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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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martedì 26 aprile 2011

Borghesia italiana fellona di Amadeo Bordiga


Da "Battaglia Comunista", n. 11 del 1949
IERI
Dal 1882 al 1914 l'Italia è stata nella Triplice Alleanza con l'Austria e la Germania con gran dispetto di tutti i democratici italiani. Questi però ce la fecero a stracciare la cambiale e allo scoppio della Prima Guerra Europea nell'agosto 1914 impedirono l'intervento a termini del trattato finché nel "radioso maggio" del '15 le forze popolari della democrazia pacifista - alla testa D'Annunzio e Mussolini - riuscirono a travolgere le resistenze di monarchia governo e parlamento attuando la guerra dall'altra parte, a fianco dell'Intesa della Francia e dell'Inghilterra.
Su questo schema storico parte la campagna della opposizione odierna al Patto Atlantico, all'alleanza di guerra dello Stato italiano con il capitalismo americano.
È comodo per la propaganda, fatta secondo il facile avvio di oggi "a braccia", buttare avanti di questi paralleli e buttarsi sullo slogan che la storia si ripete.
Ma se è indubitato che il materiale della storia è fondamentale guida alla politica dell'oggi, due cose sono necessarie, che entrambe danno fastidio ai demagoghi da baraccone: adoperare una storia non falsificata, ed inquadrare lo sviluppo dei rapporti dalla loro vecchia disposizione a quella nuova.
Che i democratici italiani mal gradissero la politica triplicista e la battessero con valanghe di retorica in prosa e in versi è vero ed è perfettamente spiegabile. L'unità nazionale, mezzo per il consolidamento nella penisola del potere della borghesia liberale, si era fatta con guerre contro l'Austria e aveva lasciato indietro la rivendicazione irredentista di toglierle ancora il Trentino e la Giulia, regioni in parte di lingua italiana. Vero che la Prussia aveva aiutato nella terza guerra a sanare le batoste di Lissa e Custoza, vero che la Francia ove non fosse stata battuta dalla stessa Prussia a Sedan nel '70 avrebbe impedita la conquista di Roma. Ma tutto l'armamentario politico ed ideologico della democrazia borghese confluiva sempre al di sopra di queste contraddizioni nelle simpatie ardenti per i regimi e la storia liberale classica di Francia e d'Inghilterra sullo sfondo di tinte massoniche ed antivaticane, di smaccate ammirazioni parlamentaristiche.
Le carte dei democratici di mezzo secolo sono dunque in regola. Ma che debbano servire di passaporto a movimenti di oggi che pretendono di richiamarsi alla classe proletaria e al socialismo, è altra cosa.
Per tal gente è articolo di fede che il socialismo altro non è che una sottospecie della democrazia, il proletariato oggi dovrebbe agire secondo le direttive delle forze democratiche come una frazione di esse, naturalmente avanzata e progressiva.
Ma questo era già un falso nella situazione della Triplice e già allora quelli che impostavano la quistione mobilitando la classe operaia sulla scia irredentista e interventista, dopo aver tentato di incanalarvela colla prima fase di neutralismo e pacifismo, meritarono senza appello la condanna di rinnegati e traditori.
I ricalcatori di quella strada nella situazione di oggi meritano quindi in pieno la definizione di allievi di Mussolini, già guadagnata loro a tutti voti per la politica fatta nella guerra recente.
Nel 1914 la classe operaia ed il partito socialista lottarono in modo risoluto contro la politica borghese di alleanze di blocchi e di guerra non soltanto quando si trattò di impedire che avesse effetto l'impegno triplicista, ma anche quando il governo borghese, la monarchia, gli stessi nazionalisti della guerra per la guerra (coerenti anche loro) abbracciati all'ombra del tricolore coi democratici classici e coi pochi traditori delle nostre file, si buttarono sconciamente nell'interventismo anglofrancofilo.
Questa decisa opposizione del proletariato avente senso di classe ad entrambi i mercati imperialistici della borghesia, mantenuta anche durante la guerra, determinò una situazione utile e attiva per le forze rivoluzionarie, anche se non si svolse storicamente (per ragioni oggettive e di indirizzo insufficiente del movimento) nella trasformazione della guerra delle nazioni in guerra civile, che gloriosamente realizzarono i bolscevichi. Essa doveva preludere, se altre deviazioni e tradimenti non avessero intossicato la via al movimento della classe operaia, alla aperta impostazione di questi problemi non secondo gli interessi del Paese della Patria e della Nazione, ossia della borghesia che ci opprime, ma sulla sola base delle prospettive rivoluzionarie internazionali.
OGGI
A parte la condizione disgraziatamente involutiva e degenerativa del movimento classista, è palese che la situazione in cui dinanzi alle prospettive di una guerra generale si trova lo Stato borghese italiano, non ha nulla a che fare con quella del 1914 e anche con quella del 1939 perché, pur risalendo sempre la causa delle guerre agli sviluppi dell'imperialismo capitalista, ben diverso peso e dinamica ha il governo di Roma nel quadro mondiale.
Questo governo di servitori e di scagnozzi non può fare né interventismo né neutralismo, può solo seguire degli ordini e obbedire ad imposizioni e minacce. Non ha una forza di guerra autonoma da mettere in vendita speculando sul sangue dei lavoratori, oggi per dollari come ieri per sterline e per marchi, nemmeno può fare campagne basate su fantasie egemoniche o subegemoniche conquistate con avventure di guerra.
Nulla muterebbe, se la opposizione fosse al potere, in questa condizione di impotenza. Tutti i partiti dell'attuale parlamento hanno contribuito a questa situazione - e se essa potesse avere sviluppi rivoluzionari noi gioiremmo che essa calpesti l'orgoglio nazionale - col loro atteggiamento bloccardo durante la guerra ultima, in politica interna ed estera. È inaudito che i ciarlatani della attuale opposizione osino definire come la terza aggressione dell'America quella che si prepara. Certe bocche sporcano la verità; sono le bocche di quelli che fremevano di gioia agli sbarchi in Africa e in Francia solo perché li avvicinavano ad una divisa di ministri borghesi, sognata tra i patemi dell'esilio e i veti del duce.
Nel 1914 gli stessi piccoli Stati europei, in conseguenza delle caratteristiche della economia e della stessa tecnica militare, potevano avere un peso nello spostare l'equilibrio del conflitto. Comunque gli Stati Uniti si disinteressavano della politica europea e non avevano peso militare adeguato a quello economico, l'Inghilterra viveva l'ultimo atto della sua funzione di isolamento arbitrale nel mondo, nelle forre continentali si facevano calcoli abbastanza scemi quanto quelli dei nostri oratori parlamentari di oggi sul numero di corazzate e di divisioni di almeno cinque potenze militari di comparabile ordine di grandezza, raggruppate due di qua tre di là nei classici blocchi. Poi tra giri di valzer, assoldamento di socialisti rinnegati e crociata ideologica per la civiltà democratica, non bastarono la liquidazione sfrontata dello splendido isolamento britannico e della dottrina di Monroe e perfino la discesa in campo del lontanissimo Giappone a far fuori senza sforzi supremi la Germania.
Ne uscì una situazione nuova, e già allora si cominciarono a formare le regioni di soggezione dei piccoli Stati ai grandi poteri soprattutto fra i rottami dell'Impero d'Austria (una delle meno indecenti amministrazioni pubbliche che abbia potuto offrire la storia del capitalismo). Si urtarono, nel piano egemonico in Europa sulle varie Cecoslovacchie nate fantocci, prima Francia e Inghilterra; poi avvenne quello che avvenne e lo sanno tutti i non lattanti.
La seconda Germania fu rovesciata da una generale coalizione e la povera Italietta non riuscì a piazzare sulla carta buona un secondo mercimonio e una migliore edizione del tradimento. Naturalmente quelli che ci hanno speculato nel diventare grandi uomini in piena luce di riflettori amici o nemici (non conta molto) hanno il toupet di dire che Hitler l'hanno fregato loro colla guerra partigiana e poi con la leonina dichiarazione postarmistiziale.
Nella situazione che ne è seguita, gli stessi centri di Parigi e di Londra hanno barattato influenza ed autonomia e sono di fronte a due soli colossi. Il problema con chi si allea il governo di Roma è un problema sottofesso. La grossa questione è di stabilire se nel possibile mostruoso urto debba vedersi un'alternativa storica su cui vadano giocate tutte le forze del proletariato.
Questo in Italia seppe dir di no al signor Mussolini, dovrebbe saper dire lo stesso al signor Nenni, bene scelto a gettare questo ponte imbroglione tra l'antitriplicismo 1914 e l'antiatlantismo 1949.
Affittando il proletariato all'antitriplicismo borghese si volle aggiogarlo al militarismo e alla guerra, allearlo a nazionalisti e a fasci interventisti di combattimento. Da questo verminaio nacquero i tumori del fascismo e dell'antifascismo londrista ed atlantico. L'onorevole signor Nenni, mai visto sulla strada del socialismo, sta come degnissimo simbolo su tutte queste cantonate di successivo affitto a ben forniti avventori.

Trotsky e la via democratica alla rivoluzione (1919)



Discorso di Trotsky sul parlamentarismo rivoluzionario al II congresso dell'Ic, in contraddittorio con le tesi di Bordiga.


