Cerca nel blog

i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
.

martedì 21 febbraio 2012

Babbo operaio

foto di Stefano Mangione


tratto dal sito A noi piace
........................................................

In tutta la vita non ho mai conosciuto un solo operaio
che non fosse nel suo profondo rivoluzionario
dico a un binario smorto perso chissà dove tra i carrelli sganciati
dalla Storia inconcludente che ci ha escluso entrambi
dai suoi meandri scavati con le unghie di una talpa morta
E se non l’ho conosciuto io mai nessuno ne conoscerà uno
L’ultimo dilettante dell’utopia è meno cieco del primo campione di realismo
Resta fermo e immobile come l’attesa su una banchina
e mi squadra di traverso, sfacciato come il cinismo della vecchiaia
poi mi colpisce come lo schiaffo di vento di un treno in corsa
E tuo padre allora? È rivoluzionario pure lui?
Due urli un gol ed è già fermo al palo il suo rigore dominicale
la sua coscienza in punizione si frange sulla barriera di cuoio
e ciao, ti saluto Carlo Marx, un’altra settimana è nel sacco
S’arresta la caldaia e il fumo quasi non sbuffa più dal camino
anche gli stantuffi fanno fatica a non indietreggiare
ma è solo un momento e basta un po’ di carbone rosso ardente
per scagliargli la pala addosso tutto sporco e sudato
Brutto porco d’un menscevico! Mai fischieranno le mie orecchie ai tuoi starnuti
Mio padre il più reazionario del più reazionario degli operai
è stato il più rivoluzionario della sua generazione
Solo il più eroico tra tutti gli inutili capelloni poteva sacrificarsi
quando deve avere pur compreso che era meglio rinunciare
a zampe d’elefante come a baffi e basette da barboni
e a tutte le altre mezze misure spuntate che non servono a nulla
pur di concentrare nel fondo delle sue più insondabili notti d’amore
il seme decisivo per quella stella più rara della punta d’una cometa
davvero capace di riaccendere il cielo cadente della Rivoluzione.

B.B.B.


lunedì 20 febbraio 2012

Il Socialismo sudamericano: un faro per il mondo. Appunti a margine di un viaggio in Venezuela.

                                                 

di Giuseppe Angiuli


Caracas: centro propulsore continentale dell’integrazione latino-americana e capitale mondiale del cosiddetto “Socialismo del XXI° secolo”.
Comunque la si pensi, un viaggio in Venezuela di questi tempi è un’esperienza che lascia impressioni indelebili giacché, fin dallo sbarco all’aeroporto internazionale “Simon Bolìvar” e percorrendo le affollatissime strade che conducono al centro cittadino, si ha la netta impressione di trovarsi in un posto alquanto speciale.

Sulle ripide colline che costellano la vasta area urbana di Caracas si abbarbicano i barrios, popolatissimi quartieri che raccolgono il sottoproletariato rimasto ai margini della società per decenni ed a cui il governo chavista ha per la prima volta riconosciuto un bagaglio di diritti minimi: espulsi dalle campagne, dove la manodopera disponibile è storicamente in eccedenza rispetto alla domanda di lavoro, milioni di persone indigenti hanno costruito case di fortuna che sfidano la legge di gravità e creano dei cumuli che somigliano, visti a distanza, ai nostri presepi natalizi.
23 de Jenero, Catia, Petare: questi sobborghi brulicanti di case, di uomini, donne e soprattutto di bambini, costituiscono la vera linfa vitale del processo rivoluzionario inaugurato dal Presidente Chávez.

Il mio amico Gabriel, per il cui matrimonio siamo accorsi in Venezuela, ci spiega che durante il colpo di Stato supportato da George W. Bush nell’aprile del 2002, con il quale una componente reazionaria dell’esercito venezuelano provò a mettere da parte l’esperienza bolivariana, migliaia di persone si misero in marcia spontaneamente da questi barrios, raggiungendo rapidamente il Palazzo Presidenziale Miraflores dove reclamarono a gran voce il rientro del loro legittimo Presidente: Hugo Chávez, anche grazie alla decisiva presa di posizione in suo favore di alcuni maggiorenti dell’esercito, riuscì così a rientrare in sella nel giro di 48 ore, in quella che finora viene ritenuta la prima esperienza di colpo di Stato fermato da un moto popolare (1).

I primi di dicembre del 2011 la capitale venezuelana ha dato il battesimo ad una nuova organizzazione intergovernativa a carattere regionale, sorta con la finalità di dare finalmente un corpo istituzionale all’integrazione dei Paesi latino-americani: la CELAC (Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños).
La nascita dell’organismo (a cui aderiscono 33 Paesi situati a sud del Rìo Bravo, dal Messico fino all’Argentina, con la inedita esclusione degli U.S.A. e la significativa inclusione di Cuba) costituisce un evidente successo politico per il Presidente Chávez, nella cui mente la CELAC costituirà d’ora in poi un gran polo di potere regionale, realizzazione del sogno di un’unica Patria grande già coltivato da Simon Bolìvar e dal Che Guevara, punto di arrivo dopo 200 anni di battaglia per sottrarsi alla dottrina Monroe  imposta da Washington (2).

Uno dei primi aspetti che si colgono in un viaggio in America Latina è che, da quelle parti, il latifondo e l’allevamento estensivo di bestiame, praticati dalle più potenti famiglie oligarchiche di origine bianca ed indo-europea, richiedono da sempre poche braccia per l’agricoltura e al contempo sottraggono tanta terra preziosa alla coltivazione di prodotti alimentari decisivi per il sostentamento della popolazione: in quest’ambito il chavismo è intervenuto in misura pesante, con una radicale riforma agraria che punta ad espropriare tutti i terreni privati eccedenti un certo limite dimensionale e che risultano non coltivati o improduttivi.
Nonostante il clima politico generalmente favorevole ai piccoli contadini, il mio amico Diego mi riferisce che anche nelle immense campagne venezuelane (sebbene in misura molto inferiore a quanto quotidianamente accade nella vicina Colombia, ultimo bastione geopolitico degli U.S.A. nella regione) si segnalano molti omicidi di campesinos aspiranti alla distribuzione di un piccolo fazzoletto di terra.

Ma è nell’ambito della gestione dell’immensa ricchezza petrolifera che Hugo Chávez ha impresso la svolta più significativa al Paese.
La completa nazionalizzazione dell’oro nero ha aperto al Venezuela due grandi risorse.

In primo luogo, le ha consentito di inaugurare la stagione della “diplomazia del greggio”, usando il petrolio quale mezzo alquanto persuasivo per ingraziarsi l’amicizia ed il sostegno politico di diversi Paesi viciniori, con alcuni dei quali si è cementata l’integrazione economica mediante la creazione dell’ALBA, un’area di scambio alternativa alla tradizionale zona di cosiddetto “libero commercio” (ALCA) da sempre egemonizzata da Washington.

Sotto un altro profilo, il controllo pubblico sulle entrate del greggio ha permesso in quest’ultimo decennio di “socializzare i profitti” della vendita del petrolio, reinvestendoli in immense campagne governative (definite Misiones) che hanno regalato a milioni tra i più poveri ed emarginati del Paese ciò che essi non avevano mai avuto in passato: assistenza sanitaria gratuita nei quartieri popolari delle città (Misiòn Barrio adentro), con il decisivo apporto professionale di personale sanitario cubano; alfabetizzazione di massa estesa anche alle periferie più estreme del Paese (Misiòn Robinson); da ultimo, proprio nei giorni di quest’ultimo Natale si è inaugurata la Misión Niños y Niñas del Barrio, finalizzata a sottrarre i bambini dalla devianza minorile di strada attraverso un programma sociale di recupero.
La mia amica Melys ci invita orgogliosamente a visitare il progetto di recupero minorile di cui lei stessa è responsabile all’interno del Municipio di Petare, uno dei luoghi a più alto tasso di violenza e omicidi di tutto il Paese (se non dell’intero subcontinente). Ma sono in tanti a sconsigliarci di fare ingresso all’interno del barrio, che sarebbe troppo pericoloso per dei gringos di pelle bianca come noialtri, perfino in orari diurni.
Rinunciamo all’invito, anche per mancanza di tempo, ma non senza avere compreso un aspetto causale poco conosciuto inerente la genesi di un certo tipo di violenza di strada a Caracas: è più di uno ad informarmi del fatto che all’interno del pericolosissimo barrio di Petare si sono infiltrate delle cellule organizzate di paramilitari colombiani i quali da tempo svolgono una lenta ma costante azione di destabilizzazione del Venezuela, spesso fomentando disordini e microcriminalità e non rinunciando al controllo dei flussi di cocaina (abbondantemente prodotta nel loro Paese d’origine, a dispetto del tanto sbandierato Plan Colombia Made in U.S.A.).
Riusciamo a conoscere anche Mariana, dentista venezuelana moglie di Antonio (docente e intellettuale creativo emigrato dall’Italia) la quale ha scelto per vocazione di operare proprio all’interno di Petare, praticando tariffe calmierate a beneficio della sua clientela di estrazione sottoproletaria che abita il barrio.
Nonostante sia stata aggredita già 2 volte all’interno del mio studio dentistico – ci confida Mariana, la quale comunque vive in una graziosa zona residenziale di Caracas - traggo quotidianamente gratificazione, nel mio lavoro, dal rapporto con la gente umile del quartiere”.

In fondo il Venezuela socialista e bolivariano di oggi è soprattutto questo: una terra dove si tenta di colmare rapidamente le immense differenze sociali formatesi in decenni di ricette neo-liberiste.
Alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, i locali discepoli del “gran sacerdote” Milton Friedman (tra i quali si segnalava l’allora Ministro dell’Industria Moisès Naìm, spesso ospitato sulle colonne del settimanale italico pseudo-progressista l’Espresso, bibbia della nostra borghesia de sinistra) avevano appena finito di privatizzare tutto ciò che c’era da privatizzare in Venezuela, con la consueta egida del F.M.I., quando tra le strade di Caracas scoppiò il finimondo: la rivolta del Caracazo, nel 1989, fece centinaia di morti tra la popolazione civile che, esasperata dal costo della vita divenuto insostenibile, prese d’assalto banche e supermercati, un po’ come avrebbero fatto poco più di un decennio dopo, per cause analoghe, gli abitanti di Buenos Aires all’insegna del motto “que se vayan todos!”.

