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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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domenica 25 marzo 2012

Il Governo della decrescita (infelice) e l'esigenza di una sinistra unita



di Riccardo Achilli



Un Governo privo di qualsiasi idea di crescita e sviluppo

Parliamoci chiaro: nessuno dei provvedimenti che l'attuale Governo Monti ha preso nei quattro mesi della sua esistenza è mirato a promuovere crescita e sviluppo. La riforma del mercato del lavoro è costruita esclusivamente attorno a due obiettivi. Il primo è quello di favorire il calo della spesa previdenziale, quindi contribuire al raggiungimento del pareggio di bilancio reso costituzionalmente obbligatorio, un risultato, questo, che nemmeno Berlusconi e Tremonti avevano potuto conseguire, perché il Pd, che era contro tale vincolo quando al Governo c'era Berlusconi, adesso che spera di racimolare qualche spicciolo di potere con il sostegno al Governo-Monti, è diventato all'improvviso favorevole. Tornando alla spesa previdenziale, l'Aspi costerà 2 miliardi all'anno, mentre la parallela abrogazione della cassa integrazione straordinaria per crisi aziendale, dell'indennità di mobilità e di quella di disoccupazione comporterà un risparmio di 4,5 miliardi circa, con un beneficio netto per le casse dell'INPS di 2,5 miliardi all'anno: fonte: INPS). Inoltre, l'introduzione dell'imposta di 1,4 punti calcolata sulle retribuzioni dei precari potrebbe valere, secondo le prime stime, un gettito aggiuntivo pari a 700-750 milioni di euro (che peraltro, in assenza di una previsione di reddito minimo garantito, pagheranno i lavoratori, perché le imprese, per pagare l'imposta aggiuntiva, ridurranno di conseguenza le retribuzioni). In complesso, quindi, fra minori spese e maggiori entrate, il bilancio pubblico avrà un beneficio di circa 3-3,3 miliardi di euro all'anno.
Il secondo obiettivo è quello di favorire le ristrutturazioni delle imprese, cioè in parole povere, l'espulsione di personale, tramite la più facile flessibilità in uscita. Ciò peraltro dimostra con chiarezza che le previsioni sono quelle di una lunghissima fase di recessione, ben oltre il solo 2012 ed anche il 2013 (anni in cui, secondo le stime del FMI, il PIL italiano scenderà complessivamente di 2,8 punti, un dato praticamente “greco”). D'altra parte, la firma del fiscal compact, effettuata proprio da Monti, provocherà l'esigenza di fare manovre finanziarie di 43-45 miliardi nei primi anni, che si stabilizzeranno attorno ai 35 miliardi negli anni successivi, per circa un ventennio. Una simile sottrazione di risorse all'economia non potrà che mantenerla in perenne recessione o stagnazione, negli anni in cui il ciclo macroeconomico mondiale sarà in crescita. Le imprese avranno quindi bisogno di strumenti in grado di consentire espulsioni di massa di manodopera, pagando un costo basso, per riallineare la loro capacità produttiva ad una domanda di mercato in picchiata libera.
Non venga quindi Monti a presentare la riforma del mercato del lavoro come uno strumento di attrazione di investimenti diretti esteri, con un tour, sostanzialmente turistico (ed a spese del contribuente) nelle principali piazze finanziarie asiatiche proprio immediatamente dopo l'emanazione del disegno di legge di riforma. Tale tour, spacciato per tournée d'affari per attrarre investimenti, non avrà alcun esito concreto. Ma perché mai l'impresa thailandese, o la multinazionale che opera in Thailandia, che paga i suoi operai 100 euro al mese, e gode già della più assoluta flessibilità di utilizzo dei fattori produttivi nel Paese di attuale localizzazione, dovrebbe sostenere un investimento per spostarsi in Italia? Lo potrebbe fare solo per sfruttare il mercato di consumo interno (che però le politiche finanziarie di Monti hanno definitivamente distrutto) o per sfruttare particolari bacini di competenze professionali o scientifico-tecnologiche (però il Governo-Monti non ha fatto assolutamente niente per contrastare il declino strutturale del sistema formativo ed educativo, e del sistema scientifico-tecnologico italiano, che si trascinano da decenni). Quindi perché mai gli Ide, dalle economie emergenti dell'Asia, o da qualsiasi altro posto del mondo, dovrebbero affluire in un Paese il cui mercato interno è in picchiata libera, in cui i costi amministrativi ed infrastrutturali sono ai livelli massimi mondiali, in cui la pressione fiscale sulle imprese sfiora il 50%, solo perché è stata imposta una maggiore flessibilità sul mercato del lavoro, quando, spostandosi di poche centinaia di chilometri, magari in Serbia, trovano la stessa flessibilità del lavoro, ad un costo inferiore, e non subiscono le penalizzazioni fiscali, amministrative, infrastrutturali, di cui sopra? Se vi fosse la reale volontà di preservare una base produttiva, sarebbe molto più facile imporre restrizioni alle imprese italiane che delocalizzano.
Del resto, nessuno, nessuno ma proprio nessuno dei provvedimenti messi in atto da tale Governo è improntato ad una idea di sviluppo. Nemmeno il decreto-liberalizzazioni, spacciato per il cardine dello sviluppo futuro del Paese, è fatto per generare sviluppo ed occupazione. Al massimo, come già scrissi in un articolo precedente, può servire per aumentare la concentrazione oligopolistica nei settori di servizi liberalizzati, nella maggior parte dei casi (si veda ad esempio il settore commerciale) aumentando la presenza delle grandi concentrazioni imprenditoriali straniere, e quindi aumentando il tasso di sfruttamento neocoloniale dell'economia italiana (ma d'altra parte Monti è un uomo dell'Europa in mano alla Germania ed in parte alla Francia e alla Gran Bretagna, ed un uomo del capitale finanziario globale, non certo un rappresentante degli interessi nazionali, si veda la vergognosa umiliazione subita con il caso-Lamolinara. Proprio ieri, il Governo italiano ha digerito, senza colpo ferire e senza reagire, l'ultima umiliazione inflitta dal Ministro degli Esteri britannico Hague, venuto a Roma per dire che lo sconsiderato e delirante blitz militare inglese che ha causato il decesso dell'ingegnere italiano era “la cosa giusta da fare”).
Nel frattempo, la concentrazione oligopolistica in numerosi settori dei servizi indotta dal decreto-liberalizzazioni distruggerà lobbies che storicamente si sono sempre opposte, tramite i loro rappresentanti politici, ad un serio sforzo di recupero dell'evasione ed elusione fiscale, facilitando quindi un recupero di evasione che non andrà certo a beneficio del Paese, ma dei conti pubblici e quindi dei creditori del debito sovrano italiano.
A tal proposito, c'è ancora qualcuno che crede alla favoletta, puntualmente riproposta, della destinazione delle somme recuperate dall'evasione verso un abbassamento delle imposte sui redditi dei tartassati cittadini? Il recentissimo disegno di legge delega sulla riforma fiscale presentato dal Governo mantiene infatti inalterate le tre aliquote sull'Irpef introdotte da Tremonti, caratterizzate da forti effetti regressivi rispetto al sistema precedente, con un numero maggiore di aliquote e scaglioni, e peggiora gli effetti regressivi di tale imposta tagliando praticamente quasi tutte le deduzioni e detrazioni fiscali oggi esistenti, a partire da quelle concesse ai collaboratori a progetto, o alle famiglie per spese di istruzione o di trasporto. Senza contare l'aumento dell'aliquota Iva, che andrà a colpire anche i beni di prima necessità, e si scaricherà sui cittadini, o sulle piccole e micro imprese ed attività autonome, poiché le grandi imprese potranno sterilizzare l'effetto dell'incremento dell'Iva sui loro acquisti di materie prime e servizi alla produzione, mentre per le PMI, con minore potere di mercato, ciò sarà impossibile. In cambio di un nuovo salasso fiscale per i cittadini e per la piccola borghesia produttiva, gli sconti fiscali ricavati dalla lotta all'evasione andranno soltanto alla grande borghesia imprenditoriale e finanziaria, tramite la riduzione dell'Ires.
Naturalmente, la distruzione della piccola borghesia produttiva indotta dal decreto-liberalizzazioni e dalla riforma fiscale produrranno un nuovo immane impoverimento di un gran numero di famiglie, che vivono del reddito prodotto dalla loro micro-attività imprenditoriale nel commercio, nell'artigianato e nei servizi, in compagnia di un proletariato riportato ai livelli di tenore di vita dei primi anni Cinquanta. Altro che sviluppo!
In sostanza, l'accelerazione della crisi capitalistica ci sta imponendo una redistribuzione mondiale del lavoro e del benessere, in cui i tradizionali Paesi benestanti dell'Europa occidentale, in particolare quelli mediterranei (ma a ritmi meno drammatici, ciò riguarderà inevitabilmente anche l'Europa centro settentrionale) saranno costretti, giocoforza, ad una “decrescita infelice”, cioè ad une riduzione del benessere accompagnata da un modello capitalista-liberista radicale, che porterà quindi ad una crescita delle diseguaglianze distributive ed alla permanenza di impatti negativi sull'ambiente, ed anzi ad una loro accentuazione (perché i Paesi emergenti che usciranno “vincitori” da tale redistribuzione mondiale della crescita dovranno approfittarne, spingendo su processi di industrializzazione a ritmi forzati, con tutte le devastazioni ambientali che ciò provocherà).