Compagni!
Anzitutto vi prego di scusare la mia lingua, che non sarà il tedesco, ma un suo surrogato. Abbiamo diviso il lavoro nel modo seguente: io riferirò sulla questione di principio e sulla soluzione che ne deriva, il compagno Wolfstein riferirà sul lavoro della nostra commissione, e infine ci sarà il contro-rapporto del compagno Bordiga, rappresentante del punto di vista secondo cui, in questa epoca di distruzione del sistema capitalistico mondiale, non dovremmo partecipare a nessun parlamento.
E veniamo al punto. Nel porre un problema qualsiasi, dobbiamo sempre partire dalla valutazione dell'epoca concreta. E qui ci imbattiamo in una differenza di principio fra l'epoca precedente, di sviluppo pacifico, e l'epoca attuale, l'epoca del crollo del sistema capitalistico, l'epoca delle guerre di classe, delle guerre civili e della dittatura proletaria.
L'epoca "pacifica" (che del resto non era poi così pacifica, se si pensa alle guerre coloniali) può essere caratterizzata come l'epoca di una certa comunanza d'interessi fra proletariato e borghesia. Questa comunanza, soprattutto nel proletariato dei paesi capitalistici altamente sviluppati, poggiava sul fatto che questi ultimi conducevano una politica imperialistica grazie alla quale le classi dominanti realizzavano extraprofitti e con essi potevano pagare ai rispettivi proletariati salari più alti.
In linea di principio, è un errore credere, come sosteneva Kautsky, che la politica imperialistica non abbia recato alcun vantaggio alla classe operaia. Infatti, dal punto di vista degli interessi contingenti della classe lavoratrice, si potrebbe sostenere che la politica imperialistica fu di una certa utilità, espressa nei più alti salari che si poterono distribuire agli operai attingendo agli extraprofitti dei capitalisti.
Se dunque possiamo considerare quest'epoca come l'epoca di una certa comunanza d'interessi tra proletariato e borghesia, la sua seconda caratteristica fu d'essere anche l'epoca dell'integrazione delle organizzazioni operaie nell'apparato statale borghese. Questo fenomeno si rivelò in modo particolarmente smaccato nell'epoca del capitalismo di Stato, quando, di fatto, quasi tutte le organizzazioni operaie - e organizzazioni di massa relativamente grandi - apparvero come parti componenti del sistema capitalistico e del suo apparato di governo. Se, infatti, consideriamo l'atteggiamento dei grandi partiti politici della classe operaia, della socialdemocrazia gialla e dei sindacati, durante la guerra, possiamo constatare che tutte queste organizzazioni di massa diventarono allora parti costitutive del sistema e dell'apparato statale capitalistico, istituzioni nazionali borghesi.
Il punto di partenza di questa evoluzione si trova già nell'anteguerra, ed è lecito affermare che, allo stesso modo, le rappresentanze parlamentari dei partiti operai, i loro gruppi parlamentari, si integrarono allora nel parlamento borghese: invece d'essere diretti contro l'insieme del sistema capitalistico in genere, e contro il parlamento borghese in specie, divennero parti integranti dell'apparato parlamentare. Tale fu l'epoca pacifica del capitalismo, e tali sono i fatti che osserviamo anche all'inizio della guerra.
Poi venne la nuova epoca, l'epoca della decadenza capitalistica e delle guerre civili. In essa, la classe operaia abbandonò, in quanto classe, la precedente ideologia a sfondo imperialistico. Questa ideologia, culminata nella parola d'ordine della "difesa nazionale", crollò trascinando con sé tutte le sue manifestazioni secondarie. Da parti integranti del sistema capitalistico, le organizzazioni operaie si trasformarono a poco a poco in strumenti della lotta di classe; cioè da strumenti al servizio del sistema capitalistico divennero strumenti della sua distruzione. Parallelamente si verificò la conversione dei gruppi parlamentari da parti integranti - quali erano - dell'intero apparato parlamentare in strumenti della sua distruzione. E così nacque il nuovo parlamentarismo, di cui i comunisti sono, e hanno il dovere di essere, sostenitori.
Compagni, io non commenterò tutti i paragrafi delle nostre tesi, che sono molto estesi: sceglierò solo qualche punto essenziale su cui soffermarmi. Potremo così risolvere un certo numero di questioni spinose.
Avendo avanti agli occhi due epoche di carattere così diverso, possiamo già dire a priori che il processo di transizione da un'epoca all'altra, dal vecchio al nuovo parlamentarismo, va considerato come un processo che, in ogni determinata fase, porta con sé residui delle concezioni precedentemente circolanti nelle file della classe operaia: quanto più il processo si sviluppa, tanto più queste sopravvivenze svaniranno, ma è un fatto che oggi possiamo ancora chiaramente distinguerle in molti partiti, perfino in partiti che hanno dato la loro adesione all'Internazionale Comunista: è un fatto che l'opportunismo e i partiti oscillanti esistono ancora nel movimento operaio, che l'ideologia della collaborazione con la borghesia sussiste ancora in parte, e questo fatto si rispecchia nella persistenza del vecchio parlamentarismo.
Consideriamo anzitutto il quadro d'insieme dell'attività parlamentare della classe operaia. Prendiamo la composizione dei diversi gruppi parlamentari e avremo un'immagine delle più singolari. Ad esempio, il Partito Socialdemocratico Indipendente Tedesco. Questo conta ora 82 deputati. Ma, se analizzassimo la composizione del gruppo parlamentare di questo partito, già di per sé piuttosto moderato e opportunista, otterremmo suppergiù le seguenti cifre: di questi 82 deputati, una ventina appartiene direttamente alla destra, una quarantina al centro e una ventina alla sinistra. La percentuale della destra e del centro, ripeto, nel quadro del Partito Socialdemocratico Indipendente, è dunque piuttosto elevata. Prendiamo ora il Partito Socialista Italiano e il suo gruppo parlamentare. Questo partito aderisce alla III Internazionale, ed è anzi uno dei nostri migliori partiti. Ma, se dividiamo i membri del suo gruppo parlamentare in tre parti, cioè il gruppo Turati-Lazzari, il gruppo Serrati e i cosiddetti Bombacciani, otteniamo le seguenti cifre: il 30 per cento dell'intero gruppo appartiene alla tendenza Turati, il 55 per cento al centro, e il 15 per cento alla sinistra. Il compagno Serrati mi ha dato qualche altra cifra. Secondo lui, i riformisti contano 41 mandati. Si tratta di un dato ufficiale fornito dal compagno Serrati: e, per un partito che si vuole comunista, indica una percentuale altissima.
Se passiamo al Partito Socialista Francese, abbiamo 68 parlamentari, di cui 40 riformisti dichiarati in un partito già opportunista e 26 del centro (non nel senso nostro del termine, ma nel senso del centro del Partito Socialista Francese, un centro al quadrato): quanto ai comunisti, il loro numero non supera forse i 2. Nel Partito Socialista Norvegese, che è un partito relativamente buono, il gruppo parlamentare è di 19 membri, di cui 11 destri, 6 centristi e 2 comunisti. Del gruppo parlamentare svedese, una parte abbastanza elevata è composta di elementi che non si possono considerare affatto comunisti. A conti fatti, un quadro piuttosto malinconico! La composizione dei gruppi parlamentari è al di sotto di ogni critica. E, se cerchiamo la causa di questo stato di cose, la riconosciamo nel fatto che questi partiti non sono abbastanza chiaramente comunisti e che nel loro ambito si trova un numero notevole di opportunisti. Perciò essi tollerano simili elementi nei gruppi parlamentari.
Passo ora dalla composizione dei partiti all'analisi della loro politica parlamentare, e qui si può a buon diritto affermare che questa politica è lontana dal parlamentarismo rivoluzionario quanto il cielo dalla terra. Prendo di nuovo ad esempio il Partito Socialdemocratico Indipendente. Durante la guerra, quando si doveva fare appello ai popoli per porre fine al massacro, esso si rivolgeva al governo. Ricordo una conversazione avuta a Berlino con Haase. Volendo dimostrarci che faceva del parlamentarismo rivoluzionario, egli ci portò, come la prova migliore, i suoi discorsi, in cui sosteneva che il governo tedesco aveva commesso un abuso inviando truppe in Finlandia, perché queste vi si potevano impiegare a scopi riprovevoli. Dunque, finché le si mandava sul fronte francese, nulla da ridire; l'abuso esisteva solo in direzione della Finlandia. È questa una prova di parlamentarismo non rivoluzionario, ma opportunistico.
Prendiamo tutto quanto s'è scritto e detto nel parlamento tedesco in tema di socializzazione. Roba da ridere: non il minimo afflato rivoluzionario. E, per quanto mi risulta, il compagno Däumig, parlando ancora nel 1920 di piani di socializzazione, non si è discostato per nulla da questa impostazione opportunistica. O, per esempio, il discorso sulla Costituzione di Oskar Cohn, rappresentante degli Indipendenti. Esso è abbastanza lungo, ma non vi si trova assolutamente traccia di una concezione rivoluzionaria. Ci sentiamo dire che la Costituzione è ammalata: su Noske, non una parola. È il metodo di Kautsky, che, se discute il problema della democrazia borghese, tira in ballo scimmie e selvaggi. Eppure, era una buona occasione per sviluppare in senso rivoluzionario il nostro punto di vista di principio! O ancora la storia della commissione d'inchiesta sui responsabili della guerra. Una vera e propria commedia recitata in base al materiale fornito dal Ministero degli Esteri! Ma è così che gli Indipendenti pretendono di approfondire parlamentaristicamente la questione delle responsabilità del conflitto. Neppure una traccia, anche qui, di attività rivoluzionaria.
Prendiamo la mozione del compagno Oskar Cohn sull'abrogazione della legge sul fermo precauzionale dei politici. Vi si trova di tutto, fuorché il punto di vista del rivoluzionario comunista. E che dire di quanto abbiamo sentito in questa stessa sede dai delegati del Partito Indipendente? Quando si sono scusati di non averci risposto in tempo, il compagno Dittmann, se non sbaglio, o un altro, ha detto: "Eravamo in periodo elettorale e, data l'importanza della cosa - [un'elezione!] - non abbiamo potuto redigere subito una lettera di risposta". Ecco un esempio clamoroso, che uccide chi lo dà. Se avete da un lato le elezioni e dall'altro la causa di tutta l'Internazionale, è chiaro per ogni rivoluzionario che egli deve condurre la campagna elettorale sotto le parole d'ordine dell'Internazionale. Mettere a contrasto Internazionale ed elezioni è tutto quel che si vuole, fuorché una posizione conciliabile con il desiderio di appartenere all'Internazionale Comunista.
Noi possiamo seguire tutta l'attività parlamentare dei compagni indipendenti e non trovarvi mai l'ombra di un'azione chiara, cosciente del fine da raggiungere, ispirata ai nostri principii. Se prendiamo il Partito Socialista Francese o anche altri partiti, il quadro non è meno triste. Non intendo dilungarmi su di essi, perché un esempio basta a ricostruire l'intera situazione.
In tutti questi casi, sia nella composizione che nella tattica del gruppo parlamentare si notano quelle sopravvivenze del vecchio parlamentarismo che noi dobbiamo letteralmente sradicare, perché, fin quando questa pratica, questi metodi, questa composizione dei gruppi parlamentari sussisteranno, non potremo svolgere nessuna attività rivoluzionaria. È assolutamente escluso che una lotta rivoluzionaria possa iniziarsi con un simile ciarpame.
Vengo ora all'altra questione, la questione dell'antiparlamentarismo per principio. Questo antiparlamentarismo è il figlio legittimo dell'opportunismo sopra descritto e dell'attività parlamentare vecchio stile con tutti i suoi malanni. Questo antiparlamentarismo per principio ci è infinitamente più simpatico del parlamentarismo opportunista. Fra i fautori dell'antiparlamentarismo, si possono, credo, distinguere due gruppi principali. Uno che nega assolutamente per principio ogni partecipazione all'attività parlamentare e l'altro che è contro il parlamentarismo per una valutazione specifica delle possibilità che l'azione parlamentare offre. Gli IWW rappresentano oggi la prima tendenza, e il compagno Bordiga, che parlerà dopo di me, la seconda.
Quanto all'antiparlamentarismo per principio, si può dire del primo gruppo che questa dottrina o questa tattica, se la si esamina teoricamente, si basa su una completa confusione dei concetti fondamentali della vita politica. Gli IWW, per esempio, non hanno un'idea affatto chiara di che cosa sia propriamente la lotta politica. S'immaginano che uno sciopero generale a carattere economico, diretto di fatto contro lo Stato borghese, ma guidato dai sindacati anziché dal partito politico, non sia una lotta politica. Dunque non capiscono assolutamente che cosa si intende per lotta politica. Confondono la lotta politica con l'attività parlamentare. Credono che per lotta politica si debba intendere unicamente l'attività parlamentare o l'attività dei partiti parlamentari. Non approfondirò questa questione, poiché essa è chiaramente sviluppata nelle nostre tesi, e i compagni non hanno che da prenderne conoscenza.
È chiarissimo che l'atteggiamento negativo nei confronti del parlamentarismo si basa su diversi errori di principio, soprattutto su un concetto errato di ciò che è in realtà la lotta politica. Considerato dal punto di vista storico, il parlamentarismo americano mostra tanta bassezza e corruzione che molti elementi onesti passano nel campo dell'antiparlamentarismo per principio. L'operaio non pensa in modo astratto: egli è un empirico che va per le spicce e, se non gli si può dimostrare empiricamente che il parlamentarismo rivoluzionario è possibile, egli semplicemente lo rifiuterà. Questi elementi che hanno visto solo i lati negativi e le bassezze del parlamentarismo, passano in gran parte nel campo dell'antiparlamentarismo per principio.
Vengo ora al secondo gruppo, qui rappresentato dal compagno Bordiga. Egli sostiene che non si deve confondere la sua posizione con l'antiparlamentarismo di principio, e io devo dire che il suo punto di vista, considerato formalmente, parte da premesse tutte e soltanto teoriche. Il compagno Bordiga afferma che proprio perché l'epoca attuale è un'epoca di lotte di massa del proletariato, un'epoca di guerre civili, ci si deve astenere, solo per questo specifico punto di vista storico, dall'andare in parlamento. Tale la sua opinione. Ma io credo possibile dimostrare che fra la tattica del compagno Bordiga e quella degli antiparlamentaristi per principio esiste un ponte. Il compagno Bordiga ha preparato un corpo di tesi, ed ecco che vi leggiamo:
"È necessario spezzare la menzogna borghese secondo cui ogni scontro fra partiti avversi, ogni lotta per il potere, debba svolgersi nel quadro del meccanismo democratico, attraverso campagne elettorali e dibattiti parlamentari, e non vi si riuscirà senza romperla col metodo tradizionale di chiamare gli operai alle elezioni, alle quali i proletari sono ammessi fianco a fianco coi membri della classe borghese, e senza smetterla con lo spettacolo di delegati del proletariato che agiscono sullo stesso terreno parlamentare di quelli dei suoi sfruttatori".
Qui il compagno Bordiga sembra sostenere che un delegato della classe operaia per il solo fatto di trovarsi in una camera fisicamente accanto ad un borghese collabori con la borghesia. È un'idea ingenua, degna degli IWW. Alla fine del paragrafo 9 delle sue tesi leggiamo:
"Perciò i partiti comunisti non otterranno mai un largo successo nella propaganda del metodo rivoluzionario, se non poggeranno il loro lavoro diretto per la dittatura del proletariato e per i consigli operai sull'abbandono di ogni contatto con l'ingranaggio della democrazia borghese".
Prima un contatto fisico in una camera era già un peccato, e tutto andava a catafascio. Ma qui l'errore è ancor più grave, perché non sempre si hanno a disposizione dei Soviet. Il compagno Bordiga riconosce con noi che non si può procedere all'organizzazione immediata di Soviet operai in tutti i paesi. I Soviet sono organi di combattimento del proletariato: se le condizioni che rendono possibile questo combattimento mancano, non ha alcun senso creare dei Soviet, perché essi si trasformerebbero in appendici filantropico-culturali di altre istituzioni puramente riformistiche, e v'è il serio pericolo che i Consigli operai si organizzino secondo il modello francese, in cui un paio di individui si riuniscono in associazioni pacifiste e umanitarie, prive di qualunque valore rivoluzionario.
I Soviet per ora non esistono; ciò che esiste è il parlamento borghese. Le nostre tesi dicono che noi dobbiamo avere in esso i nostri agenti e informatori rivoluzionari. Che essi lavorino fianco a fianco con borghesi è un'obiezione del tutto negativa e illogica, anche se ben comprensibile dal punto di vista sentimentale. Sotto il profilo della logica e della convenienza rivoluzionaria, il punto essenziale è che noi comunisti affermiamo: V'è una possibilità di andare al parlamento per cercare di distruggerlo dall'interno. Un tempo, i gruppi parlamentari, integratisi nel parlamento, erano divenuti parti costitutive del sistema in quanto tale. Ora noi vogliamo svolgere la nostra attività in modo da contrapporre sempre più l'uno all'altro il sistema parlamentare e i nostri gruppi. Inutile dire che è per noi pregiudiziale che l'attività parlamentare sia coordinata con i movimenti delle masse operaie.
Ma riprendiamo le tesi del compagno Bordiga. Anzitutto una piccola osservazione. Io sostengo che alcuni compagni abbracciano una forma di antiparlamentarismo per principio perché temono di agire come parlamentari rivoluzionari; perché questo terreno presenta secondo loro troppi pericoli, ed essi cercano di eludere un compito riconosciuto estremamente difficile. Non dico questo del compagno Bordiga, ma nella sua frazione ci sono elementi del genere.
È l'impressione che scaturisce dal paragrafo 12 delle sue tesi, dove si scrive:
"La natura stessa dei dibattiti che hanno per teatro il parlamento e gli altri organi democratici esclude ogni possibilità di passare dalla critica della politica dei partiti avversi ad una propaganda contro il principio stesso del parlamentarismo, ad un'azione che oltrepassi i limiti del regolamento parlamentare".
Il compagno Bordiga sostiene l'impossibilità tecnica e materiale di utilizzare il parlamento; ma bisognerebbe dimostrarla. Che nella Duma zarista noi ci trovassimo in condizioni migliori che i nostri compagni, oggi, alla Camera italiana, nessuno ha osato dirlo. Perché negare a priori che una azione rivoluzionaria in parlamento sia possibile? Provate, prima di negarlo; provocate degli scandali, fatevi arrestare, organizzate un processo politico in grande stile. Voi non avete fatto nulla di tutto ciò. Bisogna sviluppare sempre più questa tattica, e io sostengo che è possibile. Dei compagni francesi, come Lefebvre, dichiarano che nella Camera francese non si potrebbe mai pronunciare una frase rude contro Clémenceau. Ma nessuno ci si è provato. E per me, questa è paura bell'e buona. Si dice: è rischioso; nel campo della propaganda noi possiamo svolgere un lavoro puramente legale. Qui è il fondo della questione: siccome il terreno è pericoloso, non si vuole arrischiarcisi. Nel paragrafo 10 delle sue tesi il compagno Bordiga adduce il seguente argomento contro le elezioni:
"La grandissima importanza che si attribuisce in pratica alla campagna elettorale e ai suoi risultati, il fatto che per un periodo abbastanza lungo il partito consacri ad essa tutte le sue forze e le sue risorse in uomini, in stampa e in mezzi economici, concorre da un lato, malgrado ogni discorso da comizio e ogni dichiarazione teorica, a rafforzare l'impressione che si tratti della vera azione centrale per gli scopi del comunismo, dall'altro conduce all'abbandono quasi completo del lavoro di organizzazione e di preparazione rivoluzionaria, dando all'organizzazione del partito un carattere tecnico affatto contrastante con le esigenze del lavoro rivoluzionario tanto legale, quanto illegale ".
Può darsi che in Italia sia così, ma voi dovete dimostrarci perché sia necessariamente logico. Se condividete l'opinione di Dittmann, e dite: La lotta elettorale è in contrasto con la causa dell'Internazionale, allora avete ragione. Ma il nostro punto di vista è che l'intera campagna elettorale dev'essere sviluppata secondo criteri rivoluzionari, e allora quel contrasto sparisce. Non v'è nulla di logicamente contraddittorio nel fatto che noi diciamo: Dobbiamo condurre l'intera lotta elettorale sotto parole d'ordine rigorosamente rivoluzionarie, per raggiungere gli ambienti in cui l'interesse politico non si è ancora svegliato, per raggruppare lavoratori in organizzazioni di massa e collegare l'uno all'altro i diversi aspetti della nostra attività. Questo, dite voi, significa uccidere ogni lavoro rivoluzionario. Se il compagno Bordiga ha potuto usare un simile linguaggio, è perché ha visto ben poco di una vera campagna elettorale rivoluzionaria, così come i compagni degli IWW non hanno mai conosciuto un parlamentarismo rivoluzionario.
Perciò il compagno Bordiga fa simili affermazioni, che tuttavia avrebbe, almeno, il dovere di giustificare razionalmente. Comunque, secondo me, gli esempi empirici che suffragano la tesi del parlamentarismo rivoluzionario non mancano. Non li ripeto: i nomi sono noti; è l'attività di Liebknecht, di Hoeglund, dei compagni bulgari, di noi bolscevichi. Noi in Russia abbiamo avuto un parlamentarismo rivoluzionario nelle più diverse condizioni storiche: alla seconda Duma, nel Preparlamento di Kerenski, nella Costituente.
Noi non abbiamo mai temuto di lavorare fianco a fianco coi borghesi, coi socialrivoluzionari o perfino coi cadetti, perché avevamo una decisa tattica rivoluzionaria, una chiara e netta linea politica. La questione cardinale è lì: è la questione del partito. Se avete un partito veramente comunista, non temerete mai di mandare uno dei vostri uomini nel parlamento borghese, perché egli agirà come un rivoluzionario ha il dovere di agire. Ma, se il vostro partito è un miscuglio in cui il 40 % è composto di opportunisti, è certo che questi elementi si intrufoleranno nei gruppi parlamentari, dove si trovano più a loro agio (non a caso sono quasi tutti dei parlamentari), e voi non potrete assolvere i vostri compiti di comunisti rivoluzionari in parlamento.
Ripeto: se i partiti affiliati all'IC sono dei veri partiti comunisti, che non ospitano nelle loro file dei riformisti e degli opportunisti; se questa selezione è già avvenuta; avremo la garanzia che il vecchio parlamentarismo ha cessato di esistere, cedendo il posto a un vero parlamentarismo rivoluzionario come metodo sicuro di abbattimento della borghesia, dell'intero apparato statale borghese, e del sistema capitalistico.

