi che non tradiva alcuna identità sessuale, complici anche la capigliatura a spazzola, vestiti di foggia indecifrabile e gli occhi desolatamente vuoti che sono il marchio di fabbrica di modelle e modelli. Accanto, una scritta esplicativa, rigorosamente in inglese: Genderless STYLE. Ho provato un brivido, che aveva il sapore della premonizione: ecco a voi l’umano del futuro, un camaleonte né uomo né donna. Oggi va di moda l’espressione “identità di genere”, e sembra a molti una bellissima novità, quasi una rivoluzione culturale. Basta con la divisione in sessi, che perpetua l’ingiustizia del patriarcato: mettiamo ciascun essere umano nelle condizioni di scegliere da sé ciò che vuole essere - maschio, femmina o, appunto, genderless -, conformandosi alle proprie inclinazioni, a impulsi durevoli o passeggeri. Saremo tutti più liberi e felici – ci viene promesso – non appena ci saremo affrancati da convenzioni tanto autoritarie quanto stantie.

Cos’è che non funziona in questo annuncio di uguaglianza? Non funzionano i presupposti, anzitutto: sia voi che io apparteniamo ad un unico genere (“homo”) che a sua volta, dopo la scomparsa di neandertaliani, denisoviani e “hobbit”, annovera una sola specie (“sapiens sapiens”: una definizione alquanto generosa). A distinguerci dal punto di vista della biologia non è pertanto il genere, ma il sesso: siamo tutti, con marginalissime eccezioni, maschi o femmine. Malgrado una delle sue accezioni abbia oramai preso il sopravvento, “sesso” non è una parola brutta né sconveniente: non per caso la ritroviamo nell’articolo 3 della Costituzione, dove si parla di pari dignità e di uguaglianza – e l’uguaglianza fra uomini e donne si persegue con azioni concrete, non con camuffamenti linguistici. Resta da domandarsi se questi alchimisti della linguistica siano guidati da ingenuità, bizzarria o, invece, da qualcosa d’altro.

Quel camaleonte da copertina spacciato per araldo di una benefica modernità acquista, a ben vedere, le sembianze di un sinistro prototipo: preannuncia un domani di entità instabili, capaci di passare con disinvoltura da un ruolo maschile ad uno femminile – individui scissi, sessualmente schizofrenici e disperatamente soli. Intubato in abiti unisex, probabilmente vegetariano-insettivoro, lanciato in una corsa senza respiro ma non in grado di concepire una meta, il consumatore finale-genderless sfiorerà nella vita milioni di suoi simili (soprattutto nel chiuso della rete) senza mai stabilire un vero contatto umano. Più che al trionfo della sospirata eguaglianza assisteremo a quello dell’omologazione capitalista, con strade, uffici e centri commerciali invasi da un’infinità di replicanti, difficili da distinguere ma lontanissimi l’uno dall’altro.

L’inquietante foto di copertina de La Freccia celebra, con poco anticipo, il trionfo sull’umanità che le èlite affaristiche agognano, e che sembra loro a portata di mano. Non a torto: molti passi sono stati già compiuti verso il traguardo dell’omologazione totale, della standardizzazione dei consumatori (e, per l’effetto, dei consumi). Pensiamo ad un termine ancor più aborrito di “sesso”: mi riferisco a “razza”. La teorizzazione ottocentesca di una gerarchia delle razze umane (al cui vertice stava l’uomo nordico), dovuta a pensatori come Gobineau e Chamberlain, ispirò un regime – quello nazionalsocialista - e crimini fra i più odiosi della Storia: è del tutto naturale che per chi aveva ancora negli orecchi le grida minacciose dei membri della Herrenrasse tedesca, la parola “razza”, in qualsiasi lingua pronunciata, assumesse un suono lugubre, sinistro. Le emozioni si rispettano, ma devono cedere pian piano il passo al raziocinio. La nostra Costituzione antifascista ripudia aberrazioni come nazionalismo e razzismo, non il termine in sé: “senza distinzione di razza” troviamo scritto al già citato articolo 3, primo comma. Mancanza di sensibilità? No davvero: i padri costituenti adoperarono un concetto descrittivo comunemente accolto. Poi venne la famosa, amara battuta di Albert Einstein sulla “razza umana”, che forse qualcuno interpretò come un suggerimento: oggidì le persone inorridiscono al solo sentir pronunciare questo vocabolo di cinque lettere, e subito si rifugiano nella formula salvifica predisposta per loro da qualche scienziato - esiste una sola specie umana, le razze non esistono! In effetti, nelle classificazioni della biologia troviamo tipi, classi, ordini, famiglie, generi e specie ma non razze, e le tesi di Gobineau ecc. non hanno avuto alcun riscontro scientifico (le “trasferte” delle SS in Tibet, Islanda ecc. non approdarono a nulla). Insomma, homines sapientissimi sumus… L’argomento però non mi pare definitivo. Anche cani e cavalli appartengono ad un’unica specie, eppure si parla correntemente di razze equine e canine: non mi è mai capitato di sentir rivolgere accuse di fascismo o nazismo a chi magnificava le doti del suo pastore tedesco o del suo bassethound “di razza”!

