NE'
UOMINI NE' DONNE: SOLO CONSUMATORI
(SRADICATI E ASESSUATI)
di
Norberto
Fragiacomo
In
quest'ultimo periodo - coinciso, per il sottoscritto, con un forzoso
"silenzio stampa" - abbiamo assistito ad un frenetico,
sconclusionato dimenarsi delle élite nazionali ed estere. Fatti e
fatterelli hanno propiziato dichiarazioni roboanti, prese di
posizione, battibecchi e scivoloni (questi ultimi ai piani più
bassi). In Italia la falsa partenza del M5S a Roma - dovuta in parte
a inesperienza, in parte alla brama di protagonismo di alcuni
"cittadini" - è stata venduta dai media di regime come un
armageddon: la Raggi è quotidianamente messa in croce per qualsiasi
cosa accada, dalle scorribande di ratti extra large (ospiti
affezionati della Capitale da sempre) all'allagarsi delle strade in
seguito ad un acquazzone. Capitava anche prima? Sì, forse, non
ricordo bene... ma la mancata nomina dell'assessore al bilancio ha di
sicuro aggravato la situazione, ogni
situazione.
Nel frattempo, qualche gaffe e un provvidenziale lapsus
calami di
Di Maio hanno restituito il sorriso al premier, che è tornato il
Renzi che conoscevamo: dopo le tirate d'orecchio ricevute da
Scalfari, Napolitano e co. causa la rischiosa personalizzazione del
referendum, si era infatti un po' defilato, "abbassando i toni";
la tragedia successa in Italia centrale, poi, ci aveva regalato
l'istantanea di un governante misurato, compunto e dall'eloquio
ispirato (da qualche ghost
writer?
mi auguro per decenza di no, viste le accuse sarcastiche rivolte dal
nostro a D'Alema...).
Istantanea,
dicevo, perché il fiorentino è riemerso dalla breve canossa più
sguaiato e sopratono di prima1,
forte dell'appoggio garantito al sì referendario da personaggi che
avrebbero titolo ad occuparsi di tutt'altro. Velate minacce: di
questo erano infarcite le esternazioni dell'ambasciatore USA Philips,
di Giorgio l'Emerito, di Frau Merkel (più cauta dei precedenti) e di
qualche caporione di Confindustria sempre prodigo di numeri a caso.
Attenti, italiani: se vi opporrete alle riforme modernizzatrici (sia
quelle realizzate sia quelle in gestazione, e per prima la
riscrittura della Costituzione) l'ira dei mercati si abbatterà su di
voi! Ma che importa ai mercati della soppressione del CNEL e del
depotenziamento del Senato?, potrebbe chiedersi l'ingenuo di turno.
Che c'azzecca tutto questo con l'economia reale? C'azzecca, perché
sono i potentati economici, oggi, i veri decisori politici, e se
hanno ispirato queste - e non altre - riforme, un motivo (o un
insieme di motivi) deve pur esserci. Non dirò quale: sono stanco di
ripetermi all'infinito.
Anche
sulle élite ho speso in passato fiumane di parole. C'è chi le
mitizza, chi al contrario ne nega persino l'esistenza, o perlomeno la
capacità di influenzare uomini ed eventi. Quanti vivono di complotti
sono arcisicuri della loro capacità di determinare ogni cosa, dallo
sviluppo delle nazioni alla più insignificante nomina in un remoto
consiglio di amministrazione: gli onniscienti tentacoli della piovra
arrivano ovunque. In verità sono ben poche le persone dotate di
raziocinio che fanno propria una simile visione del mondo: molte di
più sono le caricature disegnate a proprio uso e consumo dai c.d.
opinion
makers,
che ritoccano abilmente riflessioni e asserti individuali allo scopo
di screditare in blocco i contestatori dello status quo, vendutici
come pazzi o cialtroni (ci sono anche questi e quelli, ovviamente, e
non mancano i disinformatori).