domenica 24 aprile 2011

PERCHE' OCCORRE FERMARE LA VIVISEZIONE


PERCHE' OCCORRE FERMARE LA VIVISEZIONE

di Marco Piracci


La lotta alla vivisezione sugli animali iniziò molti anni fa, sulle ali di orribili immagini, di angosciose testimonianze, di raccapriccianti filmati in cui le più atroci e inimmaginabili sevizie erano documentate e illustrate. Da qui l'inizio delle proteste, delle denuncie, delle lotte. Poi venne il celebre libro di Hans Ruesch "Imperatrice nuda", che accanto alla denuncia contro tali pratiche, spiegava come esse fossero oltretutto inutili se non addirittura dannose per l'uomo.
Oggi la vivisezione è chiamata "sperimentazione animale" o "ricerca in vivo", ma rimane, secondo la definizione del dizionario, "vivisezione", la quale è per estensione "qualunque tipo di sperimentazione effettuata su animali di laboratorio che induca alterazioni a livello anatomico o funzionale, come l'esposizione a radiazioni, l'inoculazione di sostanze chimiche, di gas, ecc."
[Dizionario De Mauro, ed. Paravia].
E' questo che milioni di animali ogni anno nel mondo subiscono all'interno dei laboratori:
avvelenamenti con sostanze chimiche, farmaci e cosmetici compresi, induzione di malattie di ogni genere (cancro, sclerosi multipla, varie imitazioni dell'AIDS, malattie cardiovascolari, ecc.), esperimenti al cervello, esperimenti sul dolore, e molto altro.
Tutto questo è non solo senza alcuna necessità, ma anche senza alcuna utilità.
Spesso i sostenitori della vivisezione chiedono "Preferisci salvare un topo o un bambino?", per colpire l'emotività delle persone che non sanno cosa sia la sperimentazione animale e quanto sia inutile. Ma la vivisezione, ammazza il topo e fa diventare una cavia l'uomo: è purtroppo questa la realtà.

I passi seguenti sono tratti dal libro "I diari di Michelle Rokke" (libro edito da Agireoraedizioni e consultabile interamente on-line all'indirizzo http://www.agireoraedizioni.org/materiali/rokke_diario.pdf). Michelle Rokke è un'attivista che ha lavorato per alcune settimane come infiltrata in H.L.S. ( Huntingdon Life Sciences), un grosso laboratorio di vivisezione negli USA.

"Stephanie, Rachel, Lynn e Lisa a pranzo hanno fatto battute sul fatto che tutte le scimmie della colonia extra stanno morendo. Stephanie ha chiesto: "Terry non si spiega il perché ma non sa che le gabbie non vengono cambiate da quasi un anno a questa parte. Avete mai sentito parlare dei batteri?".Se i committenti non si preoccupassero di poter perdere dei dati a causa della decomposizione dei tessuti dopo la morte, a molti animali non verrebbe fatta l'eutanasia.
Nelle attuali condizioni molti animali soffrono finché la ditta non riapre la mattina.
Questo primate ha dovuto subire quattro diverse amputazioni perché la ferita non stava guarendo e i punti continuavano a sfilarsi. Durante la riunione dei tecnici oggi Kathy ha annunciato che ieri ha visto che ogni singola scimmia della stanza 958 ha delle ferite - dalle fratture alla coda a dita quasi staccate - tutte causate da tecnici che le hanno maneggiate male durante gli esperimenti e le operazioni."

E ancora:

"Ho guardato Yao durante un'esercitazione di chirurgia su una topolina anestetizzata. Ha applicato dei cateteri femorali su entrambi i lati e alla fine ha detto che doveva praticarle l'eutanasia e che si potevano seguire diversi metodi: usare il CO2, lussare una vertebra, oppure recidere un'arteria. Ha guardato l'orologio e ha detto che la lussazione delle vertebre era il modo più veloce, quindi ha tolto al topo la maschera dell'anestesia e le ha tirato la testa. Ha visto che respirava ancora e così ha ripetuto l'operazione. Ha fatto un terzo tentativo ma il topo ha continuato a respirare profondamente. Allora ha annunciato che avrebbe seguito un'altro metodo, e che quello sicuramente avrebbe funzionato. Ha preso un paio di grosse forbici. Ha squarciato il ventre della topolina e le ha reciso la colonna vertebrale. Poi ha infilato le forbici nella cavità toracica e ha cominciato a tagliare di qua e di là per recidere l'aorta. Ha messo giù le forbici insanguinate e ha detto che ora era morta."

Infine, quest'ultimo passaggio riguarda la relazione che involontariamente si è instaurata tra Michelle e una piccola scimmia:

"In questa stanza ho fotografato James; è difficile fotografare le altre scimmie perché hanno così tanta paura che si rifugiano con un salto sul fondo della gabbia e si voltano verso il muro; James invece è sempre sul davanti della gabbia e fissa con desiderio la porta. Ha l'aria così triste. Gli interessano tutte le cose che gli mostro, l'idrante per la pulizia, il mio distintivo d' identificazione, ma sembra che le guardi solo perché non c'è nulla di meglio da fare.

[Qualche giorno dopo]

James era stressato; ha fissato a lungo la porta d' ingresso della stanza e ha scosso la porta della gabbia per la frustrazione; poi mi ha guardata negli occhi e ha cominciato ad accarezzarmi.

[Ancora qualche giorno dopo]

Sono andata a vedere James dopo la somministrazione delle dosi; era seduto esattamente nella
stessa posizione di ieri; mi ha accolta con la stessa espressione di sottomissione impaurita, e quando mi sono inginocchiata vicino alla gabbia ha chinato la testa sul petto e si è rannicchiato in posizione fetale. Gli ho accarezzato la schiena attraverso il buco della mangiatoia, ma non sono riuscita a fargli rivolgere lo sguardo verso di me. Aveva le mani contratte e si teneva saldamente le caviglie. Mi spezza il cuore vederlo in questo stato: è così spaventato

[Dopo qualche settimana]

Oggi, quando sono andata a vedere James, lui mi ha guardata fissa negli occhi e poi ha guardato a terra mentre gli dicevo addio. La maggior parte delle scimmie dello studio 3314, compreso James, saranno uccise giovedì e venerdì di questa settimana. Gli ho detto che forse non riuscirò a incontrarlo di nuovo. Lui si è avvicinato e ha premuto tutto il viso contro la gabbia fissandomi. Gli ho accarezzato la guancia sussurrandogli il mio addio, e mentre mi alzavo e lui si rimetteva nella sua solita posizione fetale ho capito, troppo tardi, che mi aveva porso il viso affinché lo baciassi."

