IL NUOVO CULTO DI BERLINGUER
di Antonio Moscato
Berlinguer era stato dimenticato per anni, come Togliatti, d’altra parte. Il “nuovismo” imperante negli ultimi decenni nell’area che proveniva dal PCI non aveva bisogno di riferimenti a predecessori lontani. In genere si usava retoricamente il solo Gramsci, come martire e come grande pensatore, mutilato e deformato però dalla lettura che ne facevano Beppe Vacca e la sua numerosa scuola, che escludeva totalmente il Gramsci dell’Ordine Nuovo, interprete dell’esperienza dei soviet in Italia, e stravolgeva il senso di molte osservazioni forzatamente criptiche del Quaderni dal carcere, in particolare leggendo il tema dell’egemonia come un’anticipazione di molte scelte togliattiane di collaborazione di classe, ovviamente nascondendo il cenno gramsciano a Lenin come esempio di applicazione corretta dell’egemonia.
Togliatti era svanito da tempo dall’orizzonte dei nuovi traghettatori perché la sua famosa doppiezza lo aveva obbligato a coprire con riferimenti ai classici marxisti le scelte di collaborazione di classe, prima condizionate dalle esigenze della burocrazia staliniana, poi ribadite in base alla prospettiva di un sia pur lontano accesso a un nuovo governo interclassista. Peraltro Togliatti era riaffiorato come riferimento mitologico dell’insignificante PdCI quando aveva ottenuto per Diliberto la stessa scrivania di Guardasigilli che era stata del “Migliore”, ma con non migliore esito. Solo questo partito, in vista dell’imminente cinquantesimo anniversario della morte di Togliatti, organizza una celebrazione del tutto rituale, con la partecipazione di Domenico Losurdo.
Berlinguer era stato accantonato meno in fretta, sia perché amato dalla vecchia “base” per la sua semplicità, sia per le molte interpretazioni possibili delle sue proposte. Di lui aveva fatto a lungo un pessimo uso gran parte di Rifondazione, ma era solo un residuato del passato, conseguenza della estrema povertà di dibattito teorico e anche politico in quel partito.
Ma anche la riscoperta di questi giorni da parte di Renzi e di tutta la sua corte, con il martellamento quasi ossessivo sul “grande e indimenticabile” Berlinguer, sarebbe inspiegabile se non si tenesse conto che come molte altre scelte del PD renziano questa è un sottoprodotto dell’offensiva di Beppe Grillo, che in varie occasioni si è recentemente presentato come vero erede del moralizzatore Berlinguer; in particolare nell’ultimo comizio “oceanico” a piazza San Giovanni, Casaleggio aveva invitato con successo la folla a scandire “Berlinguer-Berlinguer”.
Il pezzo forte delle celebrazioni è stato naturalmente il supplemento de “l’Unità”, di ben 96 pagine nel formato del quotidiano. Colpisce l’incapacità di identificare le idee che lo dovrebbero rendere attuale. Molti interventi, come osserva giustamente Luciana Castellina nello stesso supplemento, dipingono Berlinguer solo “come un uomo buono ed onesto”, e nel farlo “appiattiscono la sua impronta politica che è stata, invece, anche molto controversa, spesso combattuta quando era in vita non solo dai suoi nemici dichiarati”. D’altra parte gran parte dei pochi articoli interessanti sono dovuti a personaggi che lo combatterono, come Claudio Martelli, che in quegli anni era il vice di Bettino Craxi, o Pierre Carniti che continua a ritenere sbagliata la scelta della difesa della scala mobile, o il democristiano Guido Bodrato, che esprime dubbi sull’attribuzione ad Aldo Moro di una volontà di arrivare a una “terza fase” in cui cessasse la conventio ad excludendum e il PCI fosse legittimato a governare. E anche, vedremo, Napolitano, in una non recentissima intervista concessa a Veltroni e riprodotta in parte nel fascicolo celebrativo.