Non tutti i settori della società venezuelana hanno accettato di buon grado l’avvento del socialismo bolivariano a conduzione chavista: i gruppi sociali che, prima dell’avvento di Chávez si collocavano nei piani alti della piramide sociale, non hanno perdonato al Governo la pesante ingerenza nei loro affari, dalla inedita imposizione fiscale (prima quasi del tutto assente nel Paese) ai penetranti controlli sulla regolarità del lavoro subordinato.
A tal proposito, mi ha colpito non poco scoprire che in Venezuela, quando gli ispettori del lavoro “fanno visita” ad un esercizio commerciale riscontrandovi delle irregolarità fiscali o contributive, sono autorizzati dalla legge ad apporre una specie di cartello con funzione di marchio d’infamia sulla porta d’ingresso del negozio, a beneficio informativo della clientela.

Il punto più critico dell’azione governativa, denunciato con particolare intensità dalla comunità di emigrati italiani presente in Venezuela, è quello degli espropri di alcune aziende.
Il socialismo chavista riconosce il diritto alla proprietà privata e permette piena libertà alla piccola iniziativa d’impresa ma interviene incisivamente sull’accumulazione di capitale medio-grande con azioni mirate di esproprio per pubblica utilità, in particolare contro le fabbriche e gli stabilimenti ritenuti fermi o improduttivi. Un imprenditore di origini italiane stabilitosi a Maracay non ci nasconde che per lui, se Chávez dovesse vincere anche le prossime elezioni previste per la fine del 2012, sarebbe  preferibile spostare la sua azienda in Brasile, Paese ritenuto più sicuro per gli investitori privati.
La verità è che le azioni di esproprio sono spesso dirette da ambienti militari, nei quali può annidarsi un tendenziale arbitrio che a volte collima con una propensione endemica alla corruzione, costume ahimè molto diffuso a queste latitudini.

Un Paese in cui si percepiscono sentimenti contrastanti, quindi, il Venezuela, ma davvero molto lontano dall’immagine rozza, falsa e caricaturale fornita dai mass media italiani ed europei, che per descrivere il Paese sudamericano sono spesso soliti ricorrere impunemente all’epiteto diffamante (oltreché fuorviante) di “dittatura”.
Nel quartiere coloniale di El Hatillo, sito alla periferia di Caracas, sono tutti benestanti e di indole anti-chavista. Il titolare di un bar-paninoteca sfoga senza remore il suo sentimento ostile al governo: “Lavoravo nella grande azienda petrolifera statale (la PdVSA, n.d.r.) ma quando c’è stata la serrata che paralizzò per diversi mesi il Paese (3), alla quale aderii, sono stato licenziato. Tuttavia adesso ho una mia impresa che fattura l’equivalente di circa 600 dollari al giorno”.
Se di “dittatura” si tratta - mi viene subito da pensare - è una dittatura alquanto liberal, visto che il chavismo ben permette ad un dissidente epurato dalla più importante azienda di Stato di aprire un’attività ricettiva in un elegante quartiere della capitale, con un fatturato niente male!

Negli ambienti vicini a Chávez, viceversa, si respira un’atmosfera di elettrizzante e contagioso entusiasmo che la recente malattia del Presidente ha finito per rinvigorire, anziché abbattere: per tutta la capitale si leggono scritte e murales che augurano una pronta guarigione al Presidente con l’incitamento “Pa’ lante, Comandante” (Avanti, comandante)!
Tra gli intellettuali ed i giovani chavisti, il fermento è palpabile: a Caracas si lavora sul cinema, sulla cultura, sulle iniziative che valorizzino le identità indigene ancestrali ed anche sulla riorganizzazione dei mezzi di comunicazione, oggi in Venezuela ritenuti un bene del popolo e per il popolo.
Il governo chavista negli ultimi anni ha revocato la concessione a trasmettere via etere anche a storiche televisioni commerciali come R.C.T.V. ma al contempo ha distribuito dal basso nuove frequenze ad associazioni e gruppi di quartiere: da qui la esplosione delle TV e radio comunitarie, un’esperienza di reale democrazia partecipativa che dalle nostre parti è ritenuta assolutamente “roba da marziani ” ma che invece in America latina vive una diffusione a macchia d’olio.

E che il sistema della comunicazione in Venezuela funzioni ben diversamente che da noi lo si comprende anche dal grado di diffusione di certe notizie che qui in Italia non sono certo possedute dall’uomo della strada: un istruttore di nuoto di mezza età, che mi ha offerto gentilmente di aiutarmi a cercare un taxi in un mio momento di difficoltà, mi spiega dettagliatamente cosa è accaduto alla Libia di Gheddafi (appena “aggredita dall’Impero”) e ci tiene a mostrarmi un filmato memorizzato sul suo cellulare che ritrae gli ultimi momenti di vita del leader libico. Da una frase in idioma spagnolo scappata dalla voce di uno dei carnefici di Gheddafi (“el fusil, el fusil!”) si deduce la probabile presenza anche a Sirte degli immancabili para-militari colombiani.
Se lo hanno fatto alla Libia – conclude il mio gentile amico venezuelano – un giorno potranno farlo anche a noi. Ma a quel punto noi ci stringeremo in un abbraccio difensivo che coinvolgerà tutto il continente, a cominciare dal nostro buon vicino Brasile. E vinceremo!”.

In un’Europa sconvolta dalla crisi dei debiti sovrani, dal dominio della finanza tecnocratica, dal generale impoverimento dei ceti medio-bassi e dalla costante incertezza verso il futuro che ci attende, non farebbe male a nessuno rivolgere un maggiore sguardo di attenzione verso il continente sudamericano, che pulsa di vitalità e voglia di crescita, ricordando sotto tanti aspetti i gioiosi anni ’50 e ’60 del novecento, fase che in Europa fu vissuta dalla generazione protagonista dell’immediato dopoguerra.

Il socialismo latino-americano del XXI° secolo è interessante da studiare perché non ha dogmi ma è allo stesso tempo un laboratorio di idee ed un cantiere vivo di progetti in carne ed ossa.
E’ un socialismo redistributivo, gradualista ed autenticamente riformista (quanto è abusata in Italia, ed a sproposito, questa antica categoria concettuale!).
Un socialismo fondato sull’inclusione e sull’aspirazione al riscatto dei poveri e degli emarginati.
Un socialismo condito da un sano nazionalismo patriottico di stampo sovranista e solidale.
Un socialismo che può apparire liberticida soltanto a chi ritiene che la più sacra delle libertà dell’uomo sia quella di arricchirsi.
Un socialismo che guarda anche a noi che viviamo nel cosiddetto “mondo ricco” (ricco ancora per quanto tempo?), ricordandoci che quando l’uomo è totalmente alienato dal lavoro ed è tutto preso dalla smania compulsiva di “competere” con i suoi simili, ha già perso una buona fetta della propria umanità, anche se non ne è consapevole.
Giulio Santosuosso, docente universitario di origini italiane, già assistente del prof. Lucio Lombardo Radice alla “Sapienza” di Roma, da circa 35 anni emigrato in Venezuela, afferma di essere arrivato qui dopo avere compreso che “l’occidente è morto da tempo”.
La sua idea di socialismo è stata condensata nello scritto "Socialismo en un paradigma liberal".
Monica Vistali, giovane giornalista professionista di origini bresciane, racconta quotidianamente la vita a Caracas dalle pagine del suo blog (http://monicacaracas.blogspot.com/): lei invece ha scelto di rimanere a vivere in Venezuela semplicemente “perché qui l’aria è più frizzante”.

G.A.


                                                                                                                  

NOTE:

1)  Tale vicenda, molto poco conosciuta in Italia, è stata raccontata in un raro documentario (“La rivoluzione non sarà teletrasmessa”) realizzato da una troupe nord-europea, che si trovò casualmente a poter filmare sia l’arresto di Chávez all’interno del Palazzo presidenziale che il suo repentino ritorno a bordo di un elicottero militare.

2)  Per comprendere appieno gli storici meccanismi di sfruttamento socio-economico di tipo coloniale che per secoli (a partire dalle dominazioni spagnola e portoghese nel ‘500 per giungere al dominio inglese nel ‘700 ed a quello yankee nel ‘900) hanno ingabbiato i popoli latino-americani, impedendo sviluppo e autodeterminazione, è fondamentale la lettura del libro scritto dall’intellettuale uruguayano Eduardo Galeano “Le vene aperte dell’America latina”, pubblicato in Italia nella collana editoriale "Continente desaparecido" curata dalla Sperling & Kupfer Editori. Il libro è stato pubblicamente dato in omaggio da Chávez a Barack Obama, nel corso di una recente conferenza intergovernativa.

3) Dopo il fallito tentativo di Golpe del 2002, l’opposizione venezuelana nel 2003 mise in atto una vasta azione di sabotaggio dell’intera attività estrattiva di petrolio, col deliberato intento di mettere in ginocchio il Paese e costringere il Presidente alle dimissioni. Tale azione ricordò il famigerato sciopero dei camionisti che paralizzò il Cile alla vigilia del colpo di Stato contro Salvador Allende, nel 1973.

domenica 19 febbraio 2012

La metafisica crematistica e l'antidoto ai suoi mali




di Carlo Felici

Forse in nessuna epoca come la nostra è stato tanto forte il desiderio di profitto, la tendenza ad accumulare ricchezza e a speculare su di essa, quasi come se, alla fine, essa debba risultare per tutti come una sorta di orizzonte metafisico su cui proiettare l'intero senso della vita e della civiltà dei singoli individui.


Tanto forte è questa tendenza, che la maggior parte delle persone oggi ha persino difficoltà ad immaginare o a ritrovarsi in una dimensione in cui la sicurezza e la stabilità del vivere non siano rappresentate dal possesso di ricchezza e di denaro.
Sintomatico è il fatto che le masse sono sempre più propense ad affidarsi politicamente a chi viene ritenuto più credibile proprio perché ha saputo accumulare tanta di quella ricchezza, da farsi rappresentante non solo di quella propria, ma anche dell'altrui, per quanto l'altrui possa risultare comunque sempre più misera nel confronto.
Purtroppo questa sorta di “fuga” ed esaltazione al tempo stesso del profitto, che trova la sua celebrazione liturgica nelle banche, nelle società finanziarie, negli investimenti in borsa, con i suoi riti satanici che coincidono con gli aggiotaggi, con i riciclaggi e le speculazioni finanziarie, trae fondamento soprattutto da un deficit progressivo di memoria storica e culturale, lo stesso che rende piuttosto flebile e vana qualsiasi forma di resistenza e di possibilità di invertire, mediante una seria alternativa, tale processo che, in definitiva, si rivela tanto illusorio quanto distruttivo. Poiché in nome del profitto si sta sacrificando l'essenza stessa della vita nella sua sacralità, integrità e diversità.  La crisi economica che sta investendo la Grecia è sintomatica di tale nefasta tendenza, ma riteniamo altresì che da essa si possa uscire proprio grazie ad una più consapevole riappropriazione dei valori di cui quella antica civiltà è stata, fin dai millenni scorsi, portatrice.