L'unione delle forze fra marxismo, socialismo di sinistra ed ecosocialismo come unica alternativa

Di fronte ad un Governo completamente disinteressato allo sviluppo ed alla crescita, che ha come unico obiettivo risanare il bilancio pubblico per generare le risorse utili a ripagare i creditori finanziari, interni ed internazionali, il cui folle inseguimento di un profitto finanziario fittizio ha generato l'attuale recessione economica globale, e garantire il galleggiamento al sistema produttivo italiano (ma niente di più che questo; distruggendo il mercato interno per consumi, contraendo gli investimenti pubblici e privati, non si può certo pensare di indurre sviluppo imprenditoriale) la sinistra può assumere due atteggiamenti, e peraltro non è un problema della sola sinistra italiana, ma riguarda l'intera sinistra occidentale. Il primo atteggiamento è quello di aspettare che la crisi finale arrivi (perché non abbiamo ancora visto niente; il rallentamento macroeconomico cinese, largamente prevedibile già nei mesi scorsi, dovuto all'esigenza di raffreddare una crescita che sta creando bolle finanziarie, immobiliari, ma anche politiche, potenzialmente pericolosissime, e la ripresa lenta e fragile degli Usa, minacciata dai notevoli squilibri nel bilancio federale e nella bilancia dei pagamenti, nonché lo stop della crescita tedesca, che non può più esportare sui disastrati mercati mediterranei, sono fattori che nei prossimi mesi renderanno ancora più grave e strutturale la crisi; naturalmente, nei Paesi PIIGS come l'Italia, tale aggravamento, in presenza di borghesie nazionali sostanzialmente compradore ed asservite agli interessi del capitalismo finanziario globale, con Governi guidati da agenti dei mercati finanziari come Monti, Papademos, Kenny, Coelho o Rajoy, sarà molto più rapido).
Tale strategia conta sull'ulteriore, e del tutto certo, peggioramento dello scenario economico e sociale, per promuovere una situazione rivoluzionaria, in base ai noti fattori rivoluzionari oggettivi studiati da Lenin, uno dei quali consiste in un impoverimento estremo delle masse, che le rende disponibili al tutto per tutto, pur di conquistare il potere, e ribaltare tale situazione. Tuttavia, chi abbraccia tale strategia dovrebbe sempre ricordare che altra fondamentale condizione oggettiva, per Lenin, è che “la classe dominante si sia indebolita a tal punto, per effetto della lotta di classe e delle sue prolungate risse interne, da non essere più in grado di governare come prima, ma non perché non le sia possibile sostituire un governo con un altro, bensì perché la crisi dello Stato borghese è giunta a un punto tale che l'apparato repressivo della borghesia entra in decomposizione” (Piattaforma Comunista, Teoria e Prassi nr. 7). Tale situazione non soltanto non corrisponde a quella attuale, ma è anche molto difficile che si verifichi nel prossimo futuro. Quand'anche la capacità di mobilitazione e di lotta di classe in Italia raggiungesse i livelli (molto lontani) manifestati dalla Grecia in questi mesi, è chiaro che l'apparato repressivo sarebbe ancora sufficientemente forte da soffocare tale rivolta e la classe dominante sufficientemente coesa (ed infatti, la piazza, in Grecia, non ha ottenuto assolutamente niente, nonostante mesi di mobilitazioni anche violente). Infine, ci vorrebbe, sempre seguendo Lenin, l'elemento soggettivo, ovvero la presenza di un partito comunista di avanguardie sufficientemente forte, articolato e radicato nel proletariato. Il che richiederebbe, quantomeno, un'azione di lungo periodo di totale azzeramento e ricostruzione dell'attuale galassia dei partiti comunisti italiani, ognuno attaccato alla sua specificità teorica e di leadership, ognuno dei quali incapace di unità d'azione, figuriamoci di compattamento in un unico partito di avanguardie (parziale eccezione il Pcl di Ferrando, che da anni chiede, generosamente, un processo di unità nella sinistra comunista e radicale, ma il fatto stesso che tali appelli rimangano sistematicamente inascoltati dagli altri interlocutori è molto significativo della profonda crisi del comunismo nel nostro Paese).
Ora, è chiaro che la prosecuzione dell'attuale fase non potrà che indebolire l'apparato di consenso, controllo e repressione anche della borghesia, per cui nel lungo periodo è più che probabile che le condizioni rivoluzionarie oggettive finiscano per maturare, così come è possibile che l'attuale travaglio del comunismo europeo si risolva per il meglio, con la riformazione di movimenti comunisti forti, compatti, internazionalisti e autenticamente anticapitalisti (il che esclude ovviamente i partiti a matrice stalinista). Tuttavia, rimarrebbero aperti due problemi, che il comunismo non potrà non affrontare:
- come ricostruire un radicamento di massa in un proletariato che non ha più le caratteristiche di omogeneità dei tempi in cui Marx scriveva, o in cui Lenin e Trotsky organizzavano rivoluzioni. Processi di cambiamento strutturale del capitalismo verificatisi negli ultimi cinquant'anni, e che non c'è spazio qui per analizzare a fondo, come la terziarizzazione delle economie, la riorganizzazione su schemi post fordisti dei processi produttivi, l'atomizzazione crescente di questi, sia tramite l'outsourcing (che ha spezzato la tradizionale unità di fabbrica) che tramite il toyotismo ed i sistemi di qualità totale (che hanno spezzato la tradizionale unità di processo produttivo all'interno della stessa fabbrica) hanno profondamente segmentato il proletariato al suo interno, facendo emergere ciò che i sociologi borghesi chiamano “ceto medio”, la cui figura-tipo è un proletario che, non svolgendo più mansioni di tipo manuale ed operaio, ed essendo spesso remunerato con una quota di salario legata alla sua produttività/abilità individuale (ovviamente in concorrenza con i colleghi) e avendo risorse per fare investimenti (immobiliari, nella casa, o addirittura finanziari) è spontaneamente condotto ad adottare sovrastrutture culturali e comportamentali più vicine a quelle del piccolo borghese, che a quelle dell'operaio. Il linguaggio e il programma marxista (soprattutto il programma di transizione), necessari per catturare tale tipo di proletario della classe media, dovranno quindi essere modificati ed adattati, in qualche misura, per collegarsi alle tematiche di suo specifico interesse (essenzialmente, la tutela e la stabilità del suo tenore di vita, ma strizzando anche l'occhio a questioni di qualità della vita e di sicurezza cui tale tipologia di proletario è molto sensibile). Occorre cioè fare in modo che, nelle attuali condizioni di produzione, non più basate esclusivamente o principalmente dalla grande fabbrica integrata, il lavoratore del “ceto medio” diventi effettivamente quel lavoratore cooperativo collettivo associato alleato con gli operai, e non più soltanto delle potenze mentali della produzione, di cui parla Marx. D'altro canto, la crescita (che si amplierà nei prossimi anni) del precariato spezza la stabilità e permanenza, lungo tutto il ciclo di vita attiva del lavoratore, del tradizionale rapporto fra classe e posizionamento nel ciclo di produzione, che è la base del marxismo. Occorrerà quindi necessariamente ristudiare alcuni fondamentali elementi del programma di transizione: per esempio, interrogarsi su cosa significhi “riduzione dell'orario di lavoro” per un precario che non ha orario, che può essere chiamato a lavorare anche di notte o nei giorni festivi; occorrerà comprendere quali siano le parole d'ordine unificanti che mettano insieme il precario e il suo collega a tempo indeterminato (anche se le tendenze in atto nei prossimi anni semplificheranno tale questione, nel senso che tutti i lavoratori saranno precarizzati);
- come costruire un coordinamento internazionale del proletariato. Tutti i tentativi fatti sinora, con le varie Internazionali, sono falliti, e la globalizzazione dell'economia capitalista, insieme al superamento della sua fase socialdemocratica e nazionale, a favore di una fase iper-liberista e competitiva, rendono ancor più difficile e complesso il successo di una Internazionale oggi. Infatti, la globalizzazione neoliberista esasperata non può che portare ad un incremento delle tendenze alla concorrenza fra proletariati nazionali, e quindi alla segmentazione. All'operaio italiano viene insegnato che il Nemico non è il padrone, ma il suo collega operaio cinese. E per difendersi dal suo compagno cinese, l'operaio italiano viene indotto ad accettare modalità cooperative con il padronato, sotto lo slogan per cui, di fronte alla pressione competitiva dei sistemi produttivi di altri Paesi, ed in particolare delle economie emergenti, “siamo tutti sulla stessa barca”. L'estremizzazione di tale filosofia si ritrova nei sistemi di compartecipazione, sia nella versione statunitense, in cui i lavoratori partecipano agli utili dell'azienda, e quindi vengono spinti a competere, anziché fraternizzare, con i lavoratori delle altre imprese, sia nella versione tedesca, in cui le burocrazie sindacali, presenti nei consigli di sorveglianza aziendali, si fanno garanti della pace sociale e della collaborazione dei lavoratori con il padronato.
Nell'insieme, il problema che oggi deve affrontare il marxismo, sia a livello teorico che a livello di azione pratica, è quello di ricostruire una posizione di sintesi all'interno di una classe proletaria sempre più frammentata e divisa, sia al suo interno che a livello internazionale. A ben vedere, è proprio a causa di tale frammentazione (indotta dalla trasformazioni organizzative, produttive e settoriali del capitalismo) che il marxismo è entrato in difficoltà negli ultimi vent'anni. Il compito di ricomporre tale puzzle è troppo difficile da affrontare per partiti comunisti isolati e divisi anche fra loro, oltretutto soggetti ad un danno indiretto di immagine, dato dal fallimento dello stalinismo nell'Europa orientale appalesatosi con la caduta del muro di Berlino, e che è stato utilizzato molto abilmente dal sistema mediatico del capitalismo per inscenare, agli occhi del proletariato, la commedia del fallimento del comunismo tutto (quando in realtà ha fallito soltanto lo stalinismo).
Tale compito, e veniamo quindi alla seconda opzione strategica, è quello di non stare ad attendere il precipitare degli eventi nel capitalismo, che peraltro potrebbe anche essere molto lungo, e cercare di ricomporre il quadro di classe frammentato facendo leva sull'alleanza strategica con altri partiti di sinistra radicale e non riformista, di tradizione non comunista, al fine di formare blocchi unitari di sinistra antiriformista, oltre che anticapitalista, in cui ampi strati del proletariato, anche quelli in qualche misura “imborghesisti” dalle trasformazioni del capitalismo, possano riconoscersi.
Gli unici partiti comunisti che sopravvivono con un ruolo politico significativo, in Europa occidentale, e la cui influenza è in crescita, sono quelli che hanno accettato di partecipare ad esperimenti di unificazione con forze politiche di sinistra radicale, ma non di matrice marxista. I comunisti (stalinisti) della ex SED tedesco orientale sono oggi nel Parlamento federale tedesco, con una influenza crescente anche sulla difesa dei diritti sociali, mediante la loro partecipazione, nella Linke, con socialdemocratici ed ecologisti di sinistra. Il partito comunista spagnolo (che per inciso nel 2009 ha dichiarato la sua adesione ai principi del Socialismo del XXI Secolo esplicitati da Dieterich e di cui il Venezuela chavista rappresenta un banco di prova) cresce insieme alla crescita di peso politico di Izquierda Unida, cui partecipa insieme a partiti e movimenti ecosocialisti, ecologisti e carlisti. Il caso francese è il più chiaro: il PCF, in caduta libera, non solo di suffragi ma anche di adesioni ed influenza, inverte tale tendenza quando, alle europee del 2009, si presenta insieme ai socialisti di sinistra fuoriusciti dal PS e altre formazioni socialiste di sinistra nel Front de Gauche, con un risultato positivo, confermato da una ulteriore crescita alle amministrative del 2010; l'NPA (nato dal partito trotzkista LCR) che ha rinunciato ad allearsi con il FG, non riesce a sfondare, anche se rimane su percentuali di consenso relativamente decenti, ma non determinanti, ovvero attorno al 3-4%.