Non sembra che ci sia nel PD un’intenzione seria di riproporre Berlinguer come vero punto di riferimento politico. Soprattutto perché sarebbe difficile farlo, data l’estrema lontananza della situazione attuale rispetto a quegli anni, e l’assenza di una riflessione autocritica sulla serie di fallimenti che il tentativo di Berlinguer collezionò. Il più grave è proprio quello del compromesso storico: lanciato nel 1973 a partire da una lettura mistificante dell’esperienza di Unidad Popular, questa proposta strategica aveva accumulato in pochi anni insuccessi notevoli perché si basava su molti presupposti sbagliati: prima di tutto fingeva di ignorare che nel 1973 Allende era stato eletto presidente in Parlamento con i voti determinanti della DC, che lo aveva condizionato limitandone il programma, prima di passare dalla parte dei golpisti insieme alla Chiesa. Anche Allende sapeva bene che non si può governare col 51% (che per giunta non aveva affatto) ma si era illuso di poter ottenere la benevolenza di una DC che esprimeva interessi di classe contrapposti. Sul Cile si veda sul sito tra l’altro Il Cile a 40 anni da Allende - Dossier.
Lo stesso “errore” era stato fatto nel ‘44-’47 in Italia da Togliatti. In realtà allora non di “errore” si trattava, ma di una scelta dettata dall’URSS nel quadro della spartizione del mondo, ed era stata pagata a caro prezzo. Vedi su questo: PER UN BILANCIO DEI GOVERNI DI UNITÀ NAZIONALE (1944-1947)
Lo stesso Togliatti, in un editoriale di «Rinascita» non firmato ma sicuramente suo, già nell'agosto 1946 aveva ventilato l'ipotesi di un fallimento del tentativo di «compromesso» che caratterizzava l'unità antifascista. Proprio da quell’articolo era stato ripreso il nome:
Era evidente - ed era anche, bisogna ricordarlo, normale - che i conservatori italiani potessero aderire alla politica delle forze più avanzate del blocco antifascista unicamente al patto di avere tra le mani solide garanzie. I conservatori italiani dovevano assicurarsi che la liquidazione politica del fascismo, il raggiungimento delle condizioni politiche di un normale sviluppo democratico, non coincidessero con modificazioni profonde o addirittura rivoluzionarie della struttura economica italiana. Esistevano tutte le condizioni, dunque, perché in seno al fronte antifascista, tra le sue grandi ali, si addivenisse a un preciso compromesso. La natura del compromesso non poteva essere basata che su questi punti: rinunzia ad impostazioni economiche di tipo rivoluzionario; direzione della vita economica [...] lasciata, nei punti decisivi, alle forze conservatrici.
In cambio le forze di sinistra dovevano chiedere un argine alle «eventuali conseguenze, minacciosamente antisociali e antinazionali», del liberismo sfrenato, «riforme minime» e «sviluppo dell'iniziativa popolare per sopperire in qualche modo alle necessità più urgenti e venire incontro all'angosciosa situazione delle masse». Non c'è dubbio che la franchezza era ammirevole. Togliatti concludeva in questo modo:
Il compromesso lasciava aperte, quindi, due prospettive: quella della democratizzazione delpaese nel suo complesso, permettendo il conseguimento degli obiettivi politici fondamentali, e quella della stessa democratizzazione degli stessi conservatori italiani, ove avessero saputo, e voluto, prendere coscienza delle condizioni reali della vita economica e della lotta politica in Italia. Il compromesso del fronte antifascista apriva una grande ipoteca, garantita dalla possibile intelligenza posseduta dai conservatori italiani. Disgraziatamente si deve riconoscere, oggi, che mai ipoteca fu peggio garantita. [in «Rinascita», a. III, n. 8, agosto 1946]
Incredibile che una politica debba aspettarsi il cambiamento, la “democratizzazione” e l’intelligenza dell’avversario. A mio parere non era impossibile rendersi conto subito di come sarebbero andate a finire le cose. Le forze borghesi hanno avuto la meglio perché, pagando un prezzo in fondo sopportabile, sono riuscite a ricostruire il loro Stato e la loro economia, nonché a riprendersi in un secondo tempo larga parte di quanto avevano ceduto, senza pensare minimamente a farsi “democratizzare”. All’origine in Togliatti e in Berlinguer c’era la stessa illusione che si trattasse solo di una questione di “intelligenza” e non di precisi interessi di classe. La DC veniva considerata un “grande partito popolare” e non il principale partito della borghesia italiana, solo perché aveva una base di massa, anche se passiva e coinvolta con le briciole della corruzione. Comunque fu proprio quell'editoriale a suggerire a Berlinguer il nome di «compromesso storico».