Lo studio dunque della cultura antica, non riproposta come meno antiquariato filologico, oppure come ermeneutica di un tempo sempre attuale e da giustificare ad ogni costo cercando appigli nel passato, ma come patrimonio di valori intramontabili e riproponibili, mutatis mutandis, in ogni tempo ed in ogni luogo, pur essendo maturati in circostanze uniche e non più ripetibili, può, anzi, deve essere il fondamento di una vera resistenza morale, culturale e civile.


Osservando in un breve excursus lo sviluppo della civiltà e del pensiero greco, ci rendiamo conto che lo scontro e la critica serrata contro la crematistica e l'accumuazione di profitto, è una vera e propria costante, sia in senso diacronico che sincronico.
Nell'Iliade Achille si rivolge ad Agamennone apostrofandolo come : “Uomo impudente ed avido di guadagno” (v148). Nell'Odissea prevale su tutto, non il desiderio di avventura e di ricchezza, ma la nostalgia della patria e della gloria perduta.
Nelle Opere e i Giorni di Esiodo si dice esplicitamente che il “guadagno travia la mente degli umani”(v.326)
Solone esorta a “curarsi delle cose oneste” e a non desiderare mai “nulla di troppo”. Talete invitava a “non arricchirsi malamente” e ad “essere moderati”.
Eraclito è molto esplicito nel merito: “La città si mantiene in pace e concordia solo se ci si accontenta di ciò che si ha a disposizione, senza avere bisogno di cose lussuose”.
In tutta l'epoca aurea dello sviluppo del pensiero tragico troviamo massime analoghe, da Eschilo che nelle Eumenidi ci ricorda che: “la ricchezza porta sciagura, perché basta solo per chi ha una mente saggia” a Sofocle che fu citato anche da Marx nel Capitale: “Per l'uomo nulla ha poteri così tristi e larghi come il denaro, che città devasta, uomini strappa dalle case, istruisce le menti pure a concepire il male, le perverte e le muta, del delitto indica il passo e l'esperienza schiude ad ogni empietà” (Antigone).
Socrate e Platone, anche reagendo ad una tendenza verso la crematistica che sembrò affermarsi con la sofistica, ma che pur restò nell'ambito di patrimoni accumulati per fama e gloria di perizia retorica, più che per puro desiderio di profitto, confermano e rafforzano la condanna della ricchezza fine a sé stessa.
Così si esprime Socrate nell'Apologia: “Ottimo uomo, dal momento che sei Ateniese...non ti vergogni di occuparti delle ricchezze, e della fama e dell'onore, e invece non ti occupi e non ti dai pensiero della saggezza, della verità e della tua anima...?” e Platone conferma: “La libertà consiste nell’essere padrone della propria vita e nel fare poco conto delle ricchezze".
Aristotele d'altra parte, come ci ricorda Plutarco, che cita il suo dialogo perduto Sulla Ricchezza, disapprovava fermamente che la ricchezza potesse produrre da sola altra ricchezza e piacere smodato.
Tutta la filosofia cinica, stoica ed epicurea fu infine un continuo esortare l'essere umano alla cura di sé e all'incremento della libertà interiore, soprattutto dal condizionamento dei beni esteriori, una tradizione che sarà fatta propria dal Cristianesimo, rielaborata e rilanciata nella sua storia millenaria.
Potremmo continuare con questa storia della resistenza culturale alla crematistica, ma tanto basta a dimostrare che essa ha fondamenta solide radicate nei millenni e che è stata confermata da secoli di pratica della saggezza.


Tornando dunque al presente, rileviamo e ribadiamo che oggi l'ineluttabilità e la necessità di un ordine mondiale fondato sulla “sopportazione” della povertà, solo affinché non sconfini in pratiche eversive, ed in modo tale che lasci comunque inalterato un assetto tale da consentire in modo tanto illusorio quanto distruttivo lo sviluppo e la crescita illimitata della ricchezza, con pratiche sempre più speculative, si fonda proprio sulla ghettizzazione e la rimozione della cultura, in particolare di quella antica. Tanto da riservarla ad ambiti sempre più ristretti e selettivi, riducendola a studio ed applicazione di un programma, svuotandola del suo contenuto “eversivo” e impedendo la sua discussione, meditazione ed attualizzazione.
Evidentemente la costruzione del consenso, per caste o individui che fondano il loro potere sulla ricchezza personale, sempre più avulsa da norme di controllo o dalla regolazione dei conflitti di interessi, passa per la rimozione di ogni possibile alternativa di senso, culturale, morale e sociale a tale assetto, fino a proporlo come unica salvezza possibile da condizioni ancora più rovinose.


Tutto questo non fa che consentire il travaso della ricchezza dai molti ai pochi, in modo sempre più inevitabile ed imprescindibile, costruendo anche quel consenso di cui le democrazie, almeno formalmente, hanno comunque bisogno, oppure rimuovendolo del tutto e sostituendolo con l'imposizione, da parte dei mercati globali, di governi tecnocratici e plutocratici.


Il “si salvi chi può” infatti si costruisce e viene indotto in particolare dall'illusione che ci si possa salvare meglio degli altri, legandosi prima e tirando poi il carro di chi ha dimostrato più di altri di potersi salvare meglio e di essere per questo più credibile nell'orizzonte della crematistica assunta a metafisica globale, e ritenuta così tanto necessitante da non presentare alcuna alternativa alla sua ineludibile attuazione.  Nel sistema crematistico del neloliberismo globalizzato la "salvezza" coincide con la permanenza di uno Stato che non è più espressione della volontà generale, ma è la diretta emanazione di un potere oligarchico e monopolistico che esprime la sua "volontà di potenza" mediante l'accumulazione di profitto e di capitale.
Nella pratica della resistenza con i mezzi mediatici esistenti, non ci può essere dunque che il suo smascheramento, la sua rappresentazione e caratterizzazione, affinché esso, come un "re nudo", possa almeno suscitare disgusto e, contro di esso, più che pietre e bombe molotov, risulti efficace lanciare un forte stimolo culturale, affinché ciascuno possa trovare, in un patrimonio inestinguibile di valori comuni, almeno l'antidoto  necessario a scongiurare l'assuefazione al suo "drogato diktat", e aggiungo come conseguenza, alla luce degli ultimi eventi della crisi economica globale, a propiziare la nostra vera salvezza.


C.F.