Conclusione

In conclusione, allo stato dei fatti, non sembra esserci strada vincente alternativa ad una, sia pur difficile e per certi versi dolorosa, unità di tradizioni di sinistra anche diverse, e storicamente in conflitto fra loro (il PCI nacque proprio da una scissione susseguente al maturare di tale conflitto; la storia successiva del PCI e del PSI è fatta di momentanee fasi di unità, segnate da profonde diffidenze reciproche e grandi divergenze programmatiche, e vere e proprie fasi di conflitto radicale). D'altro canto, va ribadito che all'interno della tattica politica trotzkista, da sempre, il dialogo con le altre forze di sinistra è considerato importante, arrivando anche a veri e propri fenomeni di entrismo. Oggi è la stessa frammentazione interna al proletariato a richiedere un'alleanza fra marxismo, ecosocialismo e socialismo di sinistra. Un simile blocco serve per ricomporre le fratture interne al proletariato stesso, condizione indispensabile per ricostruire una coscienza di classe. E' un tema sul quale anche partiti trotzkisti particolarmente intelligenti e disposti a percorsi del genere, come il Pcl, potrebbero essere sensibili. E sul quale anche il socialismo di sinistra, la sinistra democratica e il mondo ecologista potrebbero convergere senza drammi particolari. Le condizioni attuali che il governo-Monti ci impone, di “decrescita infelice”, impongono anche una prospettiva nuova, e più coraggiosa, sullo stesso concetto di crescita: oggi la borghesia, che storicamente è stata il propulsore della crescita capitalista, ha perso tale capacità propulsiva, e per sopravvivere promuove una decrescita produttiva controbilanciata dall'espansione di un profitto fittizio meramente finanziario e da un incremento delle diseguaglianze distributive. Sta alla sinistra saper ricostituire tale processo di crescita, in un paradigma diverso da quello capitalistico, in cui quindi libertà e protagonismo dal basso, uguaglianza distributiva, rispetto dell'ambiente e benessere siano adeguatamente bilanciati fra loro, dando concretezza alla visione, ancora necessariamente generalistica, di Dietrich.

sabato 24 marzo 2012

Neofeudalesimo



di Gioacchino De Candia

Alla caduta dell’Impero romano d’occidente (intorno al 476 d.C.) seguì un periodo che gli storici hanno chiamato Medioevo, che durò quasi un millennio, fino all’avvento di un altro periodo, che gli stessi storici hanno identificato col nome di Umanesimo e Rinascimento.

Il Medioevo è stato caratterizzato dal feudalesimo (o età feduale) nel quale, in assenza di un potere centrale abbastanza forte da governare le varie forze centrifughe territoriali, il Re (o l’Imperatore, a seconda dei casi) per meglio reggere determinati territori li dava in gestione a questo o quel dignitario, che di volta in volta godeva della sua fiducia.

Questi territori, appunto chiamati feudi, venivano governati, inizialmente e secondo la loro importanza, da un Vassallo (direttamente investito dal Re) da un Valvassore o da un Valvassino (per i territori più piccoli).

Tra i primi monarchi a suddividere il proprio territorio tra i vassalli più fedeli e meritevoli, fu Carlo Magno, che all’indomani della conquista di buona parte dell’Italia centro-settentrionale e dopo aver cinto anche la corona ferrea, decise appunto per tale suddivisione, dato l’enorme territorio che aveva conquistato con le sue campagne.

Compito dei vari vassalli era quello di far rispettare le leggi del Re, di governare di conseguenza il territorio e di riscuotere i relativi tributi. In più, questa società era fortemente rigida, basata su di una ferrea strutturazione in classi, ordinata per sangue e nascita.

Successivamente, questi feudi ed i loro rispettivi occupanti e dignitari presero nomi diversi, tra cui Marca (da cui Marchese) Ducato (da cui Duca) Baronia (da cui Barone) e Contea (da cui Conte) nomi e titoli nobiliari che, quantomeno in Italia, sono rimasti inalterati nel loro contenuto e nel loro potere, fino alla fine della II Guerra Mondiale quando, con l’avvento della Repubblica, tali titoli sono divenuti puramente simbolici e decorativi.

Finora…

Nell’ultimo decennio il continuo verificarsi di crisi finanziarie, che hanno finito per minare l’economia fin nelle sue fondamenta, stanno portando a galla antichi e mai del tutto sopiti movimenti aristocratici.

Se un tempo il potere di questo o quel dignitario, a cui veniva concesso un feudo, derivava direttamente dal Sovrano, oggi queste investiture avvengono all’interno delle lobbies finanziarie, che suddividono tra loro il territorio in base a logiche monetarie e, in generale, finanziarie.

I nuovi Duchi, Conti e Baroni si chiamano Amministratori delegati, Presidenti e Direttori generali, che hanno quasi lo stesso potere di vita e di morte sui loro sottoposti che avevano gli antichi dignitari sui territori che amministravano.

In effetti, le società ed i relativi Governi stanno evolvendo in una struttura politico-amministrativa, che ricorda molto da vicino l’antico feudalesimo, con le attuali accezioni relative alla globalizzazione e, quindi, alla maggiore e più pervicace capacità di governo del sistema, che risulta sempre di più diviso in rigide classi e sempre di più basato sul sangue e sulla nascita.

Nel Medioevo, una popolazione che si vedeva vessata dal feudatario di turno poteva ricorrere all’arma della rivolta per liberarsi dall’opprimente vassallo, tant’è che spesso un feudo, dopo la periodica e perentoria ribellione, rimaneva senza un “signore” per diverso tempo, proprio per cercare di sedare gli animi locali.

Oggi, questa capacità di ribellione è sopita innanzitutto da una società decisamente più opulenta del passato, oltre che da una serie di valvole di sfogo massmediatiche, che ne riducono le possibilità di rivolta.

Quando, in quei rari casi, le rivolte esplodono, i coordinamenti tra i vari governi del sistema sono prontissimi ad inviare la forza (anche letale) necessaria a “pacificare” la situazione, o quantomeno a circoscriverla per evitare ulteriori e più pericolosi “contagi”.

Difficile dire, ad oggi, come evolverà la situazione, anche se è certo che “indietro non si torna!”.