In ogni caso Enrico Berlinguer, dopo un severo ammonimento ricevuto dall’arretramento del partito nelle elezioni politiche del 1979, in cui arretrò del 4%, dovette cominciare un disimpegno dalla posizione scomodissima di puntello a un sistema di poteri locali e clientele che facevano capo ad Andreotti nel Lazio (e in Sicilia…), De Mita e Gava in Campania, Forlani nelle Marche, Bisaglia nel Veneto. Lo stesso Berlinguer denunciava questa situazione in una intervista a Eugenio Scalfari apparsa su Repubblica il 28 luglio 1981, in cui spiegava la necessità di passare dalla “solidarietà nazionale” inaugurata il giorno del rapimento di Aldo Moro a una non meglio definita “alternativa democratica”. Quell’intervista, da cui sono stati estratti spesso piccoli stralci, poteva più utilmente essere riprodotta per dare l’idea della proposta del Berlinguer “tornato a sinistra”. Un’intervista che allora suscitò un duro attacco pubblico (inimmaginabile fino a quel momento nel PCI) da parte di Giorgio Napolitano, che la rivendica ancora nell’intervista fattagli da Veltroni nel 2013 per un suo libro “Quando c’era Berlinguer”: Napolitano temeva che l’intervista di Berlinguer apparsa su Repubblica “rischiasse di portare all’isolamento del PCI”… Napolitano gli contrapponeva il modello, secondo lui più duttile, di Togliatti, ma era una forzatura. Non c’erano differenze sostanziali.
Anche l’austerità predicata ai lavoratori come virtù, non era una novità: il PCI l’aveva giustificata ampiamente nel 1944-1947 quando era al governo, sempre per il “bene dell’Italia”. Il risultato era stato l’avvio del miracolo italiano, che aveva rafforzato il capitalismo italiano, ma era stato pagato con le durissime condizioni salariali e occupazionali dei lavoratori. Negli anni Settanta però l’austerità era meno accettabile da parte di una classe operaia che aveva il ricordo recente di molte lotte vittoriose, e si trovava di fronte all’emergere di rivelazioni sugli arricchimenti folli dovuti alla corruzione. Non occorre arrivare a Tangentopoli, già nel 1976 erano venuti fuori i casi delle tangenti pagate dalla Lockeed a politici e militari di vari paesi tra cui l’Italia per vendere i propri aerei. Dopo i Paesi Bassi (in cui fu implicata la stessa corona), il Giappone e la Germania, risultò coinvolta anche l’Italia, e nel 1978 si dovette dimettere il presidente della Repubblica Giovanni Leone, DC. Anche molti altri esponenti della DC, del PSDI e del PSI erano già stati toccati dagli scandali. La contraddizione del PCI era che denunciava gli scandali, ma aspirava ad essere ammesso al governo con quelle forze, e a ottenere da quei corrotti un riconoscimento della sua democraticità…
I successi nelle elezioni amministrative degli anni Settanta, sottoprodotto sfalsato negli anni della grande ondata di lotte del 1968-1973, avevano portato molte regioni e le più importanti città del centro nord ad essere governate dalle sinistre. Era cambiata così rapidamente in quelle zone la struttura del partito, che era divenuto dispensatore di appalti, di incarichi in consigli di amministrazione, e anche un vero ufficio di collocamento.