Nel
variegato universo di sinistra, invece, abbondano i "minimizzatori",
quelli che degradano finanzieri, supermanager e relativi lacchè a
mosche cocchiere, foglie nel vento che, malgrado cattive intenzioni e
sforzi, non incidono davvero sulla realtà. Ad essere determinanti
sarebbero soltanto i meccanismi dell'accumulazione economica, le
esigenze di autoriproduzione e autoconservazione del Capitale: gli
imprenditori non meno che i salariati ci vengono descritti come
pedine, strumenti quasi inconsapevoli. Le origini di questa
concezione assai diffusa possono farsi risalire a un'opera "minore",
ma per certi versi pregevolissima: l'Antidűhring
di Friedrich Engels, che ho riletto di recente.
Si
tratta di un testo ambizioso, fin troppo, in cui l'autore
si diffonde su questioni che vanno dalla matematica all'evoluzionismo
(Darwin è citato con apprezzamento), dalla storia militare alle
dottrine socialiste. Alcuni capitoli, dovuti in parte alla penna di
Marx o da lui ispirati, riassumono efficacemente il contenuto del
Capitale: per questo motivo il saggio è stato da molti considerato
una sorta di introduzione al marxismo. Rispetto al "fratello
maggiore", Engels ci appare meno incline al dubbio, più
assertivo e (mi si passi il termine) dogmatico: certi passaggi
sull'impossibilità di affinare ulteriormente l'arte militare,
clamorosamente smentiti dagli eventi successivi, suonano un po’
ingenui, al pari dell’entusiastica esaltazione della dialettica,
che ci fornisce senz’altro utili schemi per leggere e catalogare il
reale, ma diventa un po’ “ingombrante” se le affibbiamo il
ruolo di legge che governa l’universo, o pretendiamo di scorgere in
essa una forza invisibile ed implacabile che somiglia non poco alla
famosa volontà
schopenaueriana. Certe forzature sono comunque ampiamente compensate
dalla serietà dell’indagine e dalle notevoli doti che Engels
dimostra come scrittore: il suo caustico, schietto, intelligente
umorismo sarà invano imitato da generazioni di marxisti successivi,
sovente più inclini a maneggiare lo spadone del sarcasmo che il
fioretto dell’ironia.
Resta
però un fatto: considerandosi una sorta di esecutore testamentario
dell’amico, Friedrich Engels riporta i risultati raggiunti da Marx
più che continuarne l’incessante ricerca, e talora dà
l’impressione di scambiare l’abbozzo per un quadro rifinito e
immutabile. Cito a mo di esempio un paio di frasi pescate a pagina
332 del libro nell’edizione di Lotta Comunista: “La semplice
possibilità effettiva di estendere l’ambito della sua produzione,
si trasforma per lui (cioè per il padrone) in un’imposizione
di egual natura. La enorme forza espansiva della grande industria, di
fronte alla quale quella dei gas è un vero giuoco da bambini, si
presenta ora ai nostri occhi come un bisogno
(questo corsivo è dell’Autore) di espansione sia qualitativa che
quantitativa che si beffa di ogni pressione contraria.” Se
interpretiamo questi periodi (e svariati altri) alla
lettera
siamo portati a concludere che, secondo Engels, sono le forze
produttive che, oltre a fare la Storia, guidano ogni singola azione
di ciascun “padrone”. Quest’ultimo, che si tratti di un piccolo
imprenditore o di una multinazionale, ci si presenta come un ostaggio
delle forze economiche, un soggetto non
libero (sia pure relativamente) ma vincolato, che agisce in perenne
stato di necessità – e dunque manco può essere ritenuto
responsabile dei suoi atti. Direbbero i giuristi: non
agit sed agitur.
In questa costante, forsennata lotta per la sopravvivenza non c’è
spazio per alleanze di classe, tanto meno per strategie di lungo
periodo.