giovedì 22 marzo 2012

La palude e lo tsunami


La rabbia è tanta in questo momento, ma mai come ora è necessario ragionare con freddezza, e senza nemmeno stare tanto a ricamare sopra le ragioni di una sconfitta epocale.
Il mondo del lavoro è tuttora globalmente diviso da quello padronale, perdere di vista questa elementare nozione di coscienza di classe, vuol dire votarsi al suicidio (e senza una qualche forma di condivisione della proprietà dei mezzi di produzione, tale divisione non solo permarrà ma si accentuerà, come già oggi sta accadendo ovunque nel mondo della globalizzazione a senso unico neoliberista) .
Gli interessi delle classi dirigenti del mondo padronale sono oggi vincenti per un semplice motivo che consiste nel fatto che, mentre esse sono organizzate e coordinate in maniera globale, il mondo del lavoro permane tuttora diviso e polverizzato in miriadi di movimenti che, su scala globale, risultano ancora del tutto inefficaci, non hanno cioè una organizzazione validamente combattiva e strutturata in ambito transnazionale. Non hanno ancora una V Internazionale.
Questo ovviamente facilita il compito a chi vuole applicare l'antica norma del “divide et impera” e tale scopo è reso ancor più semplice dalla metamorfosi di quel mondo sindacale che dovrebbe invece tutelare i diritti dei lavoratori ormai, non solo su scala nazionale, ma ancor di più a livello globale, e che oggi, a poco a poco, si sta integrando nella scala gerarchica di un nuovo medioevo feudale. Quello con il quale delle rigide gerarchie di comando e di controllo che non hanno nulla da invidiare al mondo in cui il potere era stratificato da norme ritenute eterne e fondate su un ordinamento creduto divino, attualmente, mutatis mutandis, gestiscono esseri umani, risorse economiche, patrimoni finanziari e i beni naturali, persino quelli indispensabili alla vita come l'acqua, per puri fini di profitto.
E' anche quello odierno un rigido e gerarchico ordinamento ritenuto divino, basato cioè sul credo nell'accumulazione di capitale: l'ultimo dio-mammona sopravvissuto su questo pianeta, dopo l'esodo e l' eclissi dei precedenti.
I sindacati italiani fanno ormai parte di questa ferrea gerarchia neofeudale, integrati come sono nelle strutture di mantenimento ed incremento dei poteri vigenti.
La loro assimilazione è stata progressiva ma inesorabile ed è avanzata con velocità esponenziale negli ultimi 15-20 anni.
Fino a qualche tempo fa a resistere in Italia era la CGIL, ma negli ultimi tempi anche dentro il più grande sindacato italiano si sono fatti sempre più evidenti segnali di cedimento e di corruzione interna: piccoli poteri, cordate, lotte intestine, artifici che non poco hanno indebolito la tenuta e la credibilità di un sindacato che a lungo a saputo resistere allo sbiadimento cromatico verso il giallo.
Possiamo dire che il suo “rosso” brilli ancora?
Non tanto..sicuramente non più di una volta e palesemente con improvvise intermittenze.
La battaglia sull'art. 18 la CGIL l'ha persa, e questa sconfitta però ha una forte valenza simbolica più che pratica, dato che il numero di lavoratori che utilizza tale norma si è affievolito progressivamente negli ultimi tempi. Un principio che però in futuro corre il rischio, con l'innalzamento dell'età pensionistica, di diventare nuovamente attualissimo, dato il pericolo sempre maggiore di rottamazione-oggettiva per lavoratori ultracinquantenni.
La foto della Camusso con la Marcegaglia e i due scherani del sindacalismo che ormai canta “bandiera gialla” in tutte le occasioni in cui si tratta di “cinesizzare” i lavoratori italiani, era già un triste preludio al contingente, ma la resa e l'isolamento di una FIOM già di per sé infiacchita da un gruppo dirigente alquanto strabico e indaffarato a fare da bordone ad una SEL infervorata nel volersi accreditare a tutti costi come alleato privilegiato del PD, e per altro scalciando in malo modo verso quella sinistra di ex compagni sprezzantemente definiti “troppo radicali”, ebbene questi infiacchimenti hanno resto estremamente fragile se non del tutto inconsistente l'argine che si poteva innalzare verso la spocchia professorale con cui si è ritenuto di volere esigere una chiusura immediata di tale vertenza.
Il mancato sciopero generale in occasione di quello della FIOM e una mancata manifestazione oceanica di resistenza preventiva, hanno immediatamente fatto scattare le misure che sono state prese, propiziando l'isolamento della CGIL nel suo complesso e la fretta con cui il gotha governativo ha sancito il suo diktat: “il caso è chiuso”.
Non pochi sono i sospetti che dentro la CGIL ci sia ormai un tarlo “collateralista”, o forse sarebbe meglio definirla “termite”, il cui scopo è lo spianamento di questo sindacato e l'ingiallimento della sua bandiera. Anche in passato è accaduto, in nome di governi definiti “amici” e forsetempo fa ci sono effettivamente stati governi “amici” della CGIL.
Ma oggi no, la CGIL non ha più governi “amici”, che se ne renda conto oppure no, non ha più sponde politiche di alcun genere ed il mondo politico dominante, anche senza legittimazione elettorale e democratica, ha il preciso scopo di smantellarla vanificandone del tutto il ruolo e dimostrando ai lavoratori che è meglio contare sulla compassione (più efficacemente sul prostituirsi) sempre più scarsa del “padrone” piuttosto che sulla lotta per mantenere, incrementare e condividere i diritti fondamentali, primi tra tutti quello al lavoro e alla formazione.
Quando un sindacato non è più il principale antagonista di uno Stato corrotto, inefficace, ingiusto e antidemocratico, quando tende ad identificarsi con esso per il mantenimento delle posizioni di privilegio e di potere, allora torna alla mente quella frase significativa del CHE che va tuttora letta in un'ottica concretamente rivoluzionaria: “Di una cosa sono sicuro, ed è che il sindacato è un freno che va distrutto, ma non con il sistema di esaurirlo:bisogna distruggerlo come si dovrebbe distruggere lo Stato in un momento.
Credo che questa “fatica”, perdurando tale stato di cose, ci sarà risparmiata, tanta è la capacità che oggi il sindacato mostra con tutta evidenza di saper distruggere se stesso.
Difficile però capire cosa possa subentrare al suo posto, dato che l'arcipelago di movimenti che oggi, pur rappresentando validamente la società civile come se non meglio del sindacato e pur ottenendo significativi risultati a cui esso stesso non poche volte rinuncia in partenza, come le battaglie referendarie, la lotta per la difesa del territorio, o il dialogo e non il ricatto sulle grandi opere, il contrasto sul terreno all'invadenza del crimine organizzato, la tutela dei consumatori, un consumo più equo e solidale, la vicinanza ai ceti più deboli e marginalizzati anche con forme varie di volontariato ecc., ebbene, tale universo in movimento, stenta molto a trovare una efficace capacità di coordinarsi a livello nazionale e transnazionale, pur mantenendo una straordinaria vitalità.
Esso è però ormai palesemente più del sindacato una forma organizzativa e di lotta assai efficace per mobilitare e contrastare certe politiche rovinosamente liberticide e tese allo sfruttamento brutale.
Per un vero salto di qualità occorre però che vi sia un orizzonte politico che ne sia lo specchio trasparente. Una forza plurale ma fortemente unitaria negli intenti e nel raccordo con la società civile, alla sinistra di un PD ormai allo sbando e di fatto completamente spaccato.
Un PD che ha rinunciato a vincere delle elezioni che aveva praticamente in tasca, proprio per scongiurare il rischio di una scissione e che, invece, oggi è già profondamente diviso per il sostegno dato ad un governo tecnocratico che mai, come era accaduto prima nella storia della nostra Repubblica, ha ridotto drasticamente i diritti ed innalzato vertiginosamente gli oneri solo per le solite categorie di cittadini, con il piglio e l'arroganza di un regime, forse anche peggiore di quello fascista. Perché il regime fascista un progetto di Stato sociale, anche se dittatoriale, sessita e poi razzista, lo aveva, mentre lo scopo del regime attuale è solo quello di demolire ogni traccia di Stato sociale, e pur restando sostanzialmente indifferente ad ogni forma di opposizione e di dissenso.
Il progetto di questo regime è quello di far sprofondare un intero Paese in una palude recessiva, per svendere il suo patrimonio vitale di beni e di ingegni al migliore offerente.
Lo scopo di questo regime è la morte della Patria.
Lo sciopero che oggi viene proclamato dalla CGIL è dunque il suo “canto del cigno", o almeno lo è quello di un segretario come la Camusso, una sorta di “Al lupo! Al lupo!” quando tutte le pecore sono state già massacrate.
Difficile assai che riesca, molto più facile che apra invece una ulteriore crepa nella credibilità della CGIL fino a farla diventare una voragine. La voragine della maggior retrocessione nei diritti pensionistici e del mondo del lavoro in tutta la nostra storia repubblicana.
A noi non resta che lottare e resistere, ripartendo dalle iniziative che ci fanno stare in mezzo alla gente più che nei convegni associativi o in quelli di partito, nei mercati, nelle piazze, nelle scuole, nelle fabbriche, nei luoghi più sperduti della sofferenza umana, e della lotta senza quartiere e senza resa, non solo nel nostro ma anche in altri paesi già falcidiati dalle rovinose politiche neoliberiste, per essere onda crescente di un movimento che un giorno contiamo possa diventare vero tsunami.
C.F

I REPLICANTI DI MARCHIONNE di Norberto Fragiacomo

                