Berlinguer in quegli anni aveva spostato a destra l’asse del partito con un metodo inedito fino a quel momento, le interviste a grandi quotidiani borghesi più che all’Unità. Così gli iscritti al PCI ad esempio si erano trovati sul “Corriere della sera” una dichiarazione di Berlinguer che dichiarava di sentirsi più sicuro sotto “l’ombrello protettivo” della NATO. Era il giugno 1976. Secondo una ricostruzione fatta da Giovanni Fasanella e Corrado Incerti, in un libro con prefazione di Veltroni e Vacca, all’origine ci sarebbe stato un tentativo di assassinio di Berlinguer da parte dei servizi segreti bulgari o sovietici attraverso un sospetto incidente stradale a Sofia nell’ottobre del 1973: ma sembra una spiegazione poco convincente. Non solo perché Berlinguer ci avrebbe messo tre anni a elaborare la risposta, tre anni in cui la NATO non era migliorata in nulla, ma perché aveva scelto non casualmente la vigilia di una scadenza elettorale per lanciare la sua bomba ideologica.
Passeranno altri cinque anni per un’altra solenne dichiarazione; in una “Tribuna politica”del 15 dicembre 1981, Enrico Berlinguer dà per esaurita la “spinta propulsiva” che aveva avuto la sua data di inizio nella rivoluzione d’ottobre. Un capolavoro di ambiguità: la spinta propulsiva si era interrotta in realtà molti decenni prima, e le società sorte intorno all’URSS al termine della seconda guerra mondiale avevano rivelato contraddizioni profonde e crisi drammatiche fin dagli anni Cinquanta. D’altra parte che la presa di distanza fosse (come già di fronte al 1968 cecoslovacco) reticente, emergeva dal mancato sostegno ai militanti scampati alla repressione burocratica. A partire da Jiri Pelikan, che pure di Berlinguer era stato amico personale ai tempi in cui erano entrambi dirigenti delle organizzazioni giovanili dei rispettivi partiti comunisti, e che chiese invano la tessera al PCI dopo essersi rifugiato in Italia.
Ma il ricordo più frequente, che ha contribuito a creare il mito di Berlinguer, è quello che sottolinea il suo impegno davanti ai cancelli della Fiat in lotta il 26 settembre 1980. Riprendo la ricostruzione fatta da un protagonista, Raffaello Renzacci, nel quarto capitolo di Cento e… uno anni di FIAT:
Nelle intenzioni della federazione torinese del Pci, che aveva organizzato la venuta di Berlinguer a Torino, il segretario avrebbe dovuto in giornata visitare informalmente i presidi di alcuni stabilimenti e rinviare al comizio serale in piazza S.Carlo le sue prese di posizione ufficiali. Ma come ricorda Lorenzo Gianotti che era segretario della federazione torinese, “nello stabilire il programma dei colloqui informali non si prevede l’effetto attesa… ad attenderlo non si trovano i picchetti di sciopero, ma una folla enorme ” e Berlinguer “ ..viene fatto salire su un palco improvvisato” per prendere la parola. Durante uno di questi incontri con gli operai, alla porta 5 di Mirafiori, Liberato Norcia chiese a Berlinguer, a nome di tutto il Consiglio di Fabbrica, quale atteggiamento avrebbe assunto il Pci nell’eventualità di una vera e propria occupazione della fabbrica.