Questi passaggi non possono che lasciarci increduli. Ma è bene tenere a mente è che non è solo in H.L.S. che succedono queste cose, perché i laboratori di vivisezione, in ogni parte del mondo, sono gli stessi. I test, i macchinari e le persone che ci lavorano sono simili. Gli interessi in campo, ad iniziare da quelli immensi delle industrie cosmetiche, sono veramente numerosi. Ma quella contro la vivisezione è una battaglia che non può essere persa.
Non può essere persa perché altrimenti si affermerebbe un'idea di scienza falsa e crudele. Ma soprattutto non può essere persa per i milioni di animali sacrificati inutilmente e atrocemente per l'ambizione e l'insensibilità di certi esseri umani.


24 aprile 2011

Kronštadt: Trotsky aveva ragione!




Dal sito FalceMartello, per completezza sulla questione pubblichiamo anche questo articolo di A. Kramer

Materiale inedito dagli archivi sovietici
conferma la correttezza della posizione dei bolscevich


Per molti anni la stampa capitalista, eruditi professori e analisti borghesi hanno parlato dei “segreti negli archivi sovietici”. Si speculava molto dei “terribili segreti del regime comunista” che alla fine avrebbero confermato il “carattere maligno” del comunismo.
Dopo gli eventi degli ultimi anni ottanta e primi anni novanta, gli storici finalmente hanno potuto accedere agli archivi sovietici. Ci si aspetterebbe un flusso ininterrotto di fatti terribili. In realtà i risultati per gli storici borghesi sono stati veramente deludenti. Ovviamente hanno trovato un gran numero di prove che confermano i terribili crimini dello stalinismo. Ma noi non abbiamo mai avuto dubbi su questo. Trotskij e i suoi sostenitori condannarono questi crimini molto prima che qualsiasi archivio fosse accessibile. I sostenitori di Trotskij nell’Unione Sovietica negli anni venti e trenta si sono fatto esperienza personalmente di quei crimini poiché furono i primi a pagare le conseguenze della degenerazione stalinista. Migliaia di loro morirono per mano degli scagnozzi di Stalin.

Quello che gli storici borghesi speravano di trovare era una quantità di prove che essi potevano usare per dimostrare che non c’era differenza tra lo stalinismo e il regime sano di Lenin e Trotskij nel primo periodo dopo la rivoluzione. Ma hanno incontrato seri problemi nel rintracciare documenti che potessero essere usati per screditare i leader della rivoluzione russa, Lenin e Trotskij. La cosa più difficile da trovare prima erano i documenti riguardanti i leaders dell’opposizione di sinistra. Ora è chiaro a qualsiasi storico il perché. Gli archivi mostrano che questi leaders ebbero un ruolo fondamentale nella rivoluzione russa e nell’instaurazione dello stato sovietico. Durante gli ultimi dieci anni sono state pubblicate parecchie interessanti notizie sui momenti critici della rivoluzione russa. Tra questi ci sono due libri che parlano dei più tragici atti della rivoluzione russa: la cosiddetta rivolta di Kronstadt.

Non è necessario descrivere ora tutti i dettagli di questo avvenimento conosciuto ai più. All’inizio di marzo del 1921, in uno dei periodi più critici dell’esistenza della repubblica sovietica, nella base navale di Kronstadt, vicino Pietrogrado, ci fu un tentativo di golpe militare ai danni del governo sovietico. Il momento critico che l’Unione Sovietica stava attraversando in quel momento obbligò Lenin e Trotskij a risolvere tempestivamente la questione. Dopo aver rifiutato l’ultimatum del governo alla capitolazione, Kronstadt fu invasa e catturata in un secondo attacco. I leaders ribelli fuggirono in Finlandia.

Alla fine degli anni trenta un gruppo di ex trotskisti, incluso Victor Serge, Max Eastman, Souvarine e qualche altro, attaccarono Trotskij per il suo comportamento durante la ribellione. (Ciò facendo Serge contraddisse il suo stesso punto di vista espresso durante la ribellione). Descrissero gli eventi di Kronstadt come la ribellione dei lavoratori e dei marinai contro la “dittatura bolscevica”, e videro l’annientamento dei ribelli come il primo passo verso lo stalinismo. Da allora, questa critica fu ripresa da altri ideologi e propagandisti anticomunisti. Trotskij rispose a queste persone nel suo articolo “Grido d’allarme su Kronstadt” dove analizzò la natura piccolo-borghese del golpe.

Non c’è bisogno di ripetere le ragioni di Trotskij, ognuno (che conosca l’inglese) può leggere l’articolo. Quel che io voglio fare qui è mettere in risalto alcune delle nuove informazioni pubblicate in questi recenti documenti, una vera e propria raccolta di materiale su Kronstadt.

Il primo libro è stato pubblicato con uno strano titolo: “Trotskij sconosciuto: il Bonaparte rosso”. Questo cerca di descrivere Trotskij durante la guerra civile russa. Il secondo libro: “Kronstadt 1921” è una raccolta di documenti sulla rivolta di Kronstadt. È importante far notare che nessuno dei due libri è stato scritto da un simpatizzante bolscevico. L’immagine popolare che i critici antibolscevichi cercano di dipingere è che c’era simpatia verso i ribelli da parte dell’Armata Rossa. Sono state fatte molte speculazioni sul fatto che molti soldati rifiutarono di prender parte all’attacco per ragioni politiche e ci sono anche voci di diserzioni avvenute tra i soldati con molti di questi che passarono tra le fila dei ribelli. Questo è tuttavia un mito. Quel che veramente successe era molto diverso. Ci fu un solo caso in cui una unità passò dalla parte di coloro che difendevano Kronstadt. Questo durante il primo attacco che fu senza successo.Fu un battaglione della 561° Reggimento dell’Armata Rossa. Questo reggimento era stato formato raccogliendo ex prigionieri delle guardie bianche di Wrangel e Denikin e dell’anarchico Machno. È ben noto che durante la guerra civile in Russia alcune compagnie di origine contadina cambiavano spesso parte della barricata come conseguenza delle sconfitte militari.

Anche un battaglione della 236° reggimento di fanteria che si rifiutò di andare all’attacco. La loro posizione era: “Noi non andremo sul ghiaccio”, “torneremo ai nostri villaggi”. Queste compagnie contadine erano terrorizzate dall’idea di dover attaccare sul ghiaccio questa grandiosa fortezza difesa da navi da guerra. Ci sono pervenuti altri rapporti riguardo al rifiuto di eseguire ordini da parte di diverse compagnie, ma in tutti questi casi le cause erano in realtà la scarsa qualità di cibo e vestiti, la cattiva qualità dell’equipaggiamento mimetico. Non furono date ragioni politiche. Questo è facilmente comprensibile se ricordiamo come il regime sovietico ereditò una economia di vecchio stampo, e soprattutto, sia stato obbligato ad utilizzare le sue scarse risorse per difendersi dagli attacchi delle guardie bianche appoggiate dagli imperialisti che cercavano di schiacciare la rivoluzione.

Anche la situazione all’interno di Kronstadt è diversa dal mito. Non c’era una massa convinta di soldati che appoggiavano fermamente la ribellione. Perfino gli storici borghesi come Krasnov ha dovuto riconoscere questo. Dentro Kronstadt c’erano scontri tra i vecchi marinai rivoluzionari e le nuove reclute che venivano dalla campagna e dalle famiglie piccolo borghesi. Ciò può essere confermato dal fatto che alcune navi dichiararono la loro neutralità, mentre altre si mossero contro i ribelli. Vale la pena citare alcune delle frasi dell’equipaggio di diverse navi, tra cui i cacciamine “Ura”, “Orfei”, e “Pobeditel”: “Gli uomini della guardie bianche che guidano i ribelli possono fare molti danni alla repubblica, e potrebbero non avere esitazioni nel bombardare Pietrogrado”.

La stessa situazione si trova dietro le linee di battaglia dei ribelli. Da un rapporto di intelligence della 7° armata apprendiamo che parecchi marinai ribelli e soldati volevano passare dalla parte dei bolscevichi, ma avevano paura dei loro comandanti.

Comunque, il colpo finale alla mitologia antibolscevica costruita attorno a Kronstadt deve ancora arrivare. Secondo documenti pubblicati in questi due nuovi libri emergono nuovi fatti su quel che successe nella città intorno Kronstadt. Durante l’attacco, i lavoratori della città si mossero contro i ribelli e liberarono la città anche prima che le forza principali dell’armata rossa arrivassero. Quindi in realtà quel che successe non fu una ribellione dei lavoratori e dei marinai contro il bolscevismo, ma un’insurrezione dei lavoratori e dei marinai contro i “ribelli”!

Nei proclami dei marinai di Kronstadt vediamo le parole che si riferiscono “agli uomini delle guardie bianche che stanno guidando i ribelli”. Queste non sono mere parole. Il vero comando dei ribelli era concentrato non nel soviet di Kronstadt, come qualche ingenuo potrebbe pensare, ma nel cosiddetto “Consiglio per la difesa della fortezza di Kronstadt”. Uno dei suoi leaders era l’ammiraglio S.H.Dmitriev (che fu ucciso per esecuzione dopo la caduta della fortezza), l’altro era il generale A.H. Koslowsky, che scappò in Finlandia. Entrambi questi alti ufficiali erano molto lontani dall’avere una qualche simpatia per il socialismo “con i bolscevichi” o “senza bolscevichi”.

Si parla molto anche di S.M.Petrechenko, il marinaio e leader anti-bolscevico. Quel che è davvero interessante notare è che nel 1927 quest’uomo fu assunto dalla GPU di Stalin e fu uno dei suoi agenti fino al 1944 quando fu arrestato dalle autorità della Finlandia. L’anno dopo morì in un campo di concentramento finlandese.

Quindi, la vera storia è che i lavoratori e i marinai di Kronstadt capirono realmente la vera natura di questi ribelli molto meglio di qualunque intellettuale che ha cercato in seguito di costruire il mito di Kronstadt. Lo stesso può essere detto delle forze controrivoluzionarie che operavano a Kronstadt. L’ex primo ministro zarista e ministro delle finanze e, una volta emigrato, direttore della Banca di Russia a Parigi, Kokovzev, trasferì 225000 franchi ai ribelli di Kronstadt. La banca russoasiatica trasferì 200000 franchi. Il primo ministro francese, Briand, durante l’incontro con l’ex ambasciatore del governo Kerendsky, Malachov, promise “qualunque aiuto che fosse necessario a Kronstadt”.

Come spiegò Trotskij, la cosiddetta ribellione di Kronstadt non fu il primo movimento anti bolscevico piccolo borghese che avvenne durante la guerra civile e la rivoluzione. C’erano molti altri movimenti che portavano la gente a declamare slogan come “Soviet senza bolscevichi”, ecc. Di questi movimenti ce ne erano in certe fabbriche negli Urali e tra i cosacchi. Ma da queste esperienze possiamo chiaramente vedere che in queste condizioni di guerra di classe dove non è possibile alcun compromesso questo tipo di slogan porta direttamente nel campo della reazione medievale e nella barbarie. Non può esistere una rivoluzione senza un partito rivoluzionario. Ancora, i comuni lavoratori e soldati russi del tempo capirono questo molto bene. Lo capirono molto meglio di alcune persone di oggi, tra cui anche qualche esponente della sinistra.

Il fatto è che molti membri degli anarchici, menscevichi, socialisti rivoluzionari ed altri partiti che parteciparono ai Soviet con i bolscevichi, ma non senza di loro. C’era una grossa differenza tra la base di questi partiti e i loro dirigenti che erano di sentimenti antibolscevichi. Nei primi anni venti le autorità locali dei Soviet in alcune aree ebree dell’Ucraina furono arruolati tutti tra i membri del Bund. Molti anarchici presero parte alla rivoluzione e alla guerra civile dalla parte dei bolscevichi contro la reazione dei Bianchi. Inoltre cooperarono col nuovo potere fino alla nascita dello stalinismo. Oggi, quei coraggiosi sono considerate dai moderni anarchici dei traditori. Certa gente non impara mai!

Non abbiamo nulla da temere dalla pubblicazione di altro materiale degli archivi sovietici. Speriamo che nei prossimi anni siano trovati documenti che parlano delle lotte gloriose del proletariato russo. Ci daranno sicuramente ulteriori informazioni sulle tradizioni rivoluzionarie dei lavoratori russi.