sabato 18 febbraio 2012

I mercanti saranno cacciati dal tempio? di Riccardo Achilli




E' notizia di questi giorni che il Governo-Monti si sta apprestando ad una modifica normativa sull'ICI finalizzata a incrementare le casistiche in cui la Chiesa dovrà pagare tale imposta. Naturalmente, poiché si vanno a toccare gli interessi di un potentato estremamente influente, già si levano, sugli organi di stampa, cori di approvazione sul senso dell'equilibrio e della ragionevolezza dei nostri cardinali, che accettano, in tempi duri per tutti, di stringere un po' la cinghia anche loro, e dall'altro, il consueto schieramento trasversale di parlamentari filo-vaticani, pronto ad innalzare una barricata per contenere le ambizioni del redigendo decreto entro limiti il meno impattanti possibili per le casse ecclesiastiche. In particolare, il ritornello è che occorre porre attenzione a non colpire in nessun modo, oltre che gli immobili destinati ad attività di culto (quindi non soltanto parrocchie o chiese, ma anche seminari, scuole per religiosi et similia) anche quelli destinati ad attività assistenziali e sociali, quand'anche tali attività ricevano contributi con denaro pubblico, da parte dello Stato o degli enti territoriali.
Questo articolo non è pervaso da alcun rigurgito anticlericale aprioristico, né da acredine, ma serve solo per cercare di stabilire la questione nei termini che sono oggettivi. In primo luogo, l'eventuale approvazione, da parte delle gerarchie ecclesiastiche, del decreto che Monti dovrebbe emanare né facilitata dal semplice fatto che vi è una procedura d'infrazione, da parte della Ue, in avanzato stato di attuazione, che dovrebbe essere finalizzata entro quest'estate, e che comporterebbe, in caso di accertamento di una violazione della normativa europea, l'obbligo, per la Chiesa, di pagare gli arretrati dell'ICI non pagato dal 2005 in poi, da quando cioè il Governo Berlusconi modificò la normativa sull'ICI alla Chiesa, rendendola più generosa. Pertanto, l'approvazione di una nuova normativa più restrittiva sull'ICI, che convinca la Commissione europea a sospendere la procedura d'infrazione, si risolverebbe in un affare per le casse della Chiesa, che si risparmierebbe l'onere di pagare gli arretrati per il 2005-2011. naturalmente, non è detto che, anche in presenza di una normativa più restrittiva, la Commissione decida di cancellare la procedura d'infrazione, ma le parole di ieri del Commissario Almunia lasciano intendere che vi sia un pre-accordo proprio per cancellare il pregresso (dice infatti il Commissario che “l'emendamento proposto ci sembra un progresso sensibile e sulla base di questo esame speriamo di chiudere la procedura”). Quindi, supportando l'emendamento-Monti, la Chiesa non farebbe altro che una (legittimo) analisi costi/benefici, secondo la quale è economicamente meglio per lei supportare tale emendamento, piuttosto che rigettarlo, finendo per pagare la multa comminata dalla Ue, che potrebbe anche superare i 2 miliardi di euro.
La Chiesa non dovrebbe comunque pagare, anche con l'emendamento-Monti, alcuna forma di imposta sugli immobili destinati ad attività assistenziale e sociale, poiché viene stabilito che l'imposizione graverà soltanto sugli immobili destinati ad attività commerciali, o miste (in questo caso scorporando la parte dell'immobile destinata ad attività religiosa). Ora, questa disposizione, francamente, sembra prestarsi alla più facile delle elusioni fiscali: basterà far proliferare il numero delle cappelle in ogni edificio commerciale, albergo, libreria, negozio di articoli religiosi, bar-ristorante, ecc. per risparmiare, del tutto legalmente, decine di milioni di euro. Monti è un professore di economia. Dovrebbe avere quindi ben chiaro il concetto di efficienza fiscale, che ovviamente implica l'emanazione di una normativa che minimizzi le fattispecie di elusione fiscale. Sarebbe molto più efficiente una normativa che limiti lo scorporo alle situazioni già in essere, proibendolo per il futuro (per cui in futuro un albergo continuerebbe a pagare l'ICI per il 100% del suo valore catastale, anche se vi si realizzasse ex-novo una struttura destinata ad attività religiosa). Tra l'altro, lo scorporo potrebbe generare l'effetto di abbassare il gettito, generando casi di parziale esclusione in immobili ad uso misto nei quali, oggi, la Chiesa paga l'ICI/IMU per intero. Naturalmente non nutro alcuna speranza che la mia proposta venga presa in considerazione.
Peraltro, il confine definitorio di ciò che è considerabile come “attività profit” e “no profit” è piuttosto labile, per cui a seconda di come l'emendamento definirà le attività no profit ancora esenti dall'ICI, la scuola cattolica paritaria, convenzionata con lo Stato (e che quindi riceve contributi pubblici, e che in teoria può anche generare utili) oggi esente potrà continuare ad essere esente anche in futuro, a condizione che reinvesta l'utile in attività didattiche (reinvestimento che rende la scuola più attrattiva, quindi le consente di occupare spazi di mercato più ampi, ampliando l'utile, e così via); la casa di accoglienza per determinati soggetti (ad es. parenti di malati) le cui rette sono stabilite ad un valore inferiore al prezzo di mercato, potrebbe continuare a essere esente anche in futuro. Così come esenti potrebbero continuare ad essere anche le attività cinematografiche parrocchiali, per le quali il pubblico paga un biglietto, a condizione però che “la relativa programmazione cinematografica e multimediale risponda a finalità precipue di formazione sociale, culturale e religiosa, secondo le indicazioni dell'autorità ecclesiale o religiosa competente in campo nazionale” (circolare 2/2009 Ministero Finanze). A rigor di logica, andrebbe esentato soltanto l'immobile adibito ad una attività totalmente “fuori mercato”, che cioè per sua natura non può generare un utile (ad es. una mensa gratuita per poveri) e che non produce alcun costo o tariffa, nemmeno se agevolato ed inferiore al valore medio di mercato, a carico dell'utente. Questa è la definizione più rigorosa del concetto di no-profit, l'unica che elimina quella zona grigia fra attività puramente caritatevole ed attività a cavallo con il mercato, zona grigia nella quale si generano casistiche di esenzione ingiustificabili. Non a caso, è proprio sul confine definitorio del concetto in questione che si è alzato il muro difensivo dello schieramento dei parlamentari cattolici, che va dal Pdl (Lupi, Napoli, Toccafondi) al Pd (Sposetti, De Micheli) passando per Udc e gruppo misto. Dalla definizione più o meno rigida di tale confine dipende in larga misura il gettito previsto e gli spazi di erosione fiscale. Non sono personalmente ottimista circa il fatto che verrà scelto un confine molto più rigoroso di quello attualmente vigente, basato sulla già citata circolare 2/2009, esplicativa dell'art. 7, comma 1, del d.lgs. 504/1992. in pratica, a mio avviso l'emendamento-Monti si limiterà a prevedere lo scorporo per attività miste, e forse a ridefinire in modo più preciso alcune categorie di attività esentabili oggi ancora vaghe. Ma senza enormi differenze rispetto all'impianto attuale e quindi senza eliminare del tutto la zona grigia entro la quale è possibile far passare esenzioni di vario genere.
Oltre che il concetto di efficienza fiscale, un economista come Monti dovrebbe conoscere il significato di analisi costi/benefici. Va precisato in tal senso che il compito di fare le politiche sociali a favore dei cittadini in difficoltà è un preciso dovere dello Stato, poiché l'articolo 3 della nostra Costituzione specifica che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. In questo senso, se lo Stato demanda ad organizzazioni del terzo settore, anche di tipo religioso, l'assolvimento di attività di tipo socio-assistenziale e no-profit, in realtà sta decidendo autonomamente di “terziarizzare” una funzione che gli appartiene, per specifico dovere costituzionale. Quando uno Stato decide di affidare a terzi una funzione propria, lo dovrebbe fare in base ad una analisi costi/benefici, che conduca ad una differenza positiva fra benefici e costi, non soltanto economici, ma anche sociali, dell'opzione relativa alla “terziarizzazione”. Fra i costi, occorrerà quindi anche considerare il mancato gettito ICI derivante dall'ovvia considerazione che, se si affida un'attività socio-assistenziale ad un organismo del terzo settore, religioso o laico che sia, questo organismo avrà bisogno di una unità immobiliare all'interno della quale svolgere tale funzione (la stima dell'erosione fiscale relativa a tali immobili è comunque trascurabile per il bilancio dello Stato, essendo nettamente inferiore ai 100 Meuro, in base alle stime effettuate dalla Relazione Finale del Gruppo di Lavoro sull'Erosione Fiscale del MEF, consegnata a Novembre 2011). Costo che, per quanto trascurabile, si andrà a cumulare con le altre esenzioni fiscali destinate ad attività no-profit, ivi compresa la quota dell'8 per mille destinata alla Chiesa (che oscilla nell'intorno del 36-37%, ed è di gran lunga la quota più alta fra le sette organizzazioni, Stato compreso, che concorrono alla ripartizione di tale posta finanziaria). Senza considerare il fatto che le attività di assistenza erogate dalla Chiesa, come dagli altri enti no-profit, godono anche di contributi pubblici diretti. Ad esempio, il 17,5% delle mense della Caritas gode di contributo pubblico per pasto erogato. Non credo che una simile analisi costi/benefici, suddivisa per area di assistenza sociale, sia stata mai fatta, e se quindi la terziarizzazione al terzo settore, ivi compreso al terzo settore cattolico, di tali attività, risponda ad un criterio di efficienza nell'utilizzo della spesa pubblica, oppure se corrisponda ad uno stato di fatto che si è andato consolidando nel tempo
Tale stato di fatto, peraltro, è ovviamente anche funzionale a scopi propagandistici, e quindi di proselitismo. A prescindere dalla pubblicità che la Chiesa si fa per le sue attività assistenziali e caritatevoli, e che aumenta di intensità in corrispondenza dei periodi di scelta della destinazione dell'8 per mille (evidentemente anche la Chiesa può disporre di esperti di marketing) basti pensare che la Chiesa, nelle previsioni del bilancio dello Stato 2012-2014, riceverà circa 290 Meuro per le sole scuole cattoliche, cui vanno aggiunte le risorse per il pagamento degli insegnanti di religione nelle scuole pubbliche, che sono a carico dello Stato, e che nel 2008 ha raggiunto la stratosferica somma di 800 milioni di euro. Queste sono di fatto risorse finanziarie che lo Stato assegna alla Chiesa per diffondere l'insegnamento cattolico, e quindi per reclutare nuovi fedeli. A spese anche dei contribuenti che non sono cattolici.
In conclusione, prendendo per buona la stima dell'ANCI, il provvedimento che Monti si appresta a varare sull'ICI agli immobili ecclesiastici ad uso commerciale genererà un gettito di 500-600 milioni di euro nel migliore dei casi (e probabilmente, tenuto conto delle possibilità di elusione connesse al meccanismo dello scorporo, già analizzato, e delle residue possibilità di avvalersi di zone grigie non perfettamente discriminate dalla normativa, tale stima appare anche piuttosto ottimistica), tutto sommato ben poca cosa a fronte della cospicua mole di risorse pubbliche che dallo Stato affluiscono alla Chiesa cattolica. C'è però un dato sostanziale, che potrebbe far aumentare notevolmente il gettito dell'ICI proveniente dalle casse ecclesiastiche, che molto probabilmente, proprio perché sostanziale, non sarà in alcun modo toccato. Oggi nessuno conosce con esattezza l'entità del patrimonio immobiliare che fa capo alla Chiesa. Si parla di circa 100.000 unità immobiliari ufficiali, ma c'è un indotto di immobili fantasma enorme. Si stima che migliaia di unità immobiliari di proprietà ecclesiastica non siano mai state accatastate, per un gettito che potrebbe in teoria anche superare il miliardo di euro, qualora si conducesse un serio lavoro di accatastamento di tali proprietà (cfr. La Repubblica del 14.02.2012). Altro che i 2-300 milioni di euro che con l'emendamento-Monti realisticamente si realizzeranno. Si farà quest'operazione di emersione di immobili-fantasma? Permettetemi di dubitarne molto. Alla fine, l'intera operazione “pagamento dell'ICI da parte della Chiesa” sarà poco più che una operazione di mera immagine, buona per mettere a posto la coscienza dei funzionari della Commissione europea, e per far fare buona figura ai soggetti coinvolti, di fronte ad un'opinione pubblica stremata.

A Revolution..to get knighted.