Personalmente
sono dell’avviso che le forze produttive condizionino potentemente,
ma non determinino il comportamento umano, lasciando al singolo (ai
singoli) un notevole margine di discrezionalità. Robert Owen e
Adriano Olivetti si sottrassero alla logica “imperativa” dello
sfruttamento, eppure ottennero strepitosi risultati in termini di
redditività d’impresa. Eccezioni, direte: d’accordo, guardiamo
il fenomeno più in generale. Marx stesso attesta che, di fronte al
calo tendenziale del tasso di profitto, gli imprenditori possono
reagire in svariate maniere, alcune più efficaci di altre: sono in
grado cioè di elaborare delle strategie,
che sul breve-medio termine possono rivelarsi vincenti. Il successo
dipende da molti fattori, fra i quali le capacità di manipolare la
politica e colonizzare le menti. Il Capitalismo è di sicuro
destinato ad implodere, ma per chi scrive non è indifferente che ciò
avvenga fra cinque o cinquecento anni… e la tempistica dipende non
solo da “forze” impersonali: la volontà umana gioca un suo
ruolo. Adoperiamo una metafora che forse piacerebbe a Bersani: il
capitalista non
è
un temerario che prova inutilmente ad aggrapparsi alla criniera di un
purosangue selvaggio e indomabile, così come non
è
un centauro mitologico. E’ piuttosto un cavaliere provetto che fa
del suo meglio2
per tenere sotto controllo la bestia lanciata al galoppo, anche se
non sempre vi riesce3.
Oggi
l’èlite economica appare saldamente in sella, malgrado gli
scossoni subiti: dalle capitali di New York e Washington il suo
potere si irradia sull’Europa intera, colonizzata e asservita (Ttip
e Tisa docent),
e tiranneggia buona parte del resto del globo. Ha uno scopo:
succhiare l’intera ricchezza disponibile – e sa dove trovarla. Sa
anche (o pensa di sapere) come mansuefare e togliere ogni velleità
di rivolta alle vittime della predazione in corso.
Qualche
giorno fa, abbandonando la carrozza del treno che mi riportava a casa
da Bologna, ho incrociato per così dire lo sguardo con una faccia
che giganteggiava sulla copertina della rivista di Trenitalia. Un
volto pallido, androgino, dai tratti gradevolmente angolosi che non
tradiva alcuna identità sessuale, complici anche la capigliatura a
spazzola, vestiti di foggia indecifrabile e gli occhi desolatamente
vuoti che sono il marchio di fabbrica di modelle e modelli. Accanto,
una scritta esplicativa, rigorosamente in inglese: Genderless
STYLE.
Ho provato un brivido, che aveva il sapore della premonizione: ecco a
voi l’umano del futuro, un camaleonte né uomo né donna. Oggi va
di moda l’espressione “identità di genere”, e sembra a molti
una bellissima novità, quasi una rivoluzione culturale. Basta con la
divisione in sessi, che perpetua l’ingiustizia del patriarcato:
mettiamo ciascun essere umano nelle condizioni di scegliere da sé
ciò che vuole essere - maschio, femmina o, appunto, genderless
-, conformandosi alle proprie inclinazioni, a impulsi durevoli o
passeggeri. Saremo tutti più liberi e felici – ci viene promesso –
non appena ci saremo affrancati da convenzioni tanto autoritarie
quanto stantie.
Cos’è
che non funziona in questo annuncio di uguaglianza?
Non funzionano i presupposti, anzitutto: sia voi che io apparteniamo
ad un unico genere (“homo”)
che a sua volta, dopo la scomparsa di neandertaliani, denisoviani e
“hobbit”, annovera una sola specie (“sapiens
sapiens”:
una definizione alquanto generosa). A distinguerci dal punto di vista
della biologia non è pertanto il genere, ma il sesso:
siamo tutti, con marginalissime eccezioni, maschi o femmine. Malgrado
una delle sue accezioni abbia oramai preso il sopravvento, “sesso”
non è una parola brutta né sconveniente: non per caso la ritroviamo
nell’articolo 3 della Costituzione, dove si parla di pari dignità
e di uguaglianza – e l’uguaglianza fra uomini e donne si persegue
con azioni concrete, non con camuffamenti linguistici. Resta da
domandarsi se questi alchimisti della linguistica siano guidati da
ingenuità, bizzarria o, invece, da qualcosa d’altro.
Quel
camaleonte da copertina spacciato per araldo di una benefica
modernità acquista, a ben vedere, le sembianze di un sinistro
prototipo: preannuncia un domani di entità instabili, capaci di
passare con disinvoltura da un ruolo maschile ad uno femminile –
individui scissi, sessualmente schizofrenici e disperatamente soli.