Dicembre 2003

sabato 23 aprile 2011

Distruggere l'università di Andrè Gorz



L'Università non può funzionare: impediamole dunque di funzionare perché l'impossibilità diventi manifesta. Nessuna riforma, di nessun tipo, può rendere questa istituzione di nuovo vitale; combattiamo dunque le riforme, nei risultati e nella ispirazione, non perché siano pericolose, ma perché sono illusorie.
La crisi dell'istituzione universitaria va oltre, come vedremo, l'orizzonte universitario, investendo la divisione tecnica e sociale del lavoro. È bene che questa crisi esploda. Occasioni e modi - più o meno buoni - possono essere discussi. Ma possono essere legittimamente criticati soltanto da coloro che concordano sulla necessità di rifiutare il riformismo, e sul fatto che questa necessità implica una posta di natura globale.(...)
L'ideologia borghese della scuola è quella della uguaglianza delle probabilità di promozione sociale attraverso lo studio. Si è sempre trattato, in realtà, di una uguaglianza solo apparente. Tuttavia nel passato meccanismi e criteri di selezione erano sufficientemente «obiettivi» perché il carattere arbitrario della selezione di classe risultasse mascherato: si era eliminati o selezionati, sulla base di un sistema di attitudini e competenze definito una volta per tutte. Tradizionalmente la sinistra si batteva non contro i criteri di classe della selezione - il che l'avrebbe obbligata a battersi contro la selezione in sé e quindi contro il complesso del sistema scolastico - ma perché tutti avessero diritto di entrare nella macchina selezionatrice. Il carattere contraddittorio di questa rivendicazione restò nascosto fin tanto che teoricamente il diritto era riconosciuto a tutti, ma praticamente la possibilità di usarlo era negata alla grande maggioranza. Nel momento in cui, estendendosi la diffusione della cultura, la maggioranza tende ad ottenere in concreto la possibilità di accedere agli studi superiori, questi perdono il carattere selettivo. Diritto allo studio e diritto a una promozione sociale non possono procedere insieme: se, al limite, tutti possono effettivamente studiare, non tutti possono essere effettivamente promossi a posti di privilegio. Il meccanismo di selezione scolastica essendo dunque battuto, la società cercherà o di sostituirlo con meccanismi complementari, oppure di restringere i diritto allo studio ricorrendo a limitazioni di natura amministrativa.
Queste limitazioni amministrative - numerus clausus, concorso per l'accesso alle facoltà - sono così difficili da mettere in atto che tutti i governi che si sono susseguiti (...) hanno rinunciato ad applicarli. Infatti limitare ex ante il numero degli studenti significa negare apertamente, brutalmente, un principio giuridico e una finzione sociale attraverso gli studi sono uguali per tutti e la possibilità di studiare non è condizionata che dalle attitudini personali. Distruggere questa finzione giuridica significa metterne a nudo il carattere illusorio delle libertà borghesi e, soprattutto, scontrarsi frontalmente, in nome d'una razionalità tecnocratica - gli studi costano cari e non sono redditizi se non implicano per i diplomati una promozione effettiva - con gli strati intermedi o pretesi tali, dei quali il regime non può conservarsi il consenso se non facendo balenare loro la possibilità d'una «elevazione sociale» condizionata esclusivamente dal merito. (...).
Politicamente la borghesia deve dunque conservare la finzione che a tutti è aperto l'accesso, attraverso lo studio, ad una promozione sociale. Senonché la realtà demistifica questa finzione: l'accesso agli studi resta libero, ma gli studi non approdano più a nulla. Il numero dei diplomati o laureati slavorizza lauree e diplomi. Molti sono gli eletti ma pochi i chiamati: i posti sono scarsi. La riduzione numerica che la selezione scolastica non è stata in grado di operare sarà operata dalla selezione al momento dell'impiego. (...)
Queste contraddizioni dell'università borghese rimandano a contraddizioni di fondo:
- il valore di mercato fin qui riconosciuto alle lauree si fondava sulla loro scarsità e sulla scarsità dell'attitudine allo studio. Quando questa diventa generale, il privilegio del diploma logicamente scompare, e con questo la divisione gerarchica dei compiti;
- se l'attitudine agli studi - sancita o meno da una laurea - tende a generalizzarsi, cessa di funzionare da criterio di selezione; la stratificazione sociale non può più fingere di fondarsi sulla competenza e sul merito. Diritto allo studio e diritto alla promozione non vanno più di pari passo;
- se gli studi non garantiscono più la promozione, delle due l'una: o saranno considerati una perdita di tempo e un carico sociale superfluo, visto che non sono redditizi né per coloro che li fanno né per la società capitalistica; o assumeranno la natura di una formazione generica, non funzionale, che la società può anche permettersi come un lusso. (...).
Ma è improbabile fermarsi qui: giacché una volta accettato che gli studi non sbocchino più su una carriera, va ridefinita la natura degli studi, il loro contenuto e senso: giacché non conferiscono più una cultura «utile», bisogna che conferiscano una cultura «ribelle»; giacché non corrispondono a una domanda della società, bisogna che corrispondano alla domanda di coloro che intendono distruggere questa società, abolendo questa divisione del lavoro.
Ora l'Università è per sua natura incapace di rispondere a questa domanda: non è funzionale né ai bisogni dell'economia capitalistica, né ai bisogni di chi vuole abolire il capitalismo; non elargisce né una cultura «utile» né una cultura «ribelle» (che, per definizione, non può essere elargita), elargisce una cultura universitaria, cioè un sapere separato sia dalla pratica produttiva che dalla pratica militante. Insomma, è un luogo in cui non si può impiegare i tempo né in maniera utile né in maniera interessante. E non c'è riforma che possa modificare questa situazione. Non si tratta dunque di riformare l'università, ma di distruggerla per distruggere insieme la cultura separata dal popolo che essa rappresenta (la cultura dei mandarini) e la stratificazione sociale di cui essa resta, malgrado tutto, lo strumento.
Questa è la realtà che la guerriglia universitaria mette in luce, abbreviando l'agonia d'una istituzione moribonda e rivelando l'ipocrisia delle corporazioni che la difendono. Qualcuno dirà che gli studenti estremisti non sanno sostituirla con nient'altro, né sanno cambiare la società perché questo «altro» diventi vitale. Ma gli studenti non possono da soli né produrre un'altra cultura né fare la rivoluzione. Quel che possono fare è di impedire che la crisi acuta degli istituti borghesi della divisione del lavoro e della selezione delle «elites» resti mascherata. È quello che fanno, ed è ciò che tutti i difensori dell'ordine - questo o qualsiasi altro ordine autoritario e gerarchizzato - non perdonano.
Da soli gli studenti non possono andare oltre; la distruzione e anche la contestazione effettiva (e non solo ideologica) della divisione del lavoro non può esser compiuta nell'università; non può esser compiuto che nelle fabbriche e nelle aziende: essa suppone l'analisi critica d'una organizzazione produttiva la cui apparente razionalità tecnica è insieme l'oggettivazione e la maschera d'una razionalità politica: d'una tecnica di dominio. Essa suppone una conoscenza pratica del processo di produzione e una pratica attiva per modificarlo, per sottometterlo ai «produttori» associati in modo da sostituire la divisione gerarchica con la divisione volontaria del lavoro.
Soltanto, partendo da una critica effettiva della divisione del lavoro può, a sua volta, diventare effettiva la critica di un insegnamento che direttamente (nelle scuole tecniche e professionali) o indirettamente, forma i quadri, gli esecutori e gli scarti della produzione capitalistica. La distruzione dell'università e dell'insegnamento di classe non riguarda cioè soltanto coloro che subiscono l'insegnamento: riguarda la classe operaia, se la divisione capitalistica del lavoro - di cui la scuola è la matrice - dev'essere superata. (...)
Se la necessaria violenza della lotta degli studenti tende allora a logorarsi in simboliche rivolte sul piano universitario non è per il gusto perverso d'una violenza fine a se stessa; è perché la violenza è la sola capace di spezzare, sia pur temporaneamente, l'accerchiamento del ghetto universitario e porre un problema del quale i riformisti d'ogni tipo preferiscono ignorare l'esistenza. Questo problema - la crisi delle istituzioni e dell'ideologia borghese e della divisione del lavoro - è per eccellenza un problema politico. Non basta che i partiti politici rifiutino di dare significato alla violenza studentesca e tradurla in politica perché questa sia assimilabile al vandalismo: si tratta d'una violenza politica, e politicamente necessaria, se non sufficiente.