Se è vero che il termine “razza” ha una valenza meramente descrittiva e non scientifica, e che fra tutte le specie viventi l’uomo è la più adattabile ai diversi ambienti naturali e, di conseguenza, quella che ha spontaneamente raggiunto il maggior grado di differenziazione al suo interno, non vedo per quale ragione non si possa tranquillamente discettare di “razze umane”, come fecero gli autori della Carta. Un norvegese e un boscimano sono distantissimi sia dal punto di vista culturale (per noi il più significativo, visto che siamo uomini) che da quello dell’aspetto esteriore: sono “eguali” soltanto nei diritti da riconoscere loro e nella dignità – proprio quei diritti e quella dignità di cui il Capitale fa quotidianamente strame.

Sorge allora il sospetto che tutta questa ritrosia ad adoperare il sostantivo “razza”, ma anche un valido sostituto come etnia o termini innocui come nazionalità ecc., questi anatemi pronunciati ad ogni piè sospinto da governanti e finanzieri nient’affatto inclini alla compassione verso il prossimo abbiano più a che fare con il ripudio della varietà umana che non con quello di un passato oscuro. In un’epoca di globalizzazione, cioè di enorme concentrazione economica, conviene al Capitale che le modalità di consumo si uniformino ovunque (es. di McDonald’s) e che venga meno ogni legame umano con la cultura e il territorio4. La tendenza alla concentrazione non riguarda infatti solo le forze produttive, ma anche gli individui, sollecitati a confluire in un’unica massa umana indifferenziata, priva di radicamento e facilmente controllabile – una massa che esprima una domanda standardizzata.

Per accelerare il processo vari sono gli strumenti disponibili: tramite guerre, epidemie e carestie è possibile provocare lo spostamento di popoli interi, che si riversano in terre già abitate, creando tensioni, incertezza e spaesamento.

A queste grandi forze centripete le popolazioni europee non paiono oggi attrezzate ad opporsi efficacemente. Paradossalmente sono piuttosto gli immigrati islamici ad aver sviluppato degli anticorpi: ce lo indica indirettamente la recente polemica sul c.d. burkini, difeso da alcuni nostri intellettuali e da altri stigmatizzato come espressione di sudditanza femminile e arretratezza. La vicenda può essere letta in altra maniera: molte giovani musulmane, intervistate dai giornali, hanno rivendicato la libertà della propria scelta di indossarlo (lo stesso discorso vale per il velo), interpretandolo come un segno identitario. Quando queste ragazze, in genere acculturate, motivano la propria decisione con la volontà di offrire la vista del loro corpo solamente al marito (o, al limite, ai familiari) esse si ammantano implicitamente di una superiorità morale/valoriale nei nostri confronti, e lanciano una sfida alle società ospitanti, sinonimo ai loro occhi di vacuo laicismo e avido consumismo capitalista.

Hanno le loro ragioni, ma quest’atteggiamento contribuisce ad accrescere la confusione sotto il cielo – e la situazione, come sperimentiamo ogni giorno, non è affatto eccellente.

Come può reagire il comune cittadino, preoccupato ma in apparenza impotente? Secondo me, provando a riscoprire le sue radici profonde, che sono la cultura, le usanze, il cibo, il vino, il folklore, i prodotti e le tradizioni locali (alludo, ad es., alle proprietà collettive e agli usi civici), i dialetti – non perché “superiori” a quelle altrui, semplicemente per il loro essere elementi costitutivi di una specifica identità.

Anni fa, su un muro di Trieste, un buontempone tracciò la scritta “meno Internet e più Cabernet!” Chissà se si rendeva conto di aver concepito un autentico slogan rivoluzionario…



NOTE

1 L’arte oratoria di Renzi mescola tre ingredienti: la rapidità dell’eloquio, l’abilità nel coniare slogan ad effetto e l’inclinazione a giocare sporco, disorientando l’avversario con attacchi personali “a freddo”. Come è emerso dal confronto televisivo di giovedì 22 con Marco Travaglio, il premier, nei momenti di scarsa vena “creativa”, moltiplica i colpi sotto la cintura - che possono però ritorcersi contro di lui, se l’interlocutore è reattivo e ha studiato a fondo le tecniche comunicative del rignanese.

2 Magari organizzando corsi di marxismo per manager tenuti da esperti della materia (la testimonianza è di Hobsbawm).

3 Metafora di riserva per lettori meno sportivi e più acculturati: il Marchionne di turno, e il Gotha di cui fa parte, non sono un attore che improvvisa sulla scena, ma nemmeno un doppiatore polacco che si limita a leggere meccanicamente il copione – sono interpreti che, pur senza stravolgere il testo, sono in grado di adattarlo e apportarvi delle modifiche suggerite dalle circostanze o dal tipo di pubblico.

4 Nel suo libro ANNO ZERO, dedicato al 1945, lo studioso americano Ian Buruma attesta che, secondo alcuni alti funzionari britannici, “la malattia tedesca poteva essere curata solo attraverso «una vasta mescolanza di sangue con cittadini di altre nazioni»” (pag. 307). Simili suggerimenti non furono immediatamente accolti, ma l’auspicata «vasta mescolanza» si realizzò comunque in Germania ovest a partire dagli anni ’50-’60.




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