La crisi greca, come abbiamo più volte fatto notare di recente, si è rapidamente avvitata su se stessa fino a precipitare verso condizioni prerivoluzionarie ed insurrezionali che già si sono manifestate con una certa rilevanza pochi giorni fa, in occasione della decisione a cui è stato chiamato il Parlamento greco per stabilire l'ennesima “tortura” da propinare al popolo affinché subisca passivamente il perdurante ricatto della troika finanziaria europea e globale.
Mai come oggi, in tutto il mondo, si dovrebbe realizzare e manifestare un movimento internazionalista di sostegno unitario al popolo greco in lotta. Fornendo ad esso ogni conforto e strumento, a partire da una catena di solidarietà che assicuri beni essenziali a chi sta morendo di fame.
Lo si fa quando arriva uno tsunami imposto dalla natura, a maggior ragione lo si deve fare quando lo tsunami è di origine umana, finanziaria ed economica.
Ovviamente bisognerebbe anche organizzare viaggi di solidarietà per la Grecia affinché a quel popolo già in lotta se ne uniscano altri, provenienti da altri Paesi che hanno gli stessi obiettivi e lo stesso anelito di liberazione.
Oggi credo che la Grecia sia di fronte ad una lotta analoga a quella che condusse contro il dominio turco per la sua indipendenza e che vide affluire nelle file dei suoi combattenti patrioti di tutto il mondo come Santorre di Santarosa e Lord Byron, alcuni dei quali non esitarono anche a sacrificare per la sua causa di liberazione, che fu l'inizio di una lotta rivoluzionaria europea che culminò con i moti del 1848, la loro vita.
Sarebbe dunque normale aspettarsi che, indipendentemente da come vanno le cose in quel martoriato Paese, in Italia si formasse in tempi molto rapidi, un fronte di lotta compatto e permanentemente mobilitato per conseguire gli obiettivi che ho testé specificato.
Ma no, purtroppo il tribalismo politico nostrano prevale anche questa volta. L'ennesima, e resta prigioniero delle sue asfittiche quanto inconcludenti ed autolesionistiche divisioni.
La recente polemica tra PCL e Sinistra Popolare (residui di spezzoni della sinistra comunista, uno di tendenza trotskista e l'altro con perduranti obiettivi stalinisti) è emblematica di questo stato che io definirei di “pollificazione” del movimento cosiddetto “rivoluzionario” italiano.
In buona sostanza ed in sintesi (perché francamente dilungarsi su tale avvilente polemica è pure piuttosto deprimente) i due “partitucoli della sinistra” appesi tuttora ad una sorta di “impotenza di classe” perché, che si agitino o no, i loro consensi nella variegata classe proletaria (che, si badi esiste ancora tra lavoratori dipendenti, piccoli imprenditori, precari, pensionati, disoccupati, cassintegrati e licenziati) restano in condizioni minimali, si rimproverano vicendevolmente di non sostenere adeguatamente i compagni greci in lotta, con una notevole veemenza.
A questo punto, l'immagine dei “polli di Renzo” di manzoniana memoria, ci si affaccia alla mente, osservando tali polemiche del tutto inutili ed autolesioniste sia in campo nazionale che internazionale, con una certa reiterata insistenza, ricordando le parole emblematiche del Manzoni: “le quali intanto s'ingegnavano a beccarsi l'una con l'altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura.
In buona sostanza, Sinistra popolare sposa la causa del KKE, il partito comunista ellenico che, pur di mantenere la sua autonomia e la sua fisionomia veterostalinista e pur contestando duramente le politiche neoliberiste e repressive messe in atto in Grecia, va manifestare da solo, o con atti eclatanti ma dalla scarsa rilevanza politica, come gli striscioni sull'Acropoli, o addirittura a debita distanza rispetto alle masse popolari elleniche che pochi giorni fa hanno stretto d'assedio il Parlamento, oppure persino posizionandosi con la polizia a presidio del Parlamento stesso.
Il PCL, d'altro canto, accoglie in pieno le istanze dell'altro partito comunista ellenico di ispirazione trozchista (EEK), sostenendo le lotte dei lavoratori e finanche la reazione rabbiosa che alcune frange di manifestanti (ovviamente posizionati, senza distinzioni, dai media dominanti nella “notte in cui tutti i blocchi sono neri” senza per altro capire un accidente della dialettica interna del movimento in lotta in Grecia) e applaudite a scena aperta da parte consistente della popolazione ridotta alla disperazione, che hanno letteralmente messo a ferro e fuoco il centro cittadino, colpendo essenzialmente banche e centri commerciali.
Il comunicato del PCL che menziona anche quello di Sinistra Popolare, lo si può leggere con questo link http://www.pclavoratori.it/files/index.php?c3:o2613
Tra i passaggi più polemici di Sinistra popolare:
“Certo, caro Ferrando, se quelli che i tuoi amici troskisti greci organizzano sono quattro ragazzi - certamente e giustamente incazzati - fanno presto a fare qualche bella fiammata, questa sì a beneficio delle telecamere di tutto il mondo.
Ma se devi organizzare decine e decine di migliaia di lavoratori, pensionati, giovani, donne in cortei che tengono la piazza per giorni e giorni, come fanno da mesi i compagni "stalinisti" del KKE e del PAME, non puoi giocare a cowboy e indiani, ma hai anche la responsabilità della loro sicurezza e soprattutto che questi restino in piazza per molto molto tempo.
Ciò lo capisce anche un bambino ma non Ferrando... “
E la risposta sferzante del PCL:
“Erano “frange di teppisti!” dice il KKE e (a pappagallo) Sinistra popolare. É una vergognosa menzogna. Si usano le azioni marginali di alcuni piccoli gruppi , a CONCLUSIONE dello scontro di massa, per negare la realtà dello scontro di massa. TUTTE le testimonianze di piazza Syntagma, TUTTI gli osservatori interni e internazionali, hanno documentato in modo inoppugnabile le dimensioni dello scontro: una “folla mai vista” aveva stretto d'assedio il Parlamento; il grande Theodorakis, alla sua testa, chiedeva di poter portare in Parlamento l'appello del popolo ai parlamentari; la polizia ha attaccato la massa dei manifestanti con tutta la sua forza; la massa si è difesa con tutti i mezzi disponibili ( purtroppo pochi). Ed ha applaudito fragorosamente le azioni di contrattacco di migliaia di giovani contro la polizia, come mai era avvenuto in passato. Questa, e non altra, è stata la dinamica del 13 febbraio ad Atene.
Ebbene: cosa ha fatto il KKE? Ha posizionato le fila dei propri manifestanti, già raggruppati in una piazza separata, a un chilometro di distanza. Non solo non ha messo la propria forza organizzata al servizio della grande massa dei manifestanti contro la brutalità dello Stato, ma ha osservato coi binocoli la mattanza di lavoratori, giovani, pensionati, donne.”
Una osservazione chi scrive l'ha già fatta in un suo precedente intervento dal titolo “Dalla Grecia, quale rivoluzione?”, asserendo, tra l'altro, che una vera rivoluzione in Grecia avrebbe seriamente bisogno di un supporto armato e probabilmente lo si avrà solo quando reparti ribelli della polizia e dell'esercito decideranno di assumere su di sé l'onere e l'onore di difendere il popolo greco e la sua Patria dalla arroganza dei potentati economici che vogliono schiacciare la Grecia sotto il loro tallone appropriandosi delle sue straordinarie bellezze, oltre che del suo patrimonio economico nazionale.
Diciamo questo perché significativi segnali in tal senso si sono già avuti. Un sindacato di polizia ha minacciato di arrestare la troika finanziaria che sta strozzando la Grecia, "un generale greco, citato da un preoccupato Bild, alla domanda su che cosa farebbe se fosse posto di fronte alla eventualità di un ordine dall’alto di inviare i carri armati a proteggere le banche, ha replicato che li manderebbe senz'altro, ma dentro ci sarebbe lui stesso a sparare la prima granata sulle banche".
Questi non sono affatto elementi trascurabili e ci chiediamo seriamente, se ciò accadesse, e non sarebbe una novità nel mondo che reparti di polizia e dell'esercito possano abbracciare la causa del popolo con intenti rivoluzionari, (L'America Latina è piena di esempi del genere che non sono andati certo tutti in direzione repressiva e reazionaria, basti solo pensare che Chavez viene da reparti dell'esercito venezuelano) cosa farebbe, come si comporterebbe la sinistra comunista greca e, sicuramente, a ruota, quella italiana? Continuerebbe a punzecchiarsi e a beccarsi vicendevolmente ovviamente sempre tenuta per le zampe, e del tutto incapace di realizzare una forte azione di Resistenza e di Liberazione comune, o correrebbe in massa a sostenere, se necessario anche con le armi, l'insurrezione dei reparti in lotta senza altra bandiera che quella greca ed al grido guevarista di "Patria o muerte"?
Non lo sappiamo, purtroppo per ora abbiamo solamente queste disarmanti polemiche che non incoraggiano certo a pensare che si stia formando un fronte agguerrito di lotta comune a livello europeo per obiettivi al contempo patriottici ed internazionalisti
E se, la sinistra italiana è ferma al secolo scorso, noi siamo seriamente tentati, a questo punto, di risalire addirittura a due secoli fa, a quando Byron scriveva:


When a man hath no freedom to fight for at home,
Let him combat for that of his neighbors;
Let him think of the glories of Greece and of Rome,
And get knocked on his head for his labors.

To do good to mankind is the chivalrous plan,
And is always as nobly requited;
Then battle for freedom wherever you can,
And, if not shot or hanged, you'll get knighted.

Non ve la traduco, cari “compagnucci pollificati”, sia questa la vostra nemesi e la vostra condanna e però, oso pensare, anche la vostra capacità di riscatto.

C.F.

venerdì 17 febbraio 2012

L'Italia che non.."vabbuò".