venerdì 22 aprile 2011

La democrazia secondo Marx ed Engels


di Riccardo Achilli

Nella “Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico”, Marx espone, fra l'altro, la sua visione della democrazia, poi ripresa, e specificata, anche da Engels. L'idea fondamentale è quella della separatezza fra società civile e società politica. Per Hegel, quanto per Marx, la società civile e lo Stato sono due entità divise ed anzi contrapposte. Hegel infatti: “parte dalla separazione della società civile e dello Stato politico, come due opposizioni fisse, come due sfere realmente differenti (...) questa separazione è certamente reale nel mondo moderno”. La società è caratterizzata dalla scissione di due sfere che da un lato formano il regno sociale dell’egoismo dilagante e degli interessi privati e, dall’altra, formano una dimensione politica che dovrebbe garantire l’interesse generale, ma dove questo si attua soltanto a livello formale. “Lo stato costituzionale, è lo Stato in cui l’interesse statale, in quanto reale interesse del popolo, c’è soltanto formalmente, ed esiste come una determinata forma accanto allo Stato reale” (ovvero la società civile con il suo intreccio di rapporti economico-sociali, che determina il posizionamento delle classi sociali e dei singoli individui).
Tale scissione si verifica anche a livello di singoli individui, che si sdoppiano, fra la loro vita sociale e la loro vita politica. Infatti, “nella repubblica come forma semplicemente particolare di Stato, l’uomo politico ha la sua peculiare esistenza accanto all’uomo non politico, all’uomo privato. La proprietà, il contratto, il matrimonio, la società civile, [...] appaiono qui come modi di esistenza particolari accanto allo Stato politico, come il contenuto, nei cui confronti lo Stato politico si comporta come la forma organizzatrice”.
Tutto ciò ha rilevanti conseguenze sulla natura stessa dello Stato democratico liberale. Infatti, la separazione fra società civile e società politica, con lo Stato che rappresenta solo formalmente gli interessi sociali, regolati invece nell'ambito della società civile, tramite i rapporti di produzione, crea un ceto politico di professione, sostanzialmente autoreferenziale e sganciato da chi dovrebbe rappresentare. Secondo Engels, “la società, per la tutela dei propri interessi comuni, si era provveduta di organi propri, all'origine mediante una semplice divisione del lavoro; ma col tempo questi organi, con in cima il potere dello Stato, si sono trasformati da servitori della società in padroni della medesima, al servizio dei propri interessi particolari. Il che, per esempio, è evidente, non solo nella monarchia ereditaria, ma anche nella repubblica democratica. In nessun paese i 'politici' formano una sezione della nazione così separata e così potente come nell'America del Nord. Quivi ognuno dei due grandi partiti che si scambiano a vicenda il potere viene a sua volta governato da gente per cui la politica è un affare, che specula sui seggi tanto delle assemblee legislative dell'Unione quanto dei singoli Stati […] e la nazione è impotente contro questi due grandi cartelli di politicanti che si presumono al suo servizio, ma in realtà la dominano e la saccheggiano.”
Ciò conduce Marx ad avere seri dubbi circa l'utilità stessa del sistema rappresentativo, tipico delle democrazie parlamentari. “La separazione dello Stato politico dalla società civile si manifesta come separazione dei delegati dai loro mandanti. La società delega semplicemente gli elementi della sua esistenza politica”. Tale forma di diffidenza per le democrazie parlamentari è sviluppata ulteriormente da Gramsci, secondo il quale nel processo elettorale “non è vero che il peso delle opinioni dei singoli sia 'esattamente' uguale. Le idee e le opinioni non 'nascono' spontaneamente nel cervello di ogni singolo: hanno avuto un centro di formazione, di irradiazione, di diffusione, di persuasione, un gruppo di uomini o anche una singola individualità che le ha elaborate e presentate nella forma politica d'attualità. La numerazione dei 'voti' è la manifestazione terminale di un lungo processo in cui l'influsso massimo appartiene proprio a quelli che 'dedicano allo Stato e alla Nazione le loro migliori forze' (quando lo sono)”.
L'osservazione di Gramsci sulla sostanziale iniquità delle competizioni elettorali anticipa, bizzarramente, la fondamentale scoperta fatta in merito ai sistemi elettorali da un economista non certo marxista, Kenneth Arrow, e racchiusa nel famoso “teorema dell'impossibilità”. E' fondamentale sapere che si tratta di un teorema, quindi ha una dimostrazione matematica. L'enunciato di tale teorema è il seguente. Si ipotizzi che una società necessiti di adottare, tramite un processo elettorale, un ordine di preferenze tra diverse opzioni. Ciascun individuo della società ha un proprio ordine di preferenza individuale, che può esprimere per esempio tramite un voto. Il teorema considera le seguenti proprietà, che Arrow ipotizza rappresentare requisiti minimi per poter avere un sistema di voto equo:
Universalità: la funzione di scelta sociale derivante dal risultato del voto deve essere costruita a partire da tutto l'insieme iniziale di preferenze individuali (che ovviamente nel processo elettorale stesso vengono selezionate e scremate);
Non imposizione (o sovranità del cittadino): ogni sistema di preferenze individuale, se riceve un numero sufficiente di voti, deve poter vincere (nessuno deve essere escluso a priori);
Monotonicità: se un individuo modifica il proprio ordinamento di preferenze promuovendo una data opzione, la funzione di scelta sociale deve promuovere tale opzione o restare invariata, ma non può assegnare a tale opzione una preferenza minore;
Indipendenza dalle alternative irrilevanti: se qualche candidato, portatore di una funzione di scelta possibile, si ritira dalla competizione, o ne viene eliminato in una fase preliminare, ciò non deve pregiudicare la rappresentatività, in termini di consenso elettorale effettivo, della scelta che alla fine risulterà vincente.
Il teorema di Arrow dimostra che se il gruppo di cittadini votanti comprende almeno due individui e l'insieme delle alternative possibili almeno tre opzioni, non è possibile costruire una funzione di scelta sociale che soddisfi al contempo tutti i requisiti sopra enunciati. Tale dimostrazione ha effetti pratici molto rilevanti, che gettano una luce negativa sull'equità dei sistemi di voto, e sulla loro manipolabilità potenziale. Arrow concluse che nessun sistema elettorale può contemporaneamente soddisfarre tutti i requisiti di cui sopra, quindi non esiste sistema elettorale pienamente equo. Inoltre, il meccanismo elettorale prescelto può condurre a esiti non rappresentativi della maggioranza degli elettori. Un esempio illuminante è il paradosso di Condorcet, che non è altro che un caso particolare del teorema di Arrow. Dimostra che i sistemi elettorali a più stadi possono determinare risultati che non dipendono dall'effettivo numero di voti di ciascun candidato, ma dall'ordine nel quale i vari candidati si presentano alle varie tornate elettorali (tipico caso delle elezioni a doppio turno, o delle elezioni che prevedono delle primarie: se tizio è eliminato al primo turno o alle primarie, ma al secondo turno avesse avuto una maggiore capacità di aggregare altri voti rispetto ai due candidati residui, in effetti finirà per vincere un candidato con meno consenso complessivo).
Più in generale, stanti n elettori, possono determinarsi 2 exp (n-1) maggioranze possibili, se n è pari, e 2 exp (n-2) se è dispari. L'assunto di senso comune secondo il quale il bene comune dipende dalla volontà della maggioranza che lo esprime è quindi indimostrabile, perché, se le maggioranze possibili sono molte più degli elettori che le compongono, le decisioni assunte da una maggioranza penalizzano le altre 2 exp (n-1) -1 maggioranze possibili. Inoltre, poiché vi è sempre un piccolo gruppo di individui che possono partecipare virtualmente alla maggior parte delle possibili maggioranze, mentre altri, più deboli, possono partecipare solo ad un numero minore delle possibili maggioranze, ci sarà un'élite di individui (generalmente appartenente a lobby particolarmente potenti economicamente o politicamente) che avrà una maggior probabilità di essere rappresentata rispetto agli altri, quale che sia la maggioranza che si forma. Tipico è il caso dei programmi elettorali della destra liberale e del centrosinistra riformista, che in molti punti, per esempio sulle politiche di sostegno alle imprese, sono quasi identici. In questi casi, i capitalisti vincono quale che sia la maggioranza che si formi a seguito delle elezioni.
Ecco un caso in cui Marx, Engels e Gramsci smascherano la natura potenzialmente manipolatrice e non rappresentativa delle cosiddette democrazie rappresentative prima che, molti anni dopo, gli economisti liberali come Arrow giungano allo stesso risultato. La dialettica marxiana evidenzia come la democrazia parlamentare liberale può divenire una sovrastruttura in senso proprio: sganciata dalle dinamiche reali della società civile, composta da politici di professione non necessariamente rappresentativi degli elettori, si converte in un apparato in parte predatorio ed in parte finalizzato a dare una rappresentanza legale ed istituzionale ai meccanismi di sfruttamento di classe.
Come se ne esce? Il primo Marx, quello dell'opera all'inizio citata, pensa ancora che sia possibile uscirne con la stessa democrazia che, radicalizzata al suo estremo, porterebbe alla fine dello Stato. Dice infatti Marx che “soltanto nell'elezione illimitata, sia attiva che passiva, la società civile si solleva realmente all'astrazione di se stessa, all'esistenza politica come sua vera esistenza generale, essenziale. Ma il compimento [Aufhebung] di questa astrazione è al contempo la soppressione dell'astrazione. Quando la società civile ha realmente posto la sua esistenza politica come la sua vera esistenza, ha contemporaneamente posto la sua esistenza civile, nella sua distinzione da quella politica, come inessenziale; e con una delle parti separate cade l'altra, il suo contrario. La riforma elettorale è, dunque, entro lo Stato politico astratto, l'istanza dello scioglimento [Auflösung] di questo, come parimenti dello scioglimento della società civile (...) Il potere legislativo ha fatto […] le grandi rivoluzioni”. In altri termini, preso il potere democraticamente, il proletariato trasformerebbe radicalmente le forme di produzione ed i rapporti sociali, fino ad arrivare all'estinzione delle classi, dello Stato e quindi al comunismo.
Naturalmente questo era il primo Marx, la cui visione poi cambierà profondamente, abbandonando la fiducia nella democrazia, per abbracciare quella della rivoluzione di classe, dopo i moti del 1848. infatti, se la democrazia è la sovrastruttura borghese costruitaper difendere e cosnervare lastruttura classista sosttostante, allora non si potrà utilizzare la democrazia per sovvertire i rapporti di classe, come ben dice Lenin in “Stato e Rivoluzione”: “questa democrazia è sempre limitata nel ristretto quadro dello sfruttamento capitalistico, e rimane sempre, in fondo, una democrazia per la minoranza, per le sole classi possidenti, per i soli ricchi. La libertà, nella società capitalistica, rimane sempre più o meno quella che fu nelle repubbliche dell'antica Grecia: la libertà per i proprietari di schiavi”. Per cui, “lo Stato borghese non può essere sostituito dallo Stato proletario (dittatura del proletariato) per via di "estinzione"; può esserlo unicamente, come regola generale, per mezzo della rivoluzione violenta”.

Fonti:
“La democrazia radicale secondo Marx ed Engels”, E. Screpanti, [pubblicato in N. Bellanca ed E. Screpanti (a cura di), Democrazia radicale, “Il Ponte”, LXIII, 2007;

“Marx e lo Stato hegeliano”, di F. Della Sala, su http://www.centrostudilarcoelaclava.it/sito/?p=140

“Social Choice and Individual Values”, Arrow, K.J, Yale University Press, 1951

RICORDANDO LA RIVOLTA DI KRONŠTADT

RICORDANDO LA RIVOLTA DI KRONŠTADT  

di Nestor Makhno


Il 7 marzo è una data molto triste per i proletari della cosiddetta " Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche" che hanno partecipato in un modo o nell' altro agli eventi di quel giorno a Kronštadt. Il ricordo di quella data è ugualmente doloroso per i proletari di tutti i paesi, perché fa rivivere la memoria di ciò che gli operai e i marinai di Kronštadt chiedevano al loro esecutore rosso, il "Partito comunista russo", e al suo strumento, il governo del "Soviet", occupati a portare alla morte la Rivoluzione russa.
Kronštadt pretendeva da questi boia statalisti che restituissero tutto ciò che apparteneva ai proletari della città e della campagna, visto che erano stati proprio loro a fare la rivoluzione. Gli abitanti di Kronštadt insistevano sulle implicazioni pratiche dei fondamenti della rivoluzione di Ottobre:

SOVIET ELETTI LIBERAMENTE, LIBERTA' DI PAROLA E DI STAMPA PER OPERAI E CONTADINI, PER GLI ANARCHICI E I RIVOLUZIONARI SOCIALISTI.

Il Partito comunista russo vedeva tutto ciò come una inaccettabile sfida alla sua posizione di monopolio nel paese e nascondendo la sua codarda faccia assassina dietro la maschera rivoluzionaria e amica degli operai, nominò i liberi marinai di Kronštadt contro-rivoluzionari e spedì quindi contro di loro decine di migliaia di obbedienti sbirri e schiavi: membri della Ceka, Kursanty (ufficiali cadetti dell' Armata Rossa - nota di Alexandre Skirda), membri del Partito...per massacrare questi onesti combattenti rivoluzionari che non avevano nulla da rimproverarsi di fronte alle masse rivoluzionarie, essendo loro unica colpa la rabbia che provavano contro le menzogne e la codardia del Partito comunista russo, che stava calpestando i diritti dei proletari e la rivoluzione stessa.
Il 7 Marzo 1921 alle 18.45, una tempesta di fuoco d' artiglieria fu scaricata contro Kronštadt. Naturalmente ed inevitabilmente Kronštadt reagì. Reagì non solo per sostenere le proprie richieste, ma anche per tutti gli altri proletari del paese che stavano lottando per la LORO rivoluzione, che veniva arbitrariamente schiacciata dalle autorità bolsceviche.
La loro lotta ebbe un eco notevole in una Russia schiavizzata che prontamente si schierò dalla parte di Kronštadt, a sostegno della sua lotta giusta ed eroica, ma sfortunatamente non fu in grado di fornire alcun aiuto, essendo stata disarmata, costantemente sfruttata e tenuta in soggezione dalle strutture repressive dell' Armata Rossa e della Ceka, appositamente istituita per annientare il libero spirito e la volontà del paese.
E' difficile fare una stima delle perdite subite dai difensori di Kronštadt e dalla cieca massa dell' Armata Rossa, ma possiamo essere certi che superassero la cifra di diecimila morti. Si trattava per lo più di operai e contadini, la stessa gente che il partito delle menzogne aveva usato per ottenere il potere, riempiendoli di false promesse di un futuro migliore. Li aveva usati per anni con l' unico scopo di raggiungere i propri obiettivi di partito, come allargare e assicurare il proprio onnipotente dominio sulla vita economica e politica del paese.
Contro l' oligarchia bolscevica, Kronštadt difese la vera lotta di operai e contadini nella Rivoluzione russa. Per questa ragione i combattenti di Kronštadt furono sterminati, alcuni subito dopo la vittoria militare, gli altri nei sotterranei e nelle fortezze ricevute in eredità dal regime zarista e borghese. Avendo bene in mente questi eventi, la data del 7 Marzo deve essere ricordata dai lavoratori di ogni paese come un anniversario profondamente doloroso. Dunque non saranno solo i proletari Russi a dover ricordare in quel giorno il massacro dei rivoluzionari di Kronštadt, morti in combattimento o lasciati a marcire nelle prigioni Bolsceviche. Ma tutto questo non si risolverà lamentandosi: oltre al ricordo del 7 Marzo, i proletari di ogni terra dovranno organizzare manifestazioni per protestare contro le stragi perpetrate a Kronštadt dal Partito comunista russo contro gli operai e i marinai rivoluzionari, e per ottenere la liberazione dei sopravvissuti che ancora rimangono nelle prigioni bolsceviche e nei campi di concentramento in Finlandia.

(Delo Truda No. 10, Marzo 1926)