Berlinguer, come era nel suo stile, rispose misurando attentamente le parole: “L’eventualità che trovandosi di fronte ad un ritardo nella soluzione della vertenza, a una intransigenza che rimanga da parte dei dirigenti della Fiat, si debba giungere a forme più acute di lotta, comprese forme di occupazione (applausi) .. Ripeto che queste forme di lotta - come del resto è avvenuto nelle settimane passate, come avviene credo ogni giorno – dovranno essere discusse e decise dai lavoratori stessi nelle loro assemblee. Se si giungerà a questo, è evidente che ci dovrà essere un grande movimento in tutto il paese – oltre, naturalmente, in primo luogo, nella città di Torino, in Piemonte – per sostenere i lavoratori che saranno impegnati in queste più acute, più stringenti, e anche più pesanti forme di lotta. E in questo senso, potete esserne certi, vi sarà l’impegno politico, organizzativo e anche di idee e di esperienza del Partito Comunista …”[1]
Intorno a questa dichiarazione di Enrico Berlinguer – ricorda Renzacci - si aprì una accanita discussione, sia direttamente nella vicenda sindacale, sia sul piano della ricostruzione storiografica. Romiti ricorda che il vertice Fiat si allarmò molto: “ telefonammo a Cossiga (allora presidente del Consiglio Ndr)e ci lamentammo di questo. Il presidente del Consiglio buttò acqua sul fuoco: che cosa vuole Romiti, quello è un partito d’opposizione, noi non possiamo farci niente, auguriamoci che non accada nulla, se poi davvero decideranno di occupare la Fiat, vedremo che cosa si potrà fare “. Nei giorni immediatamente successivi alla conclusione della lotta alla Fiat, Gerardo Chiaromonte, a proposito del ruolo del suo partito, precisò: “ il PCI non ha incitato all’occupazione delle fabbriche, né si è dichiarato favorevole a queste forme di lotta. Berlinguer ha detto un’altra cosa: ha detto che, se il sindacato e gli operai fossero stati costretti ad adottare questa forma acuta di lotta, noi saremmo stati con gli operai… Ripeto: nel concreto ci siamo adoperati in ogni modo ed in ogni sede, perché non si giungesse alla occupazione “. Piero Fassino, tre anni dopo, ricostruì la vicenda in questo modo: “..io ricordo benissimo, per quello che può valere questo ricordo da un punto di vista storico, che la sera prima, arrivato Berlinguer a Torino, parlammo con lui della situazione e affrontammo questa questione (l’occupazione NdA)e fummo d’accordo sul fatto che questa scelta andava evitata perché erano molto maggiori i rischi e i costi che i benefici politici che ci potevano venire “[2].
In sostanza nel mito c’è dunque un fondo di verità: Berlinguer in base al copione non doveva parlare ai cancelli, ma doveva farlo soltanto la sera in piazza San Carlo, in un contesto ben diverso. Si fece invece conquistare dall’emozione di fronte a una massa così grande che lo acclamava, ma effettivamente non incoraggiò l’occupazione dello stabilimento, di cui si discuteva già da molti giorni, e che l’apparato sindacale e di partito non voleva assolutamente. Disse però le parole che molti operai si aspettavano da lui e che rinviavano a una discussione nelle assemblee, nel caso di una intransigenza da parte della FIAT che non era solo possibile ma già in atto. In questo modo l’apparato recuperò fiducia e consensi, e riuscì a chiudere la vertenza violentando le decisioni del “Consiglione” al cinema Smeraldo, e falsando clamorosamente i risultati delle votazioni sull’accordo in molte assemblee. “Se Berlinguer sapesse”… pensavano allora molti operai conquistati dal suo gesto. Quell’apparato, appartenente al PCI ma legato soprattutto a Lama, il segretario generale della CGIL ed esponente della corrente migliorista del partito, sarebbe poi riuscito a contribuire al fallimento del referendum contro l’abolizione della scala mobile, che aveva impegnato gli ultimi giorni di Berlinguer e che si tenne dopo la sua morte.
In contrapposizione alle tante celebrazioni vuote e rituali, come quella tenuta alla Camera con la partecipazione della presidente Laura Boldrini, che trasformano Berlinguer in un santino, va segnalata una lucida osservazione di Alberto Burgio nel quadro di un articolo più generale (“Corruzione, il sistema non è riformabile”, il manifesto, 15/6/14). Burgio parte da lontano, tracciando un quadro desolante che parte dallo scandalo della Banca Romana, e passa per i giolittiani “governi della malavita”, la corruzione dilagante nel regime fascista, per esplodere periodicamente nella Prima e Seconda Repubblica. Burgio ricorda che ci fu però “un pur breve tempo – tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso – in cui le cose parvero andare altrimenti”, e lo riconduce alla storia del PCI nei primi cinquant’anni della sua vita, vista come “una preziosa dissonanza”. Ma riconduce la fine di quel periodo proprio alla segreteria Berlinguer:
Poi, nel corso degli anni Settanta, le belle bandiere furono ammainate. In questi giorni ricordiamo l’ultimo grande segretario del PCI scomparso trent’anni or sono. La figura umana e morale di Enrico Berlinguer è nel cuore di tutti. Ma non si dice abbastanza forte che durante una prima lunga fase della sua segreteria il partito cambiò volto. Si burocratizzò e divenne il partito degli amministratori, secolarizzandosi nel senso meno nobile del termine.