Il detto popolare recita che “greci e italiani sono una stessa razza e una stessa faccia”. Ora, io credo che le razze non esistano e che le facce in questi ultimi tempi siano un po' artefatte e mascherate, probabilmente tanto di più, quando ci si accorge della loro impresentabilità.
Non per niente, certi premier fanno a gara per farsi dei lifting di vario genere, imparruccarsi o persino “asfaltarsi” il cranio.
Ma per quanto esso possa cercare di “mascherarsi”, dentro, è destinato a restare quello che è, ed è perciò impossibile nascondere il suo “prodotto”
I “prodotti” dei crani dei governanti e dei politici greci ed italiani sono noti ormai in tutto il mondo: corruzione, evasione, inefficienza, malversazione, collusione e via dicendo..
La Corte dei Conti che noi dovremmo tenere in seria considerazione ben di più e ben prima della BCE, ha appena sanzionato che l'Italia sperpera ogni anno circa 60 miliardi di euro in corruzione. Una cifra che equivale a più di una manovra finanziaria e che, se seriamente recuperata, ci consentirebbe di abbassare notevolmente la pressione fiscale, soprattutto sui soliti “noti”, supertartassati da sempre e da tutti i governi di ogni colore.
L'Italia è ormai strozzata da una pressione fiscale superiore a quella svedese, ma con tagli e servizi che, al confronto, sono quelli di un Paese del terzo mondo, basti solo citare le classi superaffollate e gli ospedali dove si curano ormai i pazienti per terra.
L'Italia, da sola, possiede un giro di corruzione equivalente alla metà di quella presente in tutti i Paesi della Comunità Europea, e già solo questo le farebbe meritare un bel calcio nel deretano da tutti i concittadini europei.
L'evasione fiscale viaggia poi su cifre astronomiche: dai 100 ai 120 miliardi, solo per l'IVA evasa, intorno al 36%..e se avete di recente avuto bisogno dei servizi, tra gli altri, di qualche idraulico, falegname, fabbro o elettricista, sapete anche benissimo perché.
Le frodi nei confronti dell'Unione inoltre ammontato a decine di miliardi di euro e di fronte a questo “tsunami” di liquame malavitoso, la Magistratura pare possa opporsi solo con delle “palette” e dei “secchielli”.
Tutto ciò ci fa capire che se in Italia davvero vogliamo fare una rivoluzione, dobbiamo piantarla con l'onanismo ideologico, forse continuando a sognare anche qui “l'isola che non c'è” oppure credendo che sia indispensabile continuare ad affollare le piazze, magari mettendole anche a ferro e fuoco, e tanto meno dobbiamo pensare che servano i forconi, le armi o l'esercito e la polizia che finalmente entrano in campo a “gamba tesa”.
No, io lo dissi diverso tempo fa, e lo confermo tuttora, per fare una vera “rivoluzione italiana” (http://www.socialismoesinistra.it/web/cultura/47-cultura-contributi/207-la-rivoluzione-italiana.html) servono solo alcune poche cose essenziali: un nuovo assetto educativo basato sul vero merito e su una profonda responsabilità, un sistema tributario più equo ed efficiente ed una lotta senza quartiere al legame perverso tra politica e poteri criminali. Una collusione talmente perversa e penetrante che oggi sta seriamente portando alla rottura dell'unità nazionale, su cui può contare solo un perfetto e stolto, ma “utile” idiota, magari in vena di nuovi e più perniciosi vassallaggi internazionali.
Il governo Monti non può mettere in atto questa rivoluzione, perché in primo luogo non ha un mandato popolare, e soprattutto perché è tenuto in piedi da un Parlamento costituito a larghissima maggioranza da personaggi che hanno forti legami con tale sistema endemicamente corrotto.
Un esempio tra i tanti è quello sulle liberalizzazioni, tanto sbandierate ma che non includono e temo non includeranno mai il settore nevralgico dei media e del mercato pubblicitario, rigidamente monopolista che assicura una ingente quantità di introiti e consente un ferreo controllo dell'economia e del territorio italiano, oltre che lo svolgimento di funzioni propagandistiche autoreferenziali
Monti avrebbe potuto provare a farsi eleggere per cercare di scardinarne questi perversi meccanismi, ma ha preferito l'investitura dall'alto, solo per questo gli siamo fieramente contrari, non perché nutriamo avversione verso la sua persona o verso la sua cultura che sappiamo essere connotata in maniera precisa non da oggi, ma da vario tempo.
Gli italiani, da sempre, sono abituati a fare i “furbi”, chi in un modo chi nell'altro, almeno minimamente, perché se uno non lo fa per niente, nel contesto in cui vive, è seriamente portato a perdere ogni sorta di autostima e a considerarsi nel senso etimologico del temine, un vero “deficiente”, uno a cui manca cioè almeno un pochino l'arte di “arrangiarsi” la quale però, di questi tempi, in non pochi casi, equivale ad una concreta capacità di sopravvivere.
Hai voglia a dire che pure durante il fascismo, la sopportabilità degli italiani e la loro capacità di adattamento hanno superato di gran lunga la fierezza dell'opposizione, un fatto resta certo: l'Italia è nata non da una “rivoluzione” e cioè dal basso, ma è stata imposta dall'alto, prima di una monarchia razzista e ferocemente antidemocratica, e poi con una dittatura populista altrettanto diseducativa e liberticida.
Quando l'Italia ha provato a rinascere con il referendum del 2 giugno del 1946, con un assetto repubblicano e democratico, è restata a lungo ostaggio di vecchie generazioni di italioti educati più a “credere, obbedire e combattere” per una ideologia di vario colore, per un credo clericale, per varie forme occulte di settarismo o anche solo per “mammasantissima”, piuttosto che a “pensare, confrontarsi e operare” per costruire un Paese migliore, profondamente diverso da quello imposto in passato.
Tutto ciò che hanno fatto poi gli italiani per migliorarsi un poco, è stato dovuto più al timore di perdere quel po' di benessere e di privilegio conquistato, mentre sarebbe finalmente ora che ciò accadesse per una autentica e condivisa voglia di cambiamento.
In poche parole, sino ad ora ci siamo dati una mossa solo per la paura del fuoco che si avvicina al sedere.
Oggi i culi degli italiani sono seriamente minacciati da un dilagante incendio, per cui forse più che in passato c'è da sperare che possano sollevarsi più celermente.
Non ci facciamo illusioni sul fatto che possano concretamente abbattere la corruzione e l'evasione dall'oggi al domani, siamo però portati a pensare che se non cominceranno sul serio a spianare almeno il perverso sistema-paese su cui esse hanno continuato a fondarsi e consolidarsi negli ultimi anni, tra non molto, con gli “scuri” di luna che incombono, non ci sarà più alcun sistema e tanto meno un Paese
Il “che fare?” di leniniana memoria non ci può illudere che l'italiano cambi per orientamento ideologico, morale o tanto meno culturale, dato che, fino ad oggi, queste prospettive sono state seguite più da minoranze “illuminate” (anche se troppo spesso “d'un immenso” ideologico di castronerie) piuttosto dalla maggioranza di un popolo che all'agorà preferisce tuttora il “bar-sport”.
L'ultima speranza del popolo italiano per “fare pulizia” è dunque riposta nell'incombere dello “tsunami” di monnezza pronta a sommergerlo. Più o meno come è accaduto di recente a Napoli che sta concretamente diventando oggi un laboratorio di sperimentazione di nuovi modelli da applicare su scala nazionale.
Napoli ha reagito e, a stragrande maggioranza, ha creduto di affidare il suo governo ad un competente e giovane ex magistrato: De Magistris, il quale ha deciso di darsi alla politica con la vocazione del vero “operatore ecologico d'assalto”
Se riuscirà nella sua “mission impossible” non escludiamo dunque che possa essere lui a guidare la vera rivoluzione possibile e necessaria da Sud a Nord, per restituire dignità culturale, economica, sociale e soprattutto giudiziaria all'Italia, di più e meglio di Monti.
Sarebbe davvero la salvezza per un Paese altrimenti destinato a fare la fine di una nave dal nome evocativo ed emblematico: la “Costa Concordia”, affondata a poca distanza dalla “costa” e con la “concordia” di tutto il suo staff dirigenziale, il quale con un disarmante “vabbuò” ha salutato il “si salvi chi può” dei suoi passeggeri.
Se l'Italia oggi fallisce, si spacca e il nostro epitaffio sarà dunque un misero quanto servile: “vabbuò!”
C.F.

giovedì 16 febbraio 2012

Lo scandalo del rifinanziamento delle missioni di guerra, di Riccardo Achilli



Mentre il Governo Monti spreme pensionati e lavoratori dipendenti con l'alibi del risanamento finanziario, qualche giorno fa, ovviamente nel semi-silenzio degli organi di stampa asserviti, come loro natura, agli interessi del capitale, la Camera dei Deputati ha approvato il rifinanziamento delle missioni militari all'estero, con un costo per l'erario pari a 1,402 miliardi di euro. La sola missione militare in Afghanistan per il 2012, costa la modica cifra di 780 milioni di euro. Come al solito, la maggioranza parlamentare è stata trasversale, ovvero basata sull'asse Pd-Pdl-Terzo Polo (sarebbe necessario peraltro ricordare a Bersani che quando c'era il Governo Berlusconi, più volte fece dichiarazioni di perplessità circa l'opportunità di tenere in piedi le missioni, specie quella afghana). Solo Gero Grassi ed Enrico Gasbarra, per il Pd, hanno avuto la dignità di votare contro, insieme ad Idv e Lega, mentre i radicali, pur avendo condotto da sempre una battaglia contro le missioni militari, hanno scelto una incomprensibile astensione.

La logica, se ce n'è una, è quella da sub imperialismo a rimorchio degli USA che da sempre ispira il peggio della politica estera italiana, e che è perfettamente incarnata da un Monti capace di spendere soldi dei contribuenti al fine di viaggiare a Washington, la scorsa settimana, per farsi elogiare il suo piano di demolizione sociale del Paese dalla comunità finanziaria di Wall Street. Il servilismo nei confronti dell'imperialismo USA è un riflesso condizionato della classe politica italiana, che però ha raggiunto livelli di parossismo con la seconda Repubblica, quando di fatto l'Italia ha rinunciato a qualsiasi ruolo autonomo di gestione dei propri interessi strategici ed economici, persino nelle aree dove naturalmente avrebbe dovuto esercitarlo (Nord Africa e Balcani, più in generale nel bacino mediterraneo). Praticamente, negli ultimi 18 anni, non ci siamo fatti mancare niente. Abbiamo partecipato, a rimorchio della NATO, cioè del Dipartimento di Stato Usa, a tutte le missioni di guerra possibili ed immaginabili: Balcani, Libano, Palestina, Afghanistan, Irak, Libia, Repubblica Democratica del Congo, con il nuovo decreto anche il Sudan del Sud e la Georgia, due scenari che, francamente, appaiono lontani dagli interessi strategici italiani, ma che anche se dovessero rivelare, magari in prospettiva, qualche interesse per il nostro Paese, sono già ampiamente sotto il cappello di altri. In Sudan, gli interessi ruotano attorno alla guerra sotterranea fra Usa e Cina per accaparrarsi le risorse petrolifere ed idriche, vero motivo per il quale è stata pilotata l'indipendenza della parte meridionale di quel Paese, attraverso una sanguinosa guerra civile che ha avuto come protagonista l'Epls, vero e proprio paradigma di movimento di liberazione nazionale costruito a tavolino dalla CIA, e predicante tranquillizzanti ideologie neoliberiste e filo occidentali. In Georgia, il problema ruota attorno al conflitto Usa-Russia per il controllo di una zona strategica, perché piattaforma di futuro passaggio del progetto di gasdotto Nabucco.