dal sito  http://www.nestormakhno.info/index.htm

mercoledì 20 aprile 2011

GARIBALDI SOVVERSIVO: OMAGGIO A GARIBALDI


di Roberto Massari


Nei giorni precedenti il 17 marzo, presunto 150° anniversario dell’unità d’Italia, mi ero limitato a indicare l’imbroglio riguardante la data: mancando la cacciata del Papa da Roma e mancando quindi la capitale naturale e storica di qualsiasi cosa si possa intendere per «Italia unita», nel 1861 non si realizzò affatto l’unità dello Stato italiano. Si fondò invece una versione «moderna» e allargata dello Stato monarchico sabaudo-piemontese», con tutte le sciagure storiche che ne conseguirono e ancora ne conseguono. La casata dei Savoia si annetteva gran parte della penisola, mentre i patrioti italiani continuavano a reclamare e lottare per la liberazione di Roma e mentre il Papato si confermava come il nemico dell’unità d’Italia più tenace e più duraturo nel tempo. Nemmeno dopo la liberazione di Roma (20 settembre del 1870) il Papato accetterà tale realtà e continuerà a rifiutarla fino all’accordo con Mussolini del 1929 (i famigerati Patti Lateranensi). Per questo, se proprio si sente il bisogno di celebrare il 150° dell’unità d’Italia, occorre aspettare il 20 settembre del 2020, preparandoci al peggio in campo filovaticano, visto che già in questa occasione i media e i provveditorati nelle scuole sono riusciti a distogliere l’attenzione dal contributo decisivo che il Papato diede al mancato raggiungimento dell’unità d’Italia nel 1861, negli anni precedenti e in quelli successivi. Figuriamoci cosa accadrà nel 2020 se il potere mediatico e politico della Chiesa sullo Stato italiano sarà ancora forte come lo è attualmente, se non addirittura più forte...
Accanto ai tanti e a volte interessanti articoli che sono stati pubblicati riguardo a vicende specifiche o pagine storiche dimenticate del moto unitario italiano, sono però comparsi anche articoli di sintesi (editoriali di giornali, commenti di noti intellettuali ecc.), che mi hanno colpito per la loro vuotezza, disinformazione voluta e incapacità per l’appunto a sintetizzare cosa fosse in gioco nel processo storico che riassumiamo convenzionalmente con il bel termine di «Risorgimento» (che per molti di noi fa rima con Rinascimento). Non citerò la lunga lista degli articoli di sintesi «cattivi» (e chissà quanti me ne sono sfuggiti), preferendo indicare due ottimi testi (con altri che forse mi sono sfuggiti) che invece consentono di operare tale sintesi mirabilmente. Mi riferisco all’articolo di Amadeo Bordiga («Alla gogna, non sugli altari», apparso il 7 aprile 1961 su Il programma comunista) ripubblicato meritoriamente in questi giorni da molti siti, e l’articolo di Michele Nobile («Sull’anniversario della cosiddetta unità d’Italia come forma di feticismo storico»), scritto per il blog di Utopia Rossa (www.utopiarossa.blogspot.com).
Allo stesso blog è indirizzato questo mio contributo che non contiene alcuna elaborazione originale, ma che vuole essere un complemento informativo per i due articoli citati, per quello di Michele soprattutto. Mi spiego.
In molti articoli di provenienza «sinistra» ho visto una tendenza diffusa a gettare discredito su Garibaldi, considerandolo in genere corresponsabile dell’annessione piratesca che i Savoia realizzarono di geran parte della Penisola, all’ombra della nascente unificazione capitalistica dell’Italia e senza che questa borghesia riuscisse a portare a compimento una propria (peraltro tardiva) rivoluzione. Facendo di tutt’erba un fascio, su Garibaldi vengono scaricate le responsabilità del peggior mazzinianesimo (senza aver chiaro nemmeno cosa sia stata anche tale corrente politica nella sua grande varietà di posizioni, che arrivano fino a uno dei più grandi rivoluzionari della storia, cioè Carlo Pisacane), se non addirittura del cavourismo, vista la remissività con cui Garibaldi accettò momentaneamente e a un certo punto l’avvento della monarchia sabauda. E così, invece di attirare l’attenzione sul Garibaldi che lotta in America latina per l’indipendenza del Rio Grande do Sul o dell’Uruguay, che lotta in Francia per la Comune di Parigi, o in Sicilia contro i Borbone, o contro il Papato per ben due volte (1862 e 1867) - sempre armi alla mano e sempre rischiando in prima persona invece di accomodarsi sugli allori conseguiti - si richiamano le pagine più nere del garibaldinismo, a partire dai tragici fatti di Bronte (in Sicilia, sotto la diretta supervisione di Nino Bixio) e tutto il successivo sostegno che fu dato dalla spedizone dei Mille ai nuovi «padroni» siculo-calabri-campani.
È un modo vecchio e molto diffuso di semplificare i problemi della storia che, davanti a epopee spesso grandiose nella lotta di emancipazione dei popoli (condotta sempre e comunque sotto la direzione di qualcuno, bello o blrutto che sia, interno o esterno al movimento), si preoccupa di ricercare la pecca, il fatto negativo (che immancabilmente esiste), per dedurne una negatività più generale del processo di liberazione esaminato o in corso. In generale questa metodologia, applicata al passato, serve a liberarsi sul piano individuale di ogni responsabilità storica rispetto al corso degli avvenimenti («nessuno ha incarnato concretamente i miei ideali e quindi me ne tiro fuori e anzi vi spiego come mi sarebbe piaciuto che fossero andate le cose») o, applicata al presente, serve a giustificare la condizione di isolamento dell’ossimoro incarnato sempre più spesso dall’«individuo politico» («nessuno incarna complessivamente i miei ideali e quindi me ne rimango solo, animo puro, a dirvi come dovrebbero andare le cose se ci fossero - a seconda dei gusti - un partito rivoluzionario, una rivista ben fatta, un’analisi adeguata, la mia direzione ecc.. Nell’attesa mi contento del mio blog, del mio giornaletto, del mio gruppetto, del mio leninismo a titolo personale, della mia carriera mediatica, universitaria ecc.)».
Io sono cresciuto diversamente e quindi non esito a confessarmi garibaldino. Sì, mi considero un garibaldino nel cuore (non da sempre, perché ho impiegato del tempo a capire la vera grandezza del movimento costruito da Garibaldi), un garibaldino sopravvissuto, ovviamente, ma certamente lo sarei stato nell’Italia di allora. Sarei stato un ammiratore e compagno di strada di Garibaldi per tutto ciò che di buono egli fece (in compagnia in questo delle migliori coscienze e intelligenze dell’epoca, non solo italiane - basti pensare a Bakunin); avrei combattuto con lui e, sperando di non aver lasciato la pelle sul campo, mi sarei differenziato rispetto ai suoi errori, magari tentando anche di convincere altre parti del movimento garibaldino ad aiutarmi. Dopo un periodaccio di dissidi e contestazioni, lo avrei però accompagnato nella sua appartenenza alla Prima internazionale e nella campagna per la Comune di Parigi; età e salute permettendo, avrei continuato la sua battaglia per la laicità dello Stato e dell’istruzione, l’indipendenza ideologica dal Papato, l’abolizione dell’esercito permanente, il decentramento comunale, la lotta contro la corruzione politica, il progresso delle classi lavoratrici ecc.
Questo è lo stato d’animo - di ex garibaldino-non-ancora-a-riposo - con cui mi sono messo a estrarre dalle Memorie di Garibaldi alcune parole sue, contenenti le indicazioni ideali che mi sembrano aver incarnato la sua grandezza in campo etico (senza dimenticare le molte debolezze e fragilità in campo politico, che però qui non potevano essere prese in considerazione: altri sicuramente provvederanno a farlo). E nel sottolineare questa grandezza etica del personaggio, non ho potuto tralasciare di indicare la sua refrattarietà alla gestione personale del potere, il suo rifiuto di trasformare in carriera politica la celebrità gigantesca di cui godeva in Italia e nel mondo (forse il primo politico mondialmente mass-mediatico della storia e a livello intercontinentale).
All’Italia attuale, dove decenni di trasformismo e carrierismo hanno distrutto alla radice la possibilità stessa che si organizzi un’area di pensiero e azione rivoluzionaria (vista la corruzione ideale che ha disintegrato la ex estrema sinistra fino a tempi recenti e ancora la disintegra), Garibaldi ha ancora molto da insegnare. Ma per capirlo occorre ripercorrere tutta la sua esistenza e ciò si può fare solo leggendo qualche biografia seria tra le molte scritte su di lui: le citazioni che seguono sono insufficienti.
Infine, una considerazione importante da parte di un guevarista guevarologo quale mi considero da sempre: lasciando da parte qualsiasi parallelismo politico (storicamente insussistente) tra Garibaldi e Guevara (anche se già proposto nel passato), rimane incontestabile la somiglianza umana fra i due personaggi: in campo etico, nel rifiuto della carriera politica a titolo personale, nella visione operativa e combattentistica degli ideali, nel rischio personale della vita, nella sfiducia verso gli apparati partitici o militari che fossero. Il lettore o la lettrice vedranno nelle citazioni che seguono l’entità delle somiglianze che indico o altre che si potrebbero scorgere. Invito questo lettore e questa lettrice a vigilare d’ora in avanti perché si impedisca ai detrattori di Garibaldi e degli ideali di emancipazione che egli incarnò, che insieme alle sue indiscutibili responsabilità negative si gettino a mare anche il suo internazionalismo, il suo cosmopolitismo, il suo senso laico della vita sociale, il suo anticlericalismno, la sua etica dell’abnegazione personale e, consentitemelo, la sua (loro) grande umanità.
In attesa di riprendere il discorso in preparazione del 20 settembre 2020, invio a tutte e tutti un caro saluto, riptendo un celebere grido risorgimentale che conserva ancora tutta la sua validità e anzi vieppiù ne va acquistando nel tempo:
Roma o morte
Roberto Massari
(17 marzo 2011)
Le citazioni senza indicazione sono tratte dalle Memorie di Garibaldi (scritte tra il 1860 e il 1872). I numeri di pagina rinviano all’edizione della Rizzoli del 2006 (prima edizione del 1982). Gli articoli politici citati sono in appendice a detta edizione.
SULL’INTERNAZIONALISMO E L’INTERNAZIONALE
«...internarci nel cuore dell’Austria e gettare il tizzone del risorgimento alle dieci nazionalità che compongono quel corpo eterogeneo e mostruoso» (p. 306).
«L’Internazionale avrà tuttavia a fondamento del suo programma:
1. Il suo titolo, che non deve far punto differenza fra l’africano e l’americano, fra l’europeo e l’asiatico, e che perciò proclama la fratellanza degli uomini, a qualunque nazione appartengano;
2. L’Internazionale non vuole preti, né per conseguenza menzogna;
3. Non vuole eserciti permanenti a perpetuare la guerra, ma una milizia cittadina per mantenere l’ordine interno;
4. Vuole il governo amministrativo della Comune» (lettera del 20 sett. 1871, p. 370).
«Io appartengo all’Internazionale da quando serviva la repubblica del Rio Grande e di Montevideo, cioè molto prima di essersi costituita in Europa tale società; ho fatto atto pubblico di appartenere alla stessa in Francia nell’ultima guerra (...). Nessuna ingerenza ho io nell’Internazionale, e certo perché sanno non approvar io tutto il loro programma, sarà motivo, per i capi, a tenermi escluso. Ma se l’Internazionale, come la intendo io, sarà una continuazione del miglioramento morale e materiale della classe operaia, laboriosa ed onesta, conformemente alle tendenze umane di progresso di tutti i tempi, e massime degli odierni, in conflitto col sibaritismo della autocrazia, teocrazia, e l’ingorda pleiade che s’arricchisce con le miserie altrui, io sarò coll’Internazionale. L’Internazionale è un fatto, a dispetto di chi lo nega. Essa proviene particolarmente dallo stato anormale in cui si trova la società nel mondo» (lettera del 14 nov. 1871, pp. 371-2).
«Il mio cosmopolitismo, caro Giorgio, nulla toglie all’immenso amor mio per l’Italia e ne puoi esser certo» (ibid., p. 373).
«“Tutti gli uomini sono fratelli”. Ed i preti hanno fatto delle nazioni tante belve che si distruggono barbaramente a vicenda» (discorso a Frascati del 14 giugno 1875, p. 378).
SULLA COMUNE
«[L’Internazionale] vuole il governo amministrativo della Comune. E questa è una delle maggiori glorie di Parigi...» (lettera del 20 sett. 1871, p. 370).
[Garibaldi fu eletto deputato all’Assemblea repubblicana francese e membro onorario della Comune, per la quale andò a combattere in Francia.]
«Garibaldi invece prende un atteggiamento di spregiudicata difesa della Comune, polemizzando apertamente e vivacemente con Mazzini e giustificando persino l’uso del tanto aborrito petrolio come mezzo di difesa contro gli eserciti versagliesi» (cit. da Pier Carlo Masini, Storia degli anarchici italiani, Rizzoli 1974, p. 47).
[Masini cita la lettera di Garibaldi a Giuseppe Petroni del 21 ott. 1871, riportata nell’antologia di Garibaldi - Lettere e proclami - a cura di Renato Zangheri, Milano 1954. Il libro di Masini è peraltro essenziale per ricostruire il cammino di amicizia e collaborazione che percorsero Bakunin e Garibaldi (messo in luce anche da altri celebri storici dell’anarchia, come George Woodcock e Max Nettlau. Garibaldi facilitò in ogni modo l’ingresso di Bakunin nel mondo dell’eversivismo italiano e il secondo espresse a più riprese l’ammirazione per il primo, per es. dopo la visita che gli rese nel rifugio-prigione di Caprera.]