Ho ovviamente molti dubbi sulla postdatazione della burocratizzazione, che era ben presente fin dagli inizi del “partito nuovo” di Togliatti, ma è interessante comunque la conclusione della ricostruzione di Burgio:
Rimango dell’idea che anche di questo, che per lui fu un dramma, Berlinguer morì. Quando – avvertita la necessità di alzare il tiro contro l’arroganza dei padroni e le discriminazioni di genere, contro l’acquiescenza all’imperialismo americano e, appunto, il dilagare della corruzione – scoprì che la battaglia era da combattersi già dentro il partito, e che nemmeno qui l’esito era acquisito. Sta di fatto che, morto Berlinguer, il PCI si normalizza e, ancor prima di chiudere i battenti, cessa di essere una contraddizione. Per questo non regge all’implosione della “Prima Repubblica” né, tanto meno, si mostra capace di guidare una rinascita. Anzi viene travolto, senza un’apparente ragione.
Può essere che la scoperta del fallimento della politica del compromesso storico sia stato un “dramma” che abbia accelerato la sua morte, ma la sostanza del ragionamento di Burgio è che Berlinguer ha scoperto troppo tardi cosa stava diventando il partito che dirigeva, ha tentato di riparare al danno fatto, ma senza riuscirci. Per questo la sua tardiva riflessione non serve molto a un partito come il PD, che del vecchio PCI ha conservato solo alcuni difetti.
Tanto più perché rileggendo alcuni suoi scritti meno contingenti, come la famosa intervista concessa a Scalfari nel 1981, risulta chiaro che anche sulla questione morale Berlinguer dice cose banali, che possono servire benissimo anche a Grillo, come: “I partiti hanno degenerato, e questa è l’origine dei malanni d’Italia”. Ma riporto integralmente il passo più significativo:
La questione morale non si esaurisce nel fatto che essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia di oggi, secondo noi comunisti, fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano.
Ma Berlinguer non aveva nessuna soluzione, come emerge chiaro dalla risposta a Scalfari che gli chiede: “Le cause politiche che hanno provocato questo sfascio morale. Me ne dica una”. La risposta è: “Le dico quella che secondo me è la causa prima e decisiva: la discriminazione contro di noi”. Il che prova semplicemente che non aveva nessun sospetto che la corruzione fosse connessa all’enorme sperequazione tra le ricchezze sempre più grandi di pochi capitalisti e le privazioni di una massa impoverita, a cui lo stesso PCI predicava la bellezza dei sacrifici e dell’austerità. In sostanza Berlinguer proponeva allora la stessa “soluzione” che propone oggi il M5S contro la “casta”: “a far pulizia ci pensiamo noi…”
[1] Perotti – Revelli, op. cit. p.46
[2] In un’intervista registrata per un periodico della federazione del PCI e mai pubblicata, allora, riprodotta poi su Bandiera Rossa, N° 8-9, 1990
16 giugno 2014
dal sito Movimento Operaio
1 commento:
Interessante articolo, che però fa troppe concessioni alla buona fede dell'uomo Berlinguer e dell'apparato di partito di cui era espressione.
A questo proposito ho trovato superiore l'articolo linkato: il golpe cileno fu semplicemente un'occasione spuria per sbolognare ai militanti la rincorsa alla piena integrazione col sistema, già decisa da anni. La questione morale fu un modo per ridarsi una patina di diversità dopo il fallimento del compromesso storico battendo su un tasto perfettamente inoffensivo per il sistema (anzi interno alla sua logica) come quello della lotta alla corrusione. Il richiamo a una democrazia "più piena" deve leggersi come "più efficiente".
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