              I REPLICANTI DI MARCHIONNE
                   di Norberto Fragiacomo



Ce l’hanno fatta.
Anzi, l’hanno fatto: con un colpo di spugna pomeridiano hanno cancellato cinquant’anni di diritto del lavoro in Italia. Hanno riseppellito Brodolini e Gino Giugni, la relatrice di una trascurabile tesi di laurea (1996) e milioni di protagonisti in tuta blu di quel remoto autunno del ’69.
Al momento, tutto è perduto – compreso l’onore del PD.
Articolo 18 e reintegro non esistono più. Oh, certo: nel caso in cui il datore sia tanto astuto da scrivere, nella lettera di licenziamento, “ti mando via perché sei comunista” o perché “sei iscritto alla Fiom”, il lavoratore avrà diritto ad essere reintegrato… ma episodi simili si verificano più facilmente nelle fiction che nella realtà quotidiana. Paradossalmente, la norma sui licenziamenti c.d. discriminatori sa di rivincita padronale: è abbastanza noto che fu proprio una serie di espulsioni arbitrarie - decretate dalla Fiat negli anni ’50 e motivate, senza necessità, con l’iscrizione dei lavoratori a CGIL e/o PCI - a scatenare la battaglia per l’introduzione di efficaci protezioni giuslavoristiche. Oltre al danno, insomma, la beffa… duplice, perché l’estensione della tutela fantasma al personale delle imprese con meno di 15 dipendenti è un capolavoro di tartufismo.
Quanto ai licenziamenti disciplinari, la bozza governativa dà al giudice la facoltà di disporre il reintegro “nei casi gravi” – in quelli… lievi, l’ex dipendente sarà liquidato con un indennizzo. Pieni poteri al giudice del lavoro, vista l’assoluta indeterminatezza della previsione? In teoria sì, in pratica no: anche il recesso per motivi disciplinari (art. 7 dello Statuto dei Lavoratori), al pari di quello discriminatorio, è soltanto un ologramma, uno specchietto per le allodole.
D’ora in avanti, l’unica forma di licenziamento cui le imprese faranno ricorso sarà quella legata a “motivi economici”. Cosa significa motivi economici? Tutto e niente: in effetti, la vaghezza della formula è il segreto del suo successo presso il padronato. Un impercettibile incremento dei costi, un calo stagionale del fatturato, una (finta) riorganizzazione interna, i riflessi sulla domanda dell’aumento dell’IVA, la scelta di esternalizzare un’attività per ridurre le spese o di delocalizzarla parzialmente, finanche (perché no?) la volontà di accrescere i margini di profitto varranno a giustificare il recesso datoriale – ed il merito della decisione non sarà sindacabile da alcuno.
Si scrive “per motivi economici”, ma si pronuncia ad nutum: con la modifica abrogatrice, l’imprenditore sarà libero di fare ciò che desidera. Come negli anni ’50, appunto. Leggendo sui giornali i primi commenti alla bozza, non si comprende neppure se residui un potere di controllo meramente estrinseco in capo alla magistratura del lavoro oppure no. La questione non è irrilevante: nell’ipotesi affermativa, l’uso di una “formuletta pigra” (ad es.: i ricavi sono calati dello 0,5% nell’ultimo trimestre) basterebbe a sottrarre il datore a qualsiasi obbligo indennitario; altrimenti, il lavoratore cacciato avrebbe diritto, in linea di massima, ad un indennizzo non inferiore alle 15 mensilità di retribuzione. Meglio poco che niente, ma davvero di poco si tratta: in base alla disciplina ancora vigente (quella che “giubba blu” Fornero amava definire un totem, evidentemente da abbattere), il lavoratore che rinunci volontariamente alla reintegrazione riceve una somma equivalente ad almeno 20 mensilità.
In sintesi, la proposta di accordo che, secondo il Presidente Napolitano, la CGIL avrebbe dovuto accettare (per il bene nostro e di tutta la Sua Santa Chiesa… pardon, del Paese e dei giovani, ma fa lo stesso) può essere sintetizzata così: il governo toglie ai lavoratori l’opzione reintegro; in cambio, questi ultimi potranno godere di un indennizzo ridotto, perdono la cassa integrazione – NB: in un periodo di crisi galoppante! – e dicono addio ai prepensionamenti.
E’ chiaro che il nuovo modello assomiglia a quello tedesco – caratterizzato dalla cogestione aziendale, oltre che da stipendi elevati – tanto quanto le Sturmtruppen di Bonvi richiamano l’originale: ne rappresenta la caricatura, che però i media di regime  (e non solo loro) spacciano per l’uovo di Colombo.
Peraltro, tocca dare atto al Governo Monti-Napolitano di un’estrema diligenza nello svolgimento dei compiti assegnatigli dai finanzieri internazionali: in soli quattro mesi è riuscito a stravolgere il sistema pensionistico e a sbianchettare mezzo secolo di conquiste del movimento operaio. Proprio lo smantellamento del welfare ed il rapido asservimento della classe lavoratrice costituiscono - insieme alla svendita delle aziende di Stato ai gruppi privati, che avrà luogo di qui a breve – il core business dell’esecutivo sedicente tecnico: il resto, dal gioco a guardie e ladri per le vie di Cortina al moscio braccio di ferro con i tassinari, è solo fumo negli occhi, colonna sonora.
Aspettarsi poi che Monti e compagnia risanino la RAI, risolvano il conflitto di interessi e sconfiggano la corruzione è roba da ingenui: non sono qui per questo, e l’unico che finge di non capirlo è Bersani.
Hanno adottato lo sperimentato metodo Marchionne, fatto di inganni (non ci era stato assicurato che la controriforma avrebbe riguardato soltanto i nuovi assunti? Contrordine: vale per tutti), ricatti (se non firmate, niente “paccata” di miliardi!, ha minacciato, con impeccabile stile, coccodrillo Fornero), soldi del Monopoli (quelli per gli ammortizzatori “universali”) e sacrifici imposti in cambio di un bel niente.
Il “rispetto” delle regole democratiche e delle altrui opinioni, poi, è il medesimo: “sul punto della flessibilità in uscita, articolo 18 (…) la questione è chiusa, la proposta legislativa non è sottoposta più ad esame (…) perché nessuno ha il potere di veto” ha sentenziato il premier, commentando il no della CGIL. Su questo punto, almeno, ha mostrato coerenza: sin dall’inizio lui e la Fornero avevano lasciato intendere che si sarebbero fatti un baffo delle obiezioni dei sindacati.
Quanto agli altri protagonisti della sceneggiata, ciascuno si è comportato come previsto: Cisl e Uil, compiuta qualche giravolta, hanno alzato bandiera gialla; il Partito Democratico, dopo il rituale sfogo del segretario, ha già fatto sapere che, come sempre, voterà ad occhi chiusi (e non si spaccherà, ci scommettiamo: anche la “sinistra interna” è un ologramma); il PDL, guidato dal falco Sacconi, ha tifato apertamente per la soluzione autoritaria. Per Silvio Berlusconi è una pacchia - presto potrà presentarsi ai suoi grandi elettori dicendo: “visto? Monti ha fatto il lavoro sporco in vece nostra! Adesso ritocca a noi.”
A proposito del Berlusca: come mai tutti i benpensanti che (a parer nostro, non senza fondamento) lo accusavano ad ogni piè sospinto di “fascismo” non trovano  oggi nulla da ridire sull’atteggiamento autoritario di Monti and friends?
La risposta ha nome e cognome: Giorgio Napolitano.
Il Presidente, ormai, interviene a gamba tesa anche a gioco fermo – e lo fa a senso unico. La dichiarazione del 19 marzo non ricorda un diktat (rivolto alla CGIL), lo è: bisogna “far prevalere l’interesse generale su qualsiasi interesse e calcolo particolare, lo richiedono le difficoltà del Paese, lo richiedono i problemi che sono dinanzi al mondo del lavoro e alle (immancabili ndr) giovani generazioni. Penso che sarebbe grave la mancanza di un accordo cui le parti sociali diano solidalmente il loro contributo. Grazie.
Grazie a Lei, signor Presidente. Non tanto per il consueto sfoggio di retorica, quanto per aver candidamente ammesso, davanti al Paese intero, che la Viva vox Constitutionis è divenuta, come ipotizzavamo da tempo, la voce dell’austerità e dei mercati.
Per fortuna, di un tanto si è accorta anche la CGIL che, snobbando l’invito presidenziale, non ha voluto sottoscrivere le clausole vessatorie. Prendiamo in parola Susanna Camusso quando promette: “è evidente che faremo tutto ciò che serve per contrastare questa riforma.”
In chiusura, due considerazioni: la prima è che la presa di posizione del sindacato certifica che lo sciopero del 9 marzo non è stato affatto inutile.
La seconda è che l’unica maniera per impedire al governo dei banchieri di annientare Stato sociale e classe lavoratrice consiste nel mandarlo a casa il più presto possibile.
In questo momento – il più tragico, per l’Italia, dalla fine della guerra mondiale – occorre la mobilitazione generale dei cittadini consapevoli, a diretto supporto di quelle organizzazioni (movimenti di sinistra, Fiom e sindacati di base, Comitato NO Debito ecc.) che ancora si battono per scongiurare un futuro greco.
Dopo la porcata di ieri sera, Atene è purtroppo abbastanza vicina.
 
 
 
 

mercoledì 21 marzo 2012

UNA TESTIMONIANZA DALLA GRECIA IN FIAMME


  

 UNA TESTIMONIANZA DALLA GRECIA IN FIAMME: INTERVISTA AL COMPAGNO PETROS PALMOS
(SINISTRA EXTRAPARLAMENTARE)
a cura di Norberto Fragiacomo


Palmos Petros non è certo un meteco a Trieste: qui ha vissuto per anni, gestendo una taverna (ovviamente greca) in via Ginnastica e facendosi apprezzare come insegnante di ballo. Inutile aggiungere che parla un italiano pressoché perfetto.
Abbiamo approfittato di una sua capatina in città per chiedergli un’intervista, in margine ad un incontro pubblico – perché Petros, tra le mille altre cose, è anche un leader della Sinistra extraparlamentare ellenica. Disponibile come sempre (ha anche partecipato alla prima “Piazza sociale”, sabato 17 in piazza Unità), ha accolto volentieri l’invito. Ascoltiamo quello che ha da dirci.

D: compagno Petros, anzitutto benvenuto, e grazie per la disponibilità! La prima domanda non può che essere: perché tutto comincia in Grecia?

R: questa domanda, ovviamente, ce la siamo posta anche noi, sin dall’inizio. Perché mai hanno scelto la Grecia , malgrado altri Paesi – Spagna, Portogallo, la stessa Italia – avessero problemi maggiori? E’ necessario fare una premessa: siamo entrati nel quinto anno della crisi americana, che il governo USA cerca di risolvere, da un lato, affidandosi ai prestiti della Cina (che ha in mano il debito statunitense, non dimentichiamolo), dall’altro conquistando militarmente nuovi mercati. Oggi l’euro è fortissimo, ed anche la principale economia d’Europa – l’imperialismo tedesco – è a caccia di mercati. Perché la Grecia , dunque? Nel mar Ionio e a Creta ci sono ingenti giacimenti petroliferi che attendono di essere sfruttati, senza contare la presenza di nuove fonti di energia (l’eolico ecc.). Secondo punto: la Grecia è un piccolo laboratorio. Se il piano passa, il lavoratore perde tutti i diritti, compreso quello di vendere collettivamente la sua forza lavoro: torniamo al medioevo, e anche peggio. La Grecia è solo il banco di prova – poi, il nuovo modello sarà esteso a tutto il Sud Europa, Italia compresa. Nel Memorandum 2 (approvato dal Parlamento greco a  febbraio) sta scritto che l’Europa va divisa in due archi: quello meridionale - formato da Romania, Bulgaria, Grecia, Italia, Spagna, Portogallo – deve diventare il “terzo mondo” d’Europa, un campo di battaglia tra imperialismi tedesco e americano.

D: non ha influito sulla scelta della Grecia la tradizionale combattività del Popolo ellenico? Intendo: se riescono a piegare gente tosta come voi, con noi italiani, con gli spagnoli ecc. sarà un gioco da ragazzi…

R: non credo… penso che di fronte ad un tentativo di genocidio – perché in Grecia sta avvenendo questo – tutti i popoli reagiscano. Hanno scelto la Grecia per via della situazione geopolitica, delle ricchezze che ci sono… toccherà anche a voi, comunque.

D: Di questo siamo purtroppo convinti. Ma come vivono i greci questa situazione? L’austerità è servita, serve almeno a risanare i conti?

R: i greci non vivono… e la crisi peggiora ogni giorno che passa. Con i vari memorandum (1, medio, 2… a giugno arriverà il 3), l’IVA è schizzata dal 19 al 23%, le bollette del gas e della luce sono aumentate del 15-20%, lo stipendio minimo è stato dimezzato (oggi è a 480 euro mensili, ma progettano di abbassarlo a 220!), i contratti collettivi sono stati cancellati; hanno anche introdotto nuove tasse, che chiamiamo “characi”, come ai tempi degli ottomani… la gente non sa neppure quanto dovrà pagare di tasse, ma quelle sulla casa sono arrivate a 800 euro all’anno per un’abitazione di 80 mq, e se non si paga – perché non si hanno i soldi – l’Acegas greca taglia luce e gas… e per quanto riguarda lo stipendio minimo, la soglia non viene rispettata dai padroni, perché il lavoratore – non più tutelato dal sindacato e dai contratti collettivi – è costretto ad accettare le condizioni dell’impresa, oppure non gli danno lavoro. La disoccupazione ufficiale (sottostimata) è oggi al 22%, ma dovrebbe arrivare al 28 entro l’anno, sempre che le cose non peggiorino. Recentemente il Ministro dell’Economia ha dichiarato che una famiglia in cui c’è un lavoratore attivo è fortunata… e considerate che i prezzi dei generi alimentari ecc. non sono più bassi di quelli italiani: il formaggio feta – greco – costa più da noi che da voi, e lo stesso vale per lo yoghurt! C’è un mare di gente che vive per strada, e per mangiare raccoglie la frutta caduta dai banchi del mercato (dicono che si tratta di immigrati, ma è falso!); il 30% delle persone ha consegnato le targhe delle auto. Questo è lo stato dei fatti.