L'Italia si rende quindi sistematicamente serva di interessi strategici non suoi, ma del suo padrone al di là dell'Atlantico. Ma come illustrano i drammi shakespeariani, il servo troppo zelante è anche molto spesso un servo ingenuo. La partecipazione ad un progetto dell'Unione Europea di messa sotto controllo della Georgia nuoce gravemente agli interessi di politica energetica italiana. Infatti, tale missione serve soltanto per assicurarsi il controllo della Georgia dalle mire espansionistiche russe, esercitate tramite lo stato-fantoccio abcaso. La tutela Ue su Tbilisi, a sua volta, serve soltanto per garantirsi la realizzabilità del gasdotto Nabucco, che di fatto metterebbe fuori mercato il progetto ENI-Gazprom per il gasdotto South Stream, progetto che ha creato al Governo Berlusconi non poche antipatie nella burocrazia dell'Unione Europea, e nel tandem Sarkozy-Merkel, che lo accusavano di intelligenza con un brutale dittatore come Putin (mentre invece la Merkel che chiede di privare la Grecia della sua sovranità nazionale in materia di politiche economiche, per assegnarla ad un organismo privo di legittimazione elettorale come la Commissione, è un fulgido esempio di democrazia). E' evidente che l'interesse dell'Italia dovrebbe essere quello di sostenere il progetto South Stream, e quindi contrastare il concorrente Nabucco, sia perché un pezzo importante dell'imprenditoria italiana avrebbe lavoro per la realizzazione dell'opera, sia perché il progetto garantirebbe al Paese un rifornimento diretto di gas russo, senza passare per la Turchia e l'Europa centrale, come invece prevede il tracciato del Nabucco. Ma evidentemente gli interlocutori di questo Governo non hanno a cuore le sorti dell'Italia.

L'adesione acritica ai bombardamenti aerei della NATO sulla ex Iugoslavia fatta negli anni Novanta è un altro esempio più illuminante dell'idiozia da servo zelante della politica estera italiana. La disgregazione della ex Iugoslavia ha creato almeno tre Stati ad economia infiltrata da attività criminogene, che ovviamente dirigono proprio sull'Italia i prodotti delle loro attività criminali e di contrabbando, stipulando lucrose alleanze con la stessa criminalità organizzata italiana. Il grande business della ricostruzione e dei servizi di consulenza ed assistenza alla “institutional building” dei neo-Stati balcanici è stato monopolizzato da imprese statunitensi, canadesi, tedesche, francesi, britanniche, spagnole ed olandesi, con gli italiani che si prendevano le briciole.

Sull'Afghanistan tutti sanno il motivo per il quale tale guerra è iniziata: ancora una volta, l'esigenza di far transitare il petrolio ed il gas estratti in Turkmenistan, Azerbaidjan e Uzbekistan. In particolare, la guerra scoppiò perché fallirono le trattative fra la ditta americana che doveva realizzare l'oleodotto, la Unocal, ed il governo talebano (molto generosamente aiutato, nella sua ascesa al potere,dai due tradizionali alleati degli USA nell'area, Arabia Saudita e Pakistan). Lo snodo, raccontato nell'articolo “Afghanistan: tutte le bugie sulla guerra degli oleodotti” di Franco Marino, scaricabile su http://www.senzasoste.it/internazionale/afghanistan-tutte-le-bugie-sulla-guerra-degli-oleodotti , avvenne il 2 agosto 2001, quando i Taleban rifiutarono l'ultima offerta della Unocal per la realizzazione dell'oleodotto. Il 10 Settembre, Bush ricevette un dettagliato piano militare per l'invasione dell'Afghanistan, redatto dal Pentagono e dalla CIA. Quello che successe il giorno dopo il 10 Settembre 2001 lo sanno tutti.

Ebbene, la situazione sul campo oggi è che l'oleodotto non si è potuto realizzare, proprio perché la coalizione militare guidata dagli Usa non è riuscita a prendere il controllo completo del territorio, e la resistenza dei talebani, specie nelle aree tribali di confine con il Pakistan, si è rivelata praticamente indomabile. La contemporanea grave crisi economica, con i suoi riflessi su un bilancio federale già dissestato dai tempi della reaganomics, ha quindi costretto Obama a cambiare strategia, ed a riprendere i negoziati con i talebani, annunciando al contempo la graduale riduzione del contingente militare Usa, che si completerà entro il 2014. Gli Usa cercheranno quindi di perseguire i propri interessi economici ed energetici in Afghanistan per vie negoziali.

Di fronte ad un simile scenario, e peraltro con un Governo-fantoccio, come quello di Karzai, ripetutamente accusato di brogli elettorali e corruzione, se il Governo italiano avesse avuto a cuore gli interessi del Paese, avrebbe deciso di anticipare il ritiro delle proprie truppe, e di cessare la missione militare entro fine 2011. Ciò avrebbe permesso di risparmiare 780 Meuro del pubblico erario, magari alleggerendo un pochino la pressione su un Paese che si sta impoverendo. Oppure, al limite, avrebbe deciso di utilizzare le risorse per finanziare progetti di tipo civile, di ricostruzione ed assistenza. Ma ovviamente no! Si rimane fino alla fine, e con un intervento prevalentemente militare, e molto meno concentrato sugli aspetti civili. Infatti, dei 780 Meuro, solo 35 sono dedicati alle attività civili di tipo assistenziale. Tutto il resto serve ad attività militari. Ed ci si inventano nuove missioni in altre parti del mondo, dove peraltro non c'è nemmeno una guerra (perché la verità è che in Sudan del Sud ed in Georgia non ci sono al momento guerre in atto, ma solo potenziali stati di tensione).

Il decreto appena approvato prevede anche la possibilità di bombardare aree del territorio afghano senza necessità di preventivo assenso parlamentare! Evidentemente, la presenza di un militare di professione sulla poltrona di Ministro della Difesa, che, come in ogni Paese democratico, è stata sinora sempre appannaggio di un civile, conduce a simili derive. Con la conseguenza che la grave decisione di bombardare un Paese straniero sarà presa dai vertici militari, senza più alcuna possibilità di controllo da parte dell'opinione pubblica. Semplicemente non ne sapremo niente, o non avremo strumenti istituzionali per intervenire. Stiamo parlando peraltro di ampliare la discrezionalità di bombardare un Paese dal quale ci si sta ritirando!


Naturalmente la foglia di fico per giustificare una linea politica ingiustificabile è “la difesa della democrazia e della libertà”. Benissimo, professor Monti. Se si fosse veramente interessati alla democrazia ed alla libertà, Le propongo un emendamento al decreto sul rifinanziamento delle missioni: anziché andare in Sudan del Sud ed in Georgia, dove ci sono situazioni di relativa tranquillità, Le propongo di intervenire in Uganda del nord, dove una sanguinosa guerra civile, fomentata peraltro da una organizzazione guerrigliera di cristiani integralisti (l'Esercito del Signore, perché non ci sono soltanto le persecuzioni contro i cristiani in Nigeria, di cui si occupano esclusivamente i media) da anni massacra civili e provoca enormi sacche di profughi. Le propongo di intervenire in Gibuti, dove c'è una guerra fra Esercito governativo e ribelli del FRUD, Le propongo di intervenire in Ciad, dove, dopo la destabilizzazione del Paese provocata in larga misura da Gheddafi negli anni Ottanta, continua una sanguinosa guerra civile fra Governo e URF, oppure nella Repubblica Centroafricana, che è un vero e proprio campo di battaglia fra 3-4 fazioni armate diverse. O ancora, se Lei volesse “esportare un po' di democrazia”, Le suggerirei di volgere lo sguardo alla Guinea Equatoriale, dove un brutale despota, da più di 30 anni, mantiene un Paese potenzialmente ricchissimo nella miseria più assoluta, reggendosi su un regime clanico e nepotista, cleptocrate e corrotto, repressivo al punto tale da negare addirittura la possibilità di far uscire giornali quotidiani. Dove le minoranze etniche sono taglieggiate e fedeli clienti di una delle peggiori carceri del mondo. Cos'è, questi Paesi non rientrano nei sacri canoni della libertà e della demcorazia? I libici meritano la somministrazione forzosa di dosi di democrazia sulla punta delle bombe all'uranio impoverito ed il dittatore della Guinea Equatoriale deve essere lasciato in pace, permettendogli anche di organizzare un evento-vetrina come la coppa d'Africa di calcio, per fare propaganda al suo brutale regime di ladri? E' questo il concetto di libertà dei liberali cui Lei si pregia di appartenere, professor Monti?

mercoledì 15 febbraio 2012

Dalla Grecia, quale rivoluzione?