Intubato in abiti unisex, probabilmente vegetariano-insettivoro,
lanciato in una corsa senza respiro ma non in grado di concepire una
meta, il consumatore
finale-genderless sfiorerà
nella vita milioni di suoi simili (soprattutto nel chiuso della rete)
senza mai stabilire un vero contatto umano. Più che al trionfo della
sospirata eguaglianza assisteremo a quello dell’omologazione
capitalista, con strade, uffici e centri commerciali invasi da
un’infinità di replicanti, difficili da distinguere ma
lontanissimi l’uno dall’altro.
L’inquietante
foto di copertina de La Freccia celebra, con poco anticipo, il
trionfo sull’umanità che le èlite affaristiche agognano, e che
sembra loro a portata di mano. Non a torto: molti passi sono stati
già compiuti verso il traguardo dell’omologazione totale, della
standardizzazione dei consumatori (e, per l’effetto, dei consumi).
Pensiamo ad un termine ancor più aborrito di “sesso”: mi
riferisco a “razza”. La teorizzazione ottocentesca di una
gerarchia delle razze umane (al cui vertice stava l’uomo nordico),
dovuta a pensatori come Gobineau e Chamberlain, ispirò un regime –
quello nazionalsocialista - e crimini fra i più odiosi della Storia:
è del tutto naturale che per chi aveva ancora negli orecchi le grida
minacciose dei membri della Herrenrasse
tedesca, la parola “razza”, in qualsiasi lingua pronunciata,
assumesse un suono lugubre, sinistro. Le emozioni si rispettano, ma
devono cedere pian piano il passo al raziocinio. La nostra
Costituzione antifascista ripudia aberrazioni come nazionalismo e
razzismo, non il termine in sé: “senza distinzione di razza”
troviamo scritto al già citato articolo 3, primo comma. Mancanza di
sensibilità? No davvero: i padri costituenti adoperarono un concetto
descrittivo comunemente accolto. Poi venne la famosa, amara battuta
di Albert Einstein sulla “razza umana”, che forse qualcuno
interpretò come un suggerimento: oggidì le persone inorridiscono al
solo sentir pronunciare questo vocabolo di cinque lettere, e subito
si rifugiano nella formula salvifica predisposta per loro da qualche
scienziato - esiste una sola specie umana, le
razze non esistono!
In effetti, nelle classificazioni della biologia troviamo tipi,
classi, ordini, famiglie, generi e specie ma
non
razze, e le tesi di Gobineau ecc. non hanno avuto alcun riscontro
scientifico (le “trasferte” delle SS in Tibet, Islanda ecc. non
approdarono a nulla). Insomma,
homines sapientissimi sumus…
L’argomento però non mi pare definitivo. Anche cani e cavalli
appartengono ad un’unica specie, eppure si parla correntemente di
razze equine e canine: non mi è mai capitato di sentir rivolgere
accuse di fascismo o nazismo a chi magnificava le doti del suo
pastore tedesco o del suo bassethound “di razza”!
Se
è vero che il termine “razza” ha una valenza meramente
descrittiva e non scientifica, e che fra tutte le specie viventi
l’uomo è la più adattabile ai diversi ambienti naturali e, di
conseguenza, quella che ha spontaneamente raggiunto il maggior grado
di differenziazione al suo interno, non vedo per quale ragione non si
possa tranquillamente discettare di “razze umane”, come fecero
gli autori della Carta. Un norvegese e un boscimano sono
distantissimi sia dal punto di vista culturale (per noi il più
significativo, visto che siamo uomini) che da quello dell’aspetto
esteriore: sono “eguali” soltanto nei diritti da riconoscere loro
e nella dignità – proprio quei diritti e quella dignità di cui il
Capitale fa quotidianamente strame.
Sorge
allora il sospetto che tutta questa ritrosia ad adoperare il
sostantivo “razza”, ma anche un valido sostituto come etnia o
termini innocui come nazionalità ecc., questi anatemi pronunciati ad
ogni piè sospinto da governanti e finanzieri nient’affatto inclini
alla compassione verso il prossimo abbiano più a che fare con il
ripudio della varietà
umana che non con quello di un passato oscuro. In un’epoca di
globalizzazione, cioè di enorme concentrazione economica, conviene
al Capitale che le modalità di consumo si uniformino ovunque (es. di
McDonald’s) e che venga meno ogni legame umano con la cultura e il
territorio4.