D: com’è la situazione negli ospedali? Si dice che manchino le medicine…

R: manca tutto, sono stati fatti tagli dal 25 al 30% in sanità, non ci sono più nemmeno le garze, le infermiere devono andare a comprarle in farmacia… la gente muore.

D: un genocidio, senza carri armati e senza lager… al loro posto, finti tecnici, politici venduti e media in mano alla finanza. Ma torniamo alla questione di prima: l’economia, perlomeno, si sta pian piano riprendendo? Perché i sacrifici servono a questo, ci raccontano…

R: macché riprendendo! La temperatura dell’economia greca è siberiana: -7 di PIL. Dicono che potrebbe tornare a crescere a fine anno, ma è falso: non c’è nessuna prospettiva di sviluppo. La gente non ha soldi e non compra più. A Patrasso, Salonicco e Atene un negoziante su due ha chiuso. L’UE ha predisposto il Memorandum 3 per giugno: nuovi tagli, e svendita entro il 2014 di ciò che resta del patrimonio pubblico… anche l’organismo delle case popolari, che è in attivo e ha un patrimonio di 3 miliardi di euro. L’Europa e il FMI ci stanno rubando tutto. Dicono che così salveranno al Grecia… ma non ci saranno più greci, saranno morti di fame o emigrati.

D: gli aiuti allora non servono?

R: ma quali aiuti? Gli aiuti non esistono, è tutta propaganda: hanno stanziato 120 miliardi, 50 andranno alle banche, 80 ai creditori… ai greci niente, a parte un ulteriore debito di 10 miliardi (130-120). Quei soldi li hanno messi su un conto bloccato, il Governo non può nemmeno toccarli.

D: presto dovrebbero esserci le elezioni. Come giudichi i partiti greci, quali prospettive, quali programmi hanno?

R: cominciamo coi partiti che appoggiano la troika – Nuova Democrazia, Pasok e il Laos, un piccolo partito xenofobo e nazionalista di estrema destra. Il Pasok è più di destra di Nuova Democrazia, è crollato all’8%. Loro tre dicono sempre sì, sono traditori del Popolo Greco, che hanno ridotto in queste condizioni. Le elezioni non le vogliono, anche se il Laos fa finta di pretenderle: hanno paura della patata bollente. La Grecia ormai è in bancarotta, anche se un Paese non può fallire, in realtà… le aziende falliscono, non gli Stati. Comunque le elezioni dovevano tenersi in febbraio, le hanno rinviate a marzo, adesso dovrebbero tenersi in aprile, ma le rinvieranno ancora.

D: ci hai parlato dei tre partiti di destra… e la Sinistra ?

R: la Sinistra è divisa, come sempre. Abbiamo 20 o 23, non ricordo, formazioni di sinistra… pensate, abbiamo il Partito marxista-leninista e anche il Partito leninista-marxista! Unita, la Sinistra prenderebbe oggi il 35%, e potrebbe governare. Ma è difficile: c’è il KKE stalinista, partito arteriosclerotico, che si dice leader del movimento, ma ha paura di governare, e si tiene stretto il suo 10-12%. Crea divisioni: il suo sindacato, il Pame, fa manifestazioni separate, non lascia avvicinare gli altri… nel giugno 2011 hanno difeso il Parlamento dai manifestanti! Per sfuggire alle sue responsabilità, il KKE si sposta sempre più a sinistra: adesso dice “prendiamoci i mezzi di produzione”… ma come farlo, c’è già stata la Rivoluzione e non ce ne siamo accorti? Bisogna lottare contro i memorandum, ma loro niente…
Poi c’è Syriza-Synaspismos, che, secondo i sondaggi, prenderebbe l’8-10%. Tentano di unire il movimento, ma non hanno un programma governativo, né propongono soluzioni. Si preoccupano di un possibile ritorno alla dracma.
Infine c’è la Sinistra democratica, che avrebbe il 15% circa, e pure una posizione: restiamo nella UE, ma ridiscutiamo il debito; siamo socialdemocratici. In verità, vogliono solo prendere il posto del Pasok, la cui scomparsa – o quasi – ha lasciato un enorme vuoto politico. Manco loro hanno un programma di governo. Comunque, tutte queste forze devono unirsi… sarebbe la prima volta, dai tempi del nonno di Papandreou… se non lo fanno, tradiscono la Grecia !

D: e i sindacati? Sembrano piuttosto attivi, hanno dichiarato decine di scioperi negli ultimi tempi…

R: sia Adedy (dipendenti pubblici) che GSEE (lavoratori privati) sono sindacati riformisti, legati alla politica. Pressati dalla rabbia popolare, propongono scioperi di 24 ore, che non servono a… niente (il termine usato era più colorito ndr): ci vuole lo sciopero a oltranza, fino alla caduta del Governo e alla fuga della troika FMI-BCE-UE. In due anni prevedono di licenziare 185 mila dipendenti pubblici, e la Coca Cola , per via dell’aumento delle tasse, abbandona la Grecia e si trasferisce in Turchia. Non abbiamo più niente da perdere.

D: quindi, settore pubblico e privato scioperano insieme… governanti e media di regime non hanno provato, come da noi, a mettere le categoria l’una contro l’altra, per facilitare il passaggio delle controriforme?

R: si hanno, tentato, ma non ci siamo cascati: lavoratori pubblici e privati sono uniti, sanno che si vince insieme o si perde insieme. In Portogallo ce l’hanno fatta, invece: prima hanno rovinato i lavoratori pubblici, poi i privati. Anche lì la gente non ha più di che vivere.

D: Una bella lezione per noi italiani… Petros, tu hai parlato di movimento… che fa il popolo? si organizza, a parte soffrire e lottare?

R: sì, nei rioni di Atene, Patrasso – che è una città portuale, paragonabile per dimensioni a Trieste – sono sorte assemblee civiche rionali… all’inizio, poca gente, che via via aumenta, e prende iniziative. Citiamo un esempio che può far ridere: le patate. Al contadino vengono pagate 10 centesimi al chilo, ma nei supermarket ne costano 50… allora ci si è organizzati, noleggiando camion per saltare gli intermediari, e farle costare 25… è solo un esempio, ce ne sono tanti. In qualche centro, i cittadini si uniscono per non pagare le bollette, occupano le prefetture e via dicendo. Queste iniziative hanno successo, ma non basta. Il movimento, di cui la Sinistra extraparlamentare fa parte, ha elaborato un programma, che è un programma di governo per la Grecia.

D: ci vuoi esporre questo programma?

R: punto primo: riportare il salario minimo a 800 euro. Punto secondo: assicurare almeno 35 metri quadri di abitazione a famiglia. Punto terzo: no ai tagli, anche a quelli già avvenuti, a luce, gas, sanità e istruzione. Punto quarto: le aziende pubbliche in attivo, o che possono essere risanate, non si vendono. Punto quinto: non si paga il debito, ma solo gli interessi – e al tasso tedesco: 1%. Punto sesto: reintroduzione dei contratti collettivi.
Questo è il programma dei Greci: la Sinistra deve farlo suo, vincere le elezioni e metterlo in pratica. L’alternativa non esiste: dicono che con i sacrifici attuali il rapporto debito-PIL tornerà al 120% nel 2020… cioè ai livelli del 2006! E’ una follia senza scopo!

D: se la Sinistra facesse suo questo programma, che è assolutamente ragionevole, “riformista” diciamo, e andasse al potere… come reagirebbero la Germania e la troika?

R: direbbero “siete pazzi!”, non accetterebbero mai; si arriverebbe allo scontro, e ci caccerebbero dalla UE. Meglio così, meglio tornare alla dracma che morire di fame. La Grecia è autosufficiente dal punto di vista alimentare, l’industria è poca, ma abbiamo le fonti di energia e il petrolio, da vendere ad altri Paesi. In ogni caso, questa politica è l’unica che può assicurarci la salvezza – se andiamo avanti così, ai greci restano tre alternative: morire di fame, suicidarsi o scappare. Alla gente normale, intendo: perché i monopoli, in Grecia, stanno benissimo.

D: e nonostante queste politiche disumane, criminali, il debito aumenterà ancora… Ringraziamo il compagno Petros Palmos per la sua testimonianza, per le cose che ci ha insegnato, ed auguriamo a lui e al suo Paese un futuro migliore.
Un’ultima annotazione: la Grecia non è un’isola infelice, presto potrebbe toccare anche a noi e agli spagnoli lo stesso destino – in Portogallo, il massacro sociale è già in atto. Mentre ci ammazzano, diranno di farlo per il nostro bene – e comunque che siamo colpevoli. Non è vero: non siamo colpevoli di nulla, se non di non appartenere all’elite economica che gioca con le nostre esistenze.
Che si chiamino Lagarde, Monti o Papademos, che siano vecchi seguaci del liberismo predatorio o neoconvertiti (Pasok, PD ecc.), dobbiamo fermarli, costi quel che costi.