Le immagini di Atene che brucia per uno come me che ha sempre avuto due grandi amori nella vita: la passione rivoluzionaria e la cultura greca, sono allo stesso tempo fonte di grande speranza ma anche di molta angoscia.
Ho seguito, fino a notte tarda, gli scontri con la web cam e, minuto dopo minuto, mi sono consumato nel rimpianto di non essere stato anche io presente lì, nelle vie e nelle piazze di Atene.
La notte del 12-13 febbraio sarà ricordata come una notte storica, non solo per il popolo ateniese, ma anche per l'Europa. E' l'inizio di qualcosa di seriamente diverso, è forse l'incipit di una rivoluzione europea.
Tutto è cominciato quando due grandi personaggi, quasi mitologici della storia greca: Mikis Theodorakis, noto compositore, e l'eroe della resistenza antinazista Manolis Glezo, entrambi quasi noventenni, ma con il coraggio e la determinazione dei venti anni, hanno cercato di entrare in Parlamento per consegnare una dichiarazione di protesta congiunta che però è stata respinta con disprezzo e violenza inaudita, addirittura con attacchi mediante sostanze chimiche.
Da allora nella città culla della civiltà e della democrazia europea si è scatenato l'inferno, nelle vie, nelle piazze, con una furia sempre più crescente e devastante che ci fa capire chiaramente che purtroppo nei regimi europei del neoliberismo capitalista selvaggio, non c'è spazio per un cambiamento pacifico, per una “rivoluzione indolore”. Come alcune di quelle che si verificarono nei regimi dell'est a conduzione stalinista e che portarono al crollo del muro di Berlino.
Il muro monetario che impone sacrifici infiniti e insopportabili alle categorie di lavoratori, studenti e pensionati sempre più disagiate, è molto più robusto e insormontabile, e purtroppo l'illusione che crolli solo in virtù dell'impopolarità e del dissenso è destinata a cadere, così come quella che possa in qualche modo essere scalfito dalle immagini rilanciate dai media mondiali delle molotov, delle bombe carta o delle pietre volanti.
Di fronte a scioperi perduranti e alla esplosione improvvisa della rabbia popolare, esso assume facilmente le sembianze del muro di “gomma”, assorbendo e respingendo al contempo il conflitto.
Evidentemente questo accade perché il sistema che esso protegge è diventato ormai palesemente una dittatura che respinge ogni dissenso, anche all'interno delle compagini parlamentari in cui le componenti dissidenti vengono espulse senza tanti scrupoli da quei partiti che hanno deciso di seguire in maniera ossequiente le direttive di quei potentati economici che hanno come esclusivo loro interesse la crescita del profitto per gli istituti bancari e finanziari dominanti.
Questo non è un regime che sopporta cambiamenti democratici perché ha già espulso la democrazia dal suo orizzonte, soppiantandola con una serie di strumenti rappresentativi collateralisti, come vari partiti e sindacati che fungono solamente da cuscinetto per rendere l'impatto di tali politiche liberticide e divaricatrici dei livelli di benessere e di ricchezza, più progressive e “sopportabili”, anche quando il limite della sopportazione è già stato abbondantemente superato.
In Grecia le condizioni rivoluzionarie sono già ampiamente in atto, sia perché nessuna forza parlamentare si rivela più dotata di sufficienti capacità di autonomia e di alternativa per far fronte ai bisogni sempre più angoscianti del popolo, sia perché le classi medie sono ampiamente scivolate verso soglie di palese povertà, sia perché le classi dominanti sono completamente isolate dal contesto culturale e sociale dell'intero Paese e non sono più in grado di mantenere come prima un adeguato livello di autosufficienza, non esprimono alcuna capacità politica, ma hanno bisogno di fiduciari del sistema finanziario dominante calati dall'alto, e infine perché il mondo del lavoro sta mettendo in atto forme di lotta sempre più coordinate, dilaganti e perduranti.
Anche in alcuni settori normalmente deputati alla difesa del sistema dominante si stanno aprendo delle crepe di concreto e sempre più insofferente dissenso, un sindacato di polizia ha infatti invocato l'”arresto della Troika” europea incaricata di imporre e di controllare l'applicazione di un diktat che sicuramente non risolverà il problema dell'economia greca ma acuirà ulteriormente il disagio, la sofferenza ed il conflitto sociale.
Se dunque esistono tutte queste condizioni, che, si badi, stanno maturando non solo rapidamente in Grecia, ma anche in altri Paesi europei, perché il processo rivoluzionario non prende finalmente corpo, perché non si attua concretamente?
Essenzialmente per tre motivi.
  1. Date le condizioni specificate in precedenza, e data la resistenza di un sistema che sfrutta abilmente il caos fine a se stesso e distruttivo, un movimento rivoluzionario non può trovare il modo di “sfondare” conseguendo i suoi obiettivi solo con grandi manifestazioni oceaniche. Esso ha piuttosto bisogno di un vasto consenso popolare per mantenere un consistente appoggio “logistico”, ma, di fronte alla palese opposizione repressiva e alla violenza indiscriminata contro chiunque protesti, non può che usare metodi più incisivi, come la lotta armata. Evidentemente essa non si improvvisa né si può pensare che debba essere attuata da chi non è adatto a tale scopo. Per un tipo di lotta di questo genere sono necessarie persone che sanno combattere. E quindi deve necessariamente prodursi una saldatura tra movimenti popolari e reparti ribelli delle forze di polizia o dell'esercito, seriamente interessati a difendere maggiormente la dignità e la libertà della loro patria e della maggioranza del loro popolo, piuttosto che gli interessi delle classi dominanti.
  2. I leader di partito sovente si rivelano solo come un  impaccio per tale compito, in quanto tutti, nessuno escluso, tendono ad ingabbiare la lotta rivoluzionaria nell'ambito di una ideologia, di un partito o di una bandiera di parte, mentre una lotta del genere non può che essere patriottica ed internazionalista. Una forza concretamente rivoluzionaria non può dunque che abbandonare le sigle di partito, le ideologie (specialmente veterocomuniste o veteronazionaliste e populiste) per assumere un ruolo di stretta rappresentanza delle istanze popolari, come fece ad esempio il movimento del 26 luglio, (scegliendo i leaders solo per competenza strategica, militare, economica, politica e culturale) e dandosi degli obiettivi graduali unitari e concreti, come il controllo dei centri di potere, degli armamenti, delle banche e delle risorse energetiche ed alimentari. Tutti devono essere utilizzati, una volta conquistati, per promuovere un serio miglioramento delle condizioni popolari, ma non realizzando un regime di economia collettivistica, bensì, in primis, spezzando i grandi monopoli che impediscono la crescita di ogni iniziativa imprenditoriale, con o senza il controllo dello Stato, e soprattutto ostacolano una giusta distribuzione della ricchezza.
  3. Un serio processo rivoluzionario è destinato a fallire sotto la repressione, se si attua soltanto in un Paese e non trova immediata saldatura in altri limitrofi in cui le medesime condizioni di povertà e di sfruttamento, oltre che di annullamento delle libertà democratiche, sono palesemente in atto. Senza un coordinamento internazionalista ed un reciproco sostegno tra più movimenti rivoluzionari, nelle varie aree del Mediterraneo, europee e del mondo, ciascuno di essi è miseramente destinato a fallire sotto i colpi della repressione di regimi che, in virtù della paura e del mantenimento dei privilegi, si faranno sempre più autoritari e feroci.
Chi parla dunque di rivoluzione, oggi, ed è ancora preda del tribalismo politico, specialmente nella sinistra, ed è più interessato a contrastare movimenti analoghi al suo con intenti “ereticali”, piuttosto che a creare una concreta base di coordinamento e di lotta nella massa dei lavoratori, e del popolo, addestrandolo ad organizzarsi e a combattere, chi si limita ad una funzione propagandistica e “alternativa” sul piano mediatico e non lavora in maniera capillare nelle strutture territoriali in cui il disagio sociale e la voglia di riscatto è più forte, chi crede che l'intento rivoluzionario sia una sorta di “bandiera” da tenere alta, solo con un nobile quanto asfittico intento di testimonianza, è completamente fuori strada.
Un popolo e dei leaders che non mettono in conto, prima di accingersi ad una vera lotta rivoluzionaria, il fatto di “essere già morti” e dunque di poter sacrificare la loro vita senza alcuna esitazione, sono già sconfitti in partenza.
Una rivoluzione non è una festa di gala, ma una tragica e necessaria incombenza quando maturano precise condizioni, la storia ci dà innumerevoli esempi in tal senso.
Come drammatica necessità, una rivoluzione che porta inevitabilmente con sé il suo carico di lutti e di sofferenze, non andrebbe celebrata come un fine permanentemente escatologico, come una sorta di processo palingenetico, tale da introdurre ad una nuova “era”, ma andrebbe seriamente considerata come una “extrema ratio” come una situazione più da “prevenire” che da “programmare e attuale permanentemente” in ogni parte del mondo.
L'unica “rivoluzione permanente” possibile infatti dovrebbe essere quella delle coscienze e della crescita dei diritti, e della scoperta di nuovi e sempre migliori orizzonti di convivenza e di sinergia con gli ambienti naturali in cui gli esseri umani sono destinati a vivere, e le cui risorse sono seriamente minacciate da un contesto umano fin troppo inconsapevole dei guasti che ha prodotto con i sistemi politici ed economici attuati nel passato.
L'arma migliore e la più rivoluzionaria che ha dunque l'essere umano resta sempre quel lògos che gli consente di superare la propria inconsapevolezza e la sua incapacità relazionale.
Quando però viene seriamente minacciata la sopravvivenza proprio di ciò che è indispensabile per favorire la nascita e la maturazione di questo lògos, di tale coscienza: la scuola, la sanità, il lavoro, ad esempio, allora l'essere umano ha il diritto ed il dovere di ricorrere anche alla forza di altre armi e di farsi aiutare ad averle e ad usarle da chi può fornirgliele.
Le rivoluzioni armate bisogna imparare a prevenirle non con sofisticati sistemi di spionaggio e di repressione,ma con sistemi sociali, economici e politici adeguatamente avanzati e rispondenti alle necessità popolari. Infatti, la storia dimostra che anche quei regimi che consideravano di avere i migliori sistemi di controllo e di repressione, o che credevano di avere isolato e immiserito un processo rivoluzionario, sono stati poi facilmente aggirati, colpiti, abbattuti e infine rovesciati.
Diceva Lev Trotsky: “Gli uomini non fanno la rivoluzione più volentieri di quanto facciano la guerra.” Infatti, mediamente, essi producono e vendono molte più armi per fini bellici piuttosto che costruirle e regalarle per fini rivoluzionari, e non di rado le rivoluzioni trovano un tragico sbocco in guerre disastrose e distruttive.
Di conseguenza, spesso il trionfo di una rivoluzione è anche purtroppo il "trionfo della morte" e quindi se è vero, come affermava Guevara, che “in una rivoluzione si trionfa o si muore” è altrettanto certo che “in una rivoluzione si trionfa e si muore” anche nello stesso tempo.
Morire non è mai bello, ma quando sei condannato ad una vita di stenti e di precarietà, quando non hai più soldi per pagare né una casa e tanto meno la tassa che ti consente di abitarci, quando gli ospedali ti respingono o ti curano per terra, quando la tua aula trabocca di scolari fino al punto che non si riesce più ad ascoltare l'insegnante, quando il tetto della scuola ti cade in testa, quando la tua casa per oltraggio della natura ti crolla addosso e sei condannato ad una vita da accampamento, quando la legalità non è altro che l'arbitrio di chi ha più soldi da sbatterti in faccia, quando la tua vita è minacciata, prima ancora di nascere, dalla denutrizione di chi ti porta in grembo, quando il futuro pesa su di te come una condanna..allora anche morire o farsi torturare per una rivoluzione assume la sembianza dell'ultimo paradiso perduto e dell'età dell'oro, oppure l'unica via per la Resurrezione di un popolo
In Grecia alcuni dicono che finalmente una condizione rivoluzionaria è sorta..io dico purtroppo, perché prima di una Resurrezione c'è sempre una Croce ed un Calvario da affrontare con fede incrollabile.
C.F.

Stampa e pdf

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...