La tendenza alla concentrazione non riguarda infatti solo le forze
produttive, ma anche gli individui, sollecitati a confluire in
un’unica massa umana indifferenziata, priva di radicamento e
facilmente controllabile – una massa che esprima una domanda
standardizzata.
Per
accelerare il processo vari sono gli strumenti disponibili: tramite
guerre, epidemie e carestie è possibile provocare lo spostamento di
popoli interi, che si riversano in terre già abitate, creando
tensioni, incertezza e spaesamento.
A
queste grandi forze centripete le popolazioni europee non paiono oggi
attrezzate ad opporsi efficacemente. Paradossalmente sono piuttosto
gli immigrati islamici ad aver sviluppato degli anticorpi: ce lo
indica indirettamente la recente polemica sul c.d. burkini, difeso da
alcuni nostri intellettuali e da altri stigmatizzato come espressione
di sudditanza femminile e arretratezza. La vicenda può essere letta
in altra maniera: molte giovani musulmane, intervistate dai giornali,
hanno rivendicato la libertà della propria scelta di indossarlo (lo
stesso discorso vale per il velo), interpretandolo come un segno
identitario. Quando queste ragazze, in genere acculturate, motivano
la propria decisione con la volontà di offrire la vista del loro
corpo solamente al marito (o, al limite, ai familiari) esse si
ammantano implicitamente di una superiorità morale/valoriale nei
nostri confronti, e lanciano una sfida alle società ospitanti,
sinonimo ai loro occhi di vacuo laicismo e avido consumismo
capitalista.
Hanno
le loro ragioni, ma quest’atteggiamento contribuisce ad accrescere
la confusione sotto il cielo – e la situazione, come sperimentiamo
ogni giorno, non è affatto eccellente.
Come
può reagire il comune cittadino, preoccupato ma in apparenza
impotente? Secondo me, provando a riscoprire le sue radici profonde,
che sono la cultura, le usanze, il cibo, il vino, il folklore, i
prodotti e le tradizioni locali (alludo, ad es., alle proprietà
collettive e agli usi civici), i dialetti – non perché “superiori”
a quelle altrui, semplicemente per il loro essere elementi
costitutivi di una specifica identità.
Anni
fa, su un muro di Trieste, un buontempone tracciò la scritta “meno
Internet e più Cabernet!” Chissà se si rendeva conto di aver
concepito un autentico slogan rivoluzionario…
NOTE
1
L’arte oratoria di Renzi mescola tre ingredienti: la rapidità
dell’eloquio, l’abilità nel coniare slogan ad effetto e
l’inclinazione a giocare sporco, disorientando l’avversario con
attacchi personali “a freddo”. Come è emerso dal confronto
televisivo di giovedì 22 con Marco Travaglio, il premier, nei
momenti di scarsa vena “creativa”, moltiplica i colpi sotto la
cintura - che possono però ritorcersi contro di lui, se
l’interlocutore è reattivo e ha studiato a fondo le tecniche
comunicative del rignanese.
2
Magari organizzando corsi di marxismo per manager tenuti da esperti
della materia (la testimonianza è di Hobsbawm).
3
Metafora di riserva per lettori meno sportivi e più acculturati: il
Marchionne di turno, e il Gotha di cui fa parte, non sono un attore
che improvvisa sulla scena, ma nemmeno un doppiatore polacco che si
limita a leggere meccanicamente il copione – sono interpreti
che, pur senza stravolgere il testo, sono in grado di adattarlo e
apportarvi delle modifiche suggerite dalle circostanze o dal tipo di
pubblico.
4
Nel suo libro ANNO ZERO, dedicato al 1945, lo studioso americano Ian
Buruma attesta che, secondo alcuni alti funzionari britannici, “la
malattia tedesca poteva essere curata solo attraverso «una vasta
mescolanza di sangue con cittadini di altre nazioni»” (pag. 307).
Simili suggerimenti non furono immediatamente accolti, ma
l’auspicata «vasta mescolanza» si realizzò comunque in Germania
ovest a partire dagli anni ’50-’60.
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