Trieste, 19 marzo 2012


Norberto Fragiacomo


martedì 20 marzo 2012

SULLA SOVRASTRUTTURA PSICOLOGICA DEL GOVERNO DEI TECNICI di Riccardo Achilli




SULLA SOVRASTRUTTURA PSICOLOGICA DEL GOVERNO DEI TECNICI
                                   di Riccardo Achilli

In un suo articolo su Facebook (“Comunicazione e governo tecnico: Mario Monti e il bisogno di padre degli italiani”), la dottoressa Collevecchio collega la popolarità di Monti, paradossale rispetto alle terribili politiche di distruzione che sta infliggendo al Paese, ad un bisogno inconscio di una figura paterna, tipico di una società matriarcale, come quella italiana, e più in generale tipico delle civiltà mediterranee.
L'articolo è interessante, e l'accostamento con la figura del padre inconscio è tutt'altro che peregrino. Ricordo che Jung collega l'immagine del padre al concetto di autorità, quindi di legge e di Stato, per cui l'avvento di Monti, dopo il folleggiare erotico di Berlusconi, rappresenterebbe, nell'inconscio collettivo degli italiani, il simbolo del ritorno all'ovile del figliol prodigo, cioè il ritorno consapevole, e voluto, sotto il dominio paterno (cioè sotto il dominio dello Stato e della Legge, il che si coniuga bene con la natura non proprio democratica di un Governo nominato, e non eletto direttamente, che peraltro mostra anche un notevole fastidio, tipico dell'autoritarismo,  verso il dialogo e la concertazione con la società).
Occorre naturalmente essere cauti nell'analizzare in chiave psicologica i cambiamenti dello scenario politico italiano attuale, che dipendono da dinamiche di interessi economici e di classe sottostanti, che poi determinano la costruzione mediatica di immagini e richiami simbolici attorno ai diversi leader politici che si avvicendano, per renderli, a seconda dell'interesse del momento, graditi all'opinione pubblica oppure sgraditi.
Detto questo, è chiaro che la sovrastruttura emotiva e simbolica che viene costruita, dalla comunicazione mediatica, attorno ai leader politici, è un'attività estremamente importante e sulla quale si investono risorse finanziarie e professionalità specializzate, anche con una formazione psicologica. Questo perché vivamo in una società dominata dal mito di Hermes, che è il dio della comunicazione e della transazione.
Quindi la transizione del potere da Berlusconi a Monti, proprio perché rispondente ad interessi economici molto forti, propri del capitalismo finanziarizzato attuale, è stata anch'essa accompagnata da una importante attività mediatica e comunicativa, volta a creare, nell'opinione pubblica, un impatto emotivo, inconscio o semiconscio, sfavorevole al leader uscente e favorevole a quello entrante. D'altra parte, le teorie di Chomsky circa il ruolo dei media nel creare "fabbriche del consenso" strumentali agli interessi economici delle corporations che li controllano sono ben note.
In questo senso, certamente anche la psicologia del profondo viene mobilitata per creare l'ambiente emotivo utile a sostenere cambiamenti ai vertici politici. A mio parere, però, la suggestione della figura del padre inconscio è valida solo in parte. Volendo utilizzare una simbologia junghiana, a mio avviso si potrebbe sostenere che Berlusconi si è rivestito dei simboli propri del dio Pan: una divinizzazione della virilità costruita attorno ad una sessualità disordinata e procace che richiama ad un legame stretto con gli impulsi primordiali della natura e dell'inconscio (chissà se anche il nome Silvio, che evoca la "silva", la foresta primordiale che fa da scenario alle avventure di Pan, non sia una sorta di fenomeno di sincronicità fra il Nostro ed il mito inconscio che incarna), l'amore per la musica ed il ballo (come non ricordare il buon Apicella, giullare musicale inseparabila da Berlusconi?), un carattere che oscilla fra una allegria sguaiata ed eccessiva ed un'ira rancorosa e sorda, in grado di esplodere in scenate che suscitano il "timor panico" in sodali ed avversari (tratti tipici della personalità di Berlusconi e di Pan) ma anche la propensione a dispensare promesse di fertilità e benessere a piene mani, che fa di Pan (e di Berlusconi) una divinità solare nella sua fase ascendente. La stessa traduzione dal greco del termine "Pan", che significa "Tutto", rappresenta bene anche la volontà di onnipotenza tipica di Berlusconi, che sfocia in una vera e propria ossessione per il potere ed in una incapacità di condividerlo (se io sono "Tutto", perché mai dovrei dividere quote di potere con altri?)
E' anche interessante notare che Pan è l'unica divinità del pantheon greco che muore, finendo per sprofondare negli abissi dell'incubo. Nel suo Saggio su Pan, James Hillman ci fa notare che la rappresentazione mitologica della morte di Pan simboleggia il passaggio da una civiltà pagana, fortemente legata alla natura, e quindi al soddisfacimento degli impulsi primari ed istintuali, tramite la sessualità, il ballo ed il canto, ecc., al moralismo repressivo del cristianesimo, che spiritualizza l'eros, trasformandolo in amore per Dio, e quindi "disincarnandolo" dalla sua base fisica e sensuale (che per Pan era tutto) ed anteponendo la ragione filosofica all'istinto, come base strumentale per acquisire la conoscenza del mondo. In ciò Sant'Agostino è molto chiaro. egli dice infatti che "ciascuno è ciò che ama. Ami la terra? Sarai terra. Ami Dio? Che cosa devo dire? Che tu sarai Dio? Io non oso dirlo per conto mio. Ascoltiamo piuttosto le Scritture: Io ho detto: "voi siete dèi, e figli tutti dell'Altissimo". Se, dunque, volete essere dèi e figli dell'Altissimo, non amate il mondo, né le cose che sono nel mondo" (In Epistolam Ioannis ad Parthos). Quindi nella morale cattolica l'eros (o l'amore, per usare i termini di Agostino) deve essere sviato dal mondo, ovvero dalle altre creature, per divenire amore spirituale per Dio, del tutto disincarnato dalle pulsioni primarie della natura, che albergano nell'inconscio. tutto ciò sigifica per l'appunto l'uccisione di Pan, che deve essere relegato nelle profondità sotterranee degli inferi, e lì dimenticato. Non è infatti un caso se l'iconografia paleocristiana ha trasformato Pan nell'immagine stessa di Satana. Lo stesso Robert Graves, il più grande studioso della mitologia greca, identifica nella morte di Pan il passaggio fra la società pagana e politeista e quella cattolica.
In questo senso, quindi, il passaggio di potere fra Berlusconi e Monti (la morte simbolica del Pan-Berlusconi, cioè la fine della sua fase ascendente e l'inizio di quella discendente e ctonia) evoca il passaggio da una civiltà pagana e legata alla natura ad una civiltà cattolica legata alla spiritualità ed alla ragione innalzata a Logos (e quindi ad elemento divino, facendo parte della Trinità) nell'inconscio collettivo di un popolo, come quello italiano, che ha vissuto tale passaggio con profonda partecipazione emotiva.
Tutto questo facilita ovviamente la popolarità di Monti, nonostante le durissime politiche sociali ed economiche cui sottomette il popolo stesso: egli infatti rappresenta, nell'inconscio collettivo, l'elemento di redenzione dalle oscure profondità dell'istinto e delle pulsioni primarie cui il precedente Pan-Berlusconi, con il suo stuolo di ninfe-escort, di satiri-sodali, ci ha avvinti. Egli rappresenta la necessaria e rigenerante catarsi dopo una fase in cui "abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi", come direbbe Monti, affascinati dalla fase ascendente e solare del Pan che ci prometteva un milione di posti di lavoro e prosperità economica infinita. non è quindi azzardato ipotizzare, ovviamente sotto un profilo strettamente psicologico ed archetipico, e non sotto un profilo religioso, che l'avvento di Monti sia vissuto, inconsciamente, come l'avvento del Cristo, più che come l'avvento del padre inconscio. Un Cristo disceso sulla Terra per redimerci dai nostri eccessi goderecci e dalle nostre esagerate libagioni, cui ci siamo abbandonati, protetti, e giustificati, dall'ombra fallica del Pan-Berlusconi.
Non è un caso, infatti, se tutta la comunicazione mediatica e politica a supporto di Monti, si avvale dello slogan "avete vissuto al di sopra dei vostri mezzi" (che serve per distogliere l'energia libidica  dal soddisfacimento degli istinti primari, e riorientarla verso comportamenti e stili di vita "ragionevoli". Ciò, tradotto in termini psicologici, non è nient'altro che l'invito ad un ritorno verso la funzione repressiva del Super Io nei confronti delle pulsioni istintive inconsce). Inoltre, l'apparato mediatico che circonda Monti si avvale dell'invito a "tornare ad una vita più morigerata". Tale invito è spesso reiterato da Napolitano, grande sponsor politico di Monti che, nella sua funzione quasi sacerdotale di "Garante della Costituzione", facilitata dalla sua immagine di Senex (di vecchio saggio) imprime a quelle che sono politiche economiche e sociali banalmente orientate a soddisfare bramosie di poteri economici forti, un'aura quasi religiosa, imbevendole (in modo ovviamente improprio e strumentale) delle implicazioni spirituali profonde legate agli esercizi di catarsi e ascesi utilizzati dalla dottrina cattolica come veicoli di rafforzamento della fede cristiana, tramite l'allontanamento dalle tentazioni "paniche" del mondo sensibile. La stessa natura "tecnica" del Governo Monti serve a tale scopo, poiché un "tecnico" evoca simbolicamente la primazia della ragione sul sentimento, della capacità di astrazione sull'attaccamento sensuale alle tentazioni del mondo terreno, cioè evoca esattamente lo snodo fondamentale di passaggio dalla civiltà pagana alla civiltà cattolica (come ben si ricorderà dalle tesi di Sant'Agostino sopra esposte).
 Tutto ciò, naturalmente, consegna alla sinistra radicale che si oppone al Governo Monti il ruolo di resuscitare il mito di Pan, di riportare Pan fra noi, riscattandolo dall'abisso di vergogna cui la civiltà cattolica lo ha costretto. E' una funzione che la cosiddetta "sinistra riformista", con la faccia di bravo chierichetto timorato di Dio di Veltroni, non può adempiere. resuscitare Pan significa semplicemente insegnare al proletariato la gioia di vivere, la gioia dei piaceri del mondo terreno e della libertà sessuale, abbandonando quella vergogna moralistica, lascito della cultura cattolica, che lo porta ad un amore quasi masochistico verso il "castigatore" Monti. Che non è affatto venuto fra noi per redimerci. Cristo era un rivoluzionario, Monti un padrone.

lunedì 19 marzo 2012

SUL MANIFESTO DI PARIGI di Riccardo Achilli




            SUL MANIFESTO DI PARIGI
                    di Riccardo Achilli



Il mio commento, che come si dice, impegna solamente la responsabilità personale di chi lo formula, non è privo di critiche. In linea generale, se l'idea di fondo è quella di avere più Europa, e più Europa sociale, credo che, al di là delle posizioni politiche individuali, si può essere d'accordo. E' la strada indicata da tale documento per avere un'Europa sociale che mi lascia perplesso. Vorrei fare un'analisi puntuale:

Preambolo: il Governo conservatore italiano si è dimesso nel novembre 2011. Ma a chi vogliono darla a bere i dalemiani della fondazione Italianieuropei? In realtà al suo posto c'è un Governo ancor più conservatore, che i dalemiani, in quanto componente dominante del PD, stanno sostenendo. Credo che ciò li dovrebbe privare di qualsiasi legittimità a spacciarsi per progressisti.
"Adesso spetta all'Unione europea fornire risposte appropriate". Il primo punto messo a fuoco dal documento, come tema più importante, è il risanamento del bilancio. Se questa è la priorità, allora cadono di fatto tutte le altre che il documento sostiene (equità sociale, crescita, creazione di occupazione). Questo perché l'obiettivo di ridurre l'indebitamento, quand'anche non fosse rigido come quello introdotto dalla riforma costituzionale del pareggio di bilancio, impone comunque la fissazione di soglie quantitative entro le quali riportare i livelli di deficit/Pil e di debito/Pil. Le esperienze di Maastricht e quella del Patto di stabilità dimostrano chiaramente che nel medio periodo nessuna soglia quantitativa è sostenibile, per il semplice motivo che il ciclo macroeconomico procede per vie proprie, infischiandosene delle soglie predeterminate dai Governi.
A meno che non si conducano politiche di totale sterilizzazione del bilancio pubblico, che sono esattamente le politiche condotte dai liberisti come Monti.