SUL REPUBBLICANESIMO (L’ANTIMONARCHIA)
«La monarchia sabauda aveva ottenuto la gran preda, ed ottenuta come la volea, cioè in uno stato che il diavolo probabilmente se la porterebbe via» (p. 303).
«Potendolo, e padrona di se stessa, l’Italia deve proclamarsi Repubblica, ma non affidare la sua sorte a cinquencento dottori, che dopo d’averla assordata con ciarle, la condurranno a rovina» (testamento politico del 1871, p. 390).
SULLA DEMOCRAZIA SOCIALE
«Dunque istruzione obbligatoria e gratuita, ma laica. La riabilitazione intellettuale dev’essere completata anche dal materiale sollievo al proletariato, che dal lavoro che crea la ricchezza non ritrae sempre un sicuro guadagno contro la fame. E tale provvedimento dev’essere sollecito.
Per questa considerazione dobbiamo combattere l’assurdo sistema dell’imposte, specialmente quella speitata ed immorale che gravita sul pane quotidiano [tassa sul macinato], la tassa sul sale; e quante sono indirettamente onerose al povero, come il dazio consumo. Si sostituisca l’imposta unica col logico principio dell’applicazione progressiva.
La riduzione delle imposte dipende assai da quella delle spese esageratissime. Anche le strettezze finanziarie reclamano il discentramento [decentramento] che dovrebbe aver per base il Comune, come appare nelle più gloriose tradizioni della nostra Italia e nel moderno esempio dell’America.
Noi dobbiamo pretendere la completa applicazione delle libertà innate e riconosciute. Il diritto di riunione e la libertà della stampa cessino d’essere una menzogna. Noi dobbiamo pur dare calorosa adesione al suffragio universale (...); per esso il proletariato sinora escluso dalla rappresentanza legislativa, potrà reclamare giustizia» (appello del 1° agosto 1872, p. 375).
SULL’ANTIMILITARISMO
«A Calatafimi trovammo i più gravi feriti del nemico, e furon trattati da fratelli» (p. 259).
«Allora avevamo per avversari i borbonici, che si cercavano per combatterli. Oggi stava davanti a noi l’esercito italiano, che si voleva evitare a qualunque costo, ma che pure a qualunque costo ci cercava per annientarci (...). Tale scrupolo non ebbero certamente i soldati della monarchia, o, dirò meglio, i capi che comandavano quei soldati» (pp. 300 e 302).
«[L’Internazionale vuole] l’abolizione della guerra, degli eserciti permanenti, dei preti, dei privilegi...» (lettera del 20 sett. 1871, p. 371).
«...i deboli massime non possono parlare di disarmo. Benché non passerà molto che il disarmo e l’arbitrato internazionale, che germogliano nelle coscienze delle nazioni, diverranno una indispensabile realtà» (lettera alla Gazzetta della Capitale del 1° genn. 1876, p. 379).
SULL’ESERCITO POPOLARE CONTRO L’ESERCITO PERMANENTE
«Il governo, spinto dall’opinione pubblica, ma sempre nemico dei volontari, di cui diffida e teme, perché rappresentanti dei diritti e della libertà dell’Italia...» (p. 305).
«[L’Internazionale] non vuole eserciti permanenti a perpetuare la guerra, ma una milizia cittadina per mantenere l’ordine interno» (lettera del 20 sett. 1871, p. 370).
«Ogni Comune abbia le sue compagnie di militi ed invece di mandarli la domenica nella bottega del prete, li mandi al campo di Marte, per istruirsi nelle manovre, maneggi d’armi, ginnastica ed istruzione letteraria» (alla Gazzetta della Capitale del 1° genn. 1876, p. 379).
«Il giorno in cui gli eserciti permanenti saranno trasformati in esercito nazionale [cioè in milizie popolari], le invasioni diventeranno impossibili. Che vantaggio poi per la sicurezza pubblica, fatta dai militi del comune; cognizione del dialetto, delle località, degli individui buoni o cattivi; e finalmente tutti interessati alla sicurezza ed al decoro del proprio focolare» (lettera alla Gazzetta della Capitale del 1° genn. 1876, p. 380).
«Sostituire l’esercito permanente colla Nazione armata; cioè avere due milioni di militi, invece di poche centinaia di mila soldati (...). La polizia e pubblica sicurezza sarebbero assai meglio eseguite, giacché verrebbero fatte dalla gente stessa del paese, pratica dei luoghi, dei dialetti e delle genti. Che volete faccia un carabiniere siciliano in Piemonte, od un bergamasco in Calabria? Egli nulla conosce: siti, favella, costumi; ed il suo servizio, per quanto intelligente egli sia, a nulla sarà giovevole» (programma proposto il 18 maggio 1880, p. 386).
SULL’ANTICLERICALISMO (E SULLA RELIGIONE) [Le citazioni di sapore anticlericale, soprattutto contro il “pretismo” sono talmente numerose e cosparse in tutta l’opera (fino alla sua ultima pagina) che non si possono qui riportare tutte. Ne indichiamo solo alcune delle più significative.]
«[Durante la Repubblica romana] dovevansi prendere alcune misure di salute pubblica contro l’elemento prete, che non si presero e che si lasciò, per dei riguardi malintesi, onnipotente a congiurare, tramare, e finalmente contribuire alla caduta della repubblica ed alle sventure d’Italia» (pp. 171-2)
«...affrontare la tirannide sacerdotale certamente assai più nociva della borbonica» (p. 299).
«Qui nella contaminata vecchia capitale del mondo [Roma] si disputerà sulla verginità di Maria che partorì un bel maschio sono ora 18 secoli (...); sull’eucaristia, cioè sul modo d’inghiottire il reggitore dei mondi, e depositarlo poi, in un Closet qualunque (...). Finalmente sull’infallibilità di quel metro cubo di letame che si chiama Pio IX (...).
[A Napoli] E voi, vi lascierete trovare ancora coll’umiliante composizione chimica, che gl’impostori vi spacciano come sangue di S. Gennaro, e con cui si beffano di voi da tanti anni» («All’Anticoncilio di Napoli», 1869, pp. 367 e 368).
«Sia cancellato il 1° art. dello Statuto; affermando il predominio del cattolicismo, attesta essere un’audace ipocrisia, la tanto proclamata libertà di coscienza (...).
Domandiamo la soppressione delle corporazioni religiose in Roma, senza indugi e senza restrizioni. E poiché la catena del pregiudizio non può essere infranta che dall’istruzione, dobbiam reclamarla obbligatoria, gratuita e laica. Senza questa condizione, la scuola, dominata dalla setta clericale, pervertirebbe invece di educare. La Stato non può favorire le dottrine della fede cieca, che s’insinua coi primi insegnamenti e prepara la schiavitù dell’anima e del pensiero. Dunque istruzione obbligatoria e gratuita, ma laica» («Appello alla democrazia», 1 agosto 1872, pp. 374-5).
«Il secondo fu il periodo del cristianesimo e la croce piantata nella gran capitale irradiò su quasi tutto il mondo le umanitarie dottrine del giusto, del grande maestro della fratellanza umana, Cristo. E se i preti per amore del ventre e della lussuria non avessero falsato codeste sublimi dottrine, la famiglia umana non conterebbe dissidenti.
Io son figlio dell’uomo, diceva Cristo, ed i preti per ingannare le genti hanno fatto un Dio e se ne son fatti modestamente ministri per vivere lautamente alle spalle dei creduli (...). E noi otterremo tale stupendo risultato, sostituendo a tutte le religioni rivelate o mentitrici la religione del vero, religione senza preti basata sulla ragione e la scienza» (discorso a Frascati del 14 giugno 1875, pp. 377-8).
«Siccome negli ultimi momenti della creatura umana, il prete, profittando dello stato spossato in cui si trova il moribondo e della confusione che sovente vi succede, s’inoltra e, mettendo in opera ogni turpe stratagemma, propaga coll’impostura in cui è maestro, che il defunto compì, pentendosi delle sue credenze, ai doveri di cattolico. In conseguenza io dichiaro che, trovandomi in piena ragioni oggi, non voglio accettare in nessun tempo il ministro odioso, disprezzevole e scellerato d’un prete che considero atroce nemico del genere umano e dell’Italia in particolare. E che solo in istato di pazzia o di ben crassa ignoranza, io credo possa un individuo raccomandarsi ad un discendente di Torquemada» (testamento politico del 1871, p. 390).
SUL PAPATO E LO STATO DELLA CHIESA
«Rovesciare il papato, credo tanto valesse, e qualche cosa di più, che rovesciare il Borbone. E nel 1862, ciocché si proponevano le solite camicie rosse era di buttar giù dal papato, incontestabilmente, il più fiero ed accanito nemico dell’Italia» (p. 298).
«[Nel 1867] io mi figuravo con ragione esser giunto il tempo di dare il crollo alla baracca pontificia ed acquistar all’Italia l’illustre sua capitale» (p. 318).
«...doveva finalmente rovesciare quel mostruoso potere del papato, che come un canchero posa nel cuore dell’infelice nostro paese.» (pp. 319-20).
CONTRO IL GOVERNO E SULLA CORRUZIONE DEI POLITICI
«Una gran parte di coloro, che vociferano con entusiasmo l’unificazione patria nel ‘60, ora ben seduti e soddisfatti, o biasimavano l’impresa nostra, o si tenevano da parte, per non appestarsi al contatto di rivoluzionari, incontentabili ed irrequieti» (p. 299).
«Il pessimo sistema con cui si governa questo paese, ove il denaro pubblico serve a corrompere quella parte della nazione che dovrebbe essere incorruttibile, cioè gli uomini del parlamento, i militari e gli impiegati d’ogni specie; tutta gente, sventuratamente, che con poca fatica si fa inginocchiare ai piedi del Dio Ventre» (pp. 304-5).
«Il governo, che per disgrazia di tutti regge la penisola, appena sa se esiste una Sardegna, occupato com’è a preparare una schifosa reazione, e ad impiegare i tesori dell’Italia a comprare spie, poliziotti, preti e simile canaglia...» (p. 323).
«Alla voce del padrone [Pio IX, qui definito “pontefice della menzogna”], gli uomini che sì indegnamente governano l’Italia, coprendosi il volto colla solita maschera del patriottismo, ingannavano la nazione...» (p. 331).
SUL RIFIUTO PERSONALE DI FARE CARRIERA POLITICA
SULLA MODESTIA E SEMPLICITÀ DELL’UOMO
«...il capo dei triumviri [Mazzini] mi scriveva offrendomi il posto di generale in capo. Io ero impegnato al posto d’onore [combattendo contro le truppe francesi], e trovai bene di ringraziarlo e continuare nella sanguinosa bisogna di quell’infausta giornata» (p. 173).
«A lui [re Vittorio Emanuele II, dopo il Volturno] raccomandavo i miei valorosi fratelli d’armi, e questa era la sola parte sensibile del mio abbandono, desioso com’ero di ripigliare la mia solitudine» (p. 294).
[Nel 1862, dopo la spedizione vittoriosa dei Mille e dopo esser stato ferito in Aspromonte nel tentativo di andare a liberare Roma] «Mi ripugna di narrar miserie, e mi fastidia di tediare chi ha la pazienza di leggermi, con ferite, ospedali, prigioni e carezza di regi avvoltoj» (p. 303).
«Circa quattr’anni eran passati dal giorno in cui fui fucilato in Aspromonte. Io dimentico presto le inguirie, e così credettero gli opportunisti; coloro per cui, più l’utilità che la moralità dei mezzi, serve di bussola» (p. 304).
[Nella sua fuga da Caprera, di notte e all’inizio da solo da Caprera, nel 1867 all’età di 60 anni] «Indebolito dagli anni e dai malanni, l’agilità mia era poca tra gli scogli e cespugli dell’isola della Maddalena» (p. 322).
[Dopo il fallimento dell’ultimo tentativo di liberare Roma - a Monterotondo, Mentana - Garibaldi fu arrestato alla stazione di Figline e messo in prigione al forte di Varignano, presso La Spezia, dal 5 al 25 novembre 1867.]
«Ch’io non sia entrato nelle buone grazie della monarchia sabauda al mio arrivo in Italia dall’America nel 1848 è cosa naturale. Ch’io abbia suscitato dell’antipatie fra i suoi servitori, dal primo ministro ai generali dell’esercito, e da questi agli ultimi uscieri, innestati all’esistenza del governo regio, era pure conseguenza normale degli uomini e delle cose. Ciocché non posso esattamente spiegarmi si è la sfavorevole accoglienza fattami da queglil uomini, che ponno chiamarsi, giustamente, i luminari del moderno periodo del risorgimento nazionale, e che ne furono tanto benemeriti, come per esempio Mazzini, Manin, Guerrazzi ed alcuni de’ loro amici.
La stessa sorte toccommi in Francia nel 1870 e 1871. Eppure in Francia, come in Italia, io ho trovato una simpatia entusiastica tra le popolazioni, certamente superiore molto al mio merito (...). Mi accolsero imposto dagli avvenimenti, ma con freddezza, coll’intenzione manifesta, come certe volte m’era succeduto in Italia, di volersi servire del mio povero nome, ma non altro, ed in sostanza privandomi dei mezzi necessari, per cui la cooperazione mia poteva riuscir utile» (p. 341).
«Nessuna ingerenza ho io nell’Internazionale, e certo perché sanno non approvar io tutto il loro programma, sarà motivo, per i capi, a tenermi escluso» (lettera del 14 nov. 1871, p. 372).
[Eletto alla Camera nel 1874, Garibaldi si dimise il 26 nov. 1880 in segno di protesta verso la politica antisociale del governo. Va ricordato anche che i lunghi soggiorni a Caprera iniziarono come una sorte di «arresti domiciliari» per una personalità così popolare in Italia e così nota internazionalemente, da non poterla rinchiudere direttamente in prigione.]
«Essendo assoluta mia volontà di aver il mio cadavere cremato, io lascio le disposizioni seguenti: (...) 5° Al sindaco si parteciperà la mia morte quando il mio cadavere sarà incenerito completamente. 6° Molta legna per il rogo» (ultime volontà, Caprera, 2 luglio 1881, p. 391).
Dal Sito UTOPIA ROSSA

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