Per essere ancora più chiari: è impensabile proporre, in una fase di recessione economica, il risanamento delle finanze pubbliche come priorità. Perché non si fa altro che aggravare la recessione, e con questa peggiorare i saldi di finanza pubblica (poiché, come tutti sanno, questi sono endogeni al ciclo economico generale). Sarebbe molto meglio un altro ragionamento, che provo a sintetizzarvi: per perseguire una crescita economica ed occupazionale sostenuta e regolare, che è precondizione indispensabile per generare le risorse necessarie a ridurre deficit e debito, l'utilizzo del bilancio pubblico sarà fatto con regole elastiche, che prevedano un suo utilizzo anticiclico nelle fasi di rallentamento della crescita e di recessione, e con una maggiore austerità nelle fasi di crescita, che vanno sfruttate per ridurre i livelli di indebitamento rispetto al Pil, prevedendo politiche finanziarie tese a ridurre il deficit/Pil soltanto negli anni in cui la crescita annua superi l'1%, e progressivamente sempre più austere quanto più la crescita è elevata. Va infatti ricordata una verità economica fondamentale: il rapporto "critico" non è quello fra deficit e Pil, ma quello fra debito e Pil.
E' infatti questo secondo rapporto che genera la crescita degli interessi passivi, che sottraggono risorse economiche per investimenti in competitività o sviluppo. Da questo punto di vista, il debito cresce solo se il rapporto fra deficit e Pil tende a peggiorare progressivamente, per un periodo temporale lungo. Altrimenti, se tale rapporto oscilla fra miglioramenti e peggioramenti, il debito/Pil rimane più o meno stabile nel tempo. E' invece condivisibile l'idea di mutualizzare il debito pubblico dei singoli Stati membri tramite gli eurobonds. Peccato però che l'opinione pubblica tedesca, prima di accettare una simile proposta, sarebbe disposta ad eleggere un nuovo Adolf Hitler alla cancelleria.

Maggior ruolo della BEI proposto dal documento: credo che vi sia più di un problema, per la sinistra, a richiamare tale organizzazione. La BEI è infatti una banca che, pur operando senza scopo di lucro (e quindi con un tasso di interesse molto basso, che copre le sole spese di istruttoria)presta risorse finanziarie per grandi progetti di investimento infrastrutturale, di creazione di impresa o di sviluppo regionale. Lo fa con le risorse proprie, conferite dagli Stati membri, ma anche e soprattutto drenando risorse dai mercati finanziari, operando quindi come un qualsiasi player finanziario. Potenziare l'operatività della BEI, come proposto dal manifesto di Parigi, significa quindi aumentare il livello di indebitamento complessivo dell'Europa nel suo insieme nei confronti dei mercati finanziari, e quindi aumentare la dipendenza politica delle istituzioni europee (e di quelle nazionali degli Stati membri) dal grande capitale finanziario. SE VOGLIAMO UN'EUROPA DEI POPOLI E DELLA SOLIDARIETA' DOBBIAMO RIDURRE LA DIPENDENZA DELLA POLITICA DAGLI INTERESSI DEL CAPITALISMO FINANZIARIO, NON ACCRESCERLA.
Ciò significa che occorre utilizzare in modo più intelligente le risorse pubbliche esistenti per grandi progetti di investimento pubblico trans-nazionali, anche con una più efficace azione di recupero dell'evasione fiscale condotta su scala europea, e non delle singole nazioni, nonché con la lotta ad ogni forma di spreco e di inefficienza nella spesa pubblica (iniziando da una riduzione dei compensi e degli appannaggi economici della classe politica, dei manager e dirigenti pubblici, e più in generale dei costi della politica, che dovrebbe tornare ad essere un'attività di servizio alla collettività, non un lucrosissimo business) , non chiedere tali risorse in prestito dai mercati finanziari.

Rilancio delle politiche industriali: non basta scimmiottare Obama sulla green economy per dare una impronta di sinistra e progressista alle politiche industriali. Sulla green economy sta infatti convergendo anche il pensiero industrialista della destra. Credo che occorrerebbe puntare anche ad un secondo capitolo: il rilancio del ruolo delle partecipazioni pubbliche nell'economia per creare campioni, non più nazionali ma europei.

Siamo sinceri: solo l'industria nazionalizzata può svolgere un ruolo anche sociale, p. es. localizzando stabilimenti in zone depresse dove non vi sono convenienze localizzative per l'industria privata, perché nel caso dell'industria pubblica le perdite di redditività conseguenti a tale scelta, di tipo sociale e non produttivo, possono essere collettivizzate. Solo l'industria pubblica può sostenere investimenti strategici in innovazioni scientifiche e tecnologiche di rottura, che hanno ritorni economici in tempi molto lunghi, perché l'industria privata, che è ossessionata dalla logica del ritorno economico sugli investimenti immediato (perché se gli azionisti non vengono retribuiti, alla prima assemblea cambiano il management) non ha convenienze a farli. Se guardiamo alla storia italiana, le imprese innovative sono sempre state imprese pubbliche (Finmeccanica, ENI, le imprese militari ed aerospaziali del gruppo EFIM, Alfa Romeo) o imprese private che però godevano di enormi sussidi pubblici agli investimenti innovativi (Fiat, Olivetti) tali da rendere tali investimenti di fatto "pubblici" e non "privati".
Lo stesso in Francia: l'innovazione tecnologica nasce dalla politica dei "champions nationaux" pubblici (Alsthom, EDF, Aérospatiale-Dassault, Renault). Similmente, il sistema bancario può operare finanziando progetti strategici, di cambiamento di paradigma produttivo (come ad esempio la green economy) solo se è pubblico, poiché tali progetti hanno una redditività molto differita nel tempo, che la proprietà privatistica delle banche non sarebbe mai disposta a sostenere.

Occorre quindi ritornare al tempo delle nazionalizzazioni, mirate a creare campioni, non più di scala nazionale (perché di fronte ai colossi statunitensi, giapponesi, ed ora anche cinesi, i campioni nazionali non hanno le economie di scala e le risorse finanziarie per competere), ma di scala europea, che siano cioè di dimensione ed operatività transnazionale, e partecipati da una pluralità di Governi europei, con una legislazione industriale, contabile, del lavoro ecc. che sia europea.
La tassa sulle transazioni finanziarie e la lotta ai paradisi fiscali su scala europea sono sciocchezze demagogiche. A parte il fatto che le due principali piazze finanziarie europee, ovvero la Svizzera e la Gran Bretagna, non accetteranno mai di implementare tali misure, perché significherebbero la morte delle loro economie nazionali, la Tobin tax e la lotta ai paradisi fiscali devono essere condotte su scala mondiale, per essere efficaci, altrimenti non fanno altro che provocare uno spostamento dei flussi di investimento finanziario dall'Europa ad altre piazze meno regolamentate extra europee. Se i cosiddetti "progressisti" credono di supplire con una proposta demagogica come una Tobin tax soltanto europea all'assenza di un progetto sociale, allora l'unica differenza che li separa dai conservatori è che perlomeno questi ultimi sono più sinceri e meno demagogici.

Governance europea: anche in questo caso, come per i casi precedenti, la proposta è debolissima. La proposta vera dovrebbe essere quella di creare un'unione politica europea, su basi democratiche e confederali, cioè con un Parlamento europeo, e Parlamenti nazionali per le politiche strettamente nazionali, realmente plenipotenziari, ed un Commissione Europea designata dal Parlamento Europeo ed in ogni momento revocabile, come un normale Governo, nonché forme estese di democrazia diretta e dal basso, tramite referendum europei e proposte di legge popolari europee. Ed invece la proposta qual’è? soltanto quella di estendere la regola della codecisione! Ovvero la possibilità per il Parlamento europeo di emendare o rigettare un testo di legge presentato dalla Commissione ed adottato dal Consiglio. Tale procedura è pessima, sia perché l'iniziativa legislativa rimane in capo alla Commissione ed al Consiglio, e non al Parlamento, cioè all'unico organo eletto direttamente dai cittadini, sia perché è tremendamente farraginosa e pesante: se il Parlamento propone anche un minimo emendamento, si attiva una procedura di consultazione fra Parlamento e Consiglio lunghissima, che può arrivare fino ad una terza lettura dell'atto, ed a una procedura di conciliazione fra i due organi, prima che l'atto diventi legge. Un procedimento talmente bizantino da scoraggiare, nella maggior parte dei casi, il Parlamento dal fare qualsiasi emendamento ad un testo elaborato dalla Commissione (cioè da una struttura burocratica non elettiva) anche se in teoria una maggioranza di parlamentari vorrebbe fare emendamenti. Se questa è la proposta di governance, beh...non funziona, perché non è sulla base della codecisione che si costruisce un'Europa politica e democratica. Occorrerebbe poi capire in cosa consisterebbe l'ampliamento della sfera di operatività della codecisione proposto dal manifesto di Parigi, atteso che, dal trattato di Lisbona in poi, questa procedura non è più eccezionale, ma è diventata la procedura ordinaria.

C'è però un punto, che secondo me è il più grave di tutti: manca completamente il progetto sociale. Non si dedica una riga che una alle politiche sociali, socio assistenziali, sanitarie, ecc. Questa carenza è gravissima per chi si richiama ai valori della sinistra e del socialismo. Se sei di sinistra, ti vuoi fottere a dirmi cosa intendi fare per ridisegnare il welfare europeo di fronte a grandi fenomeni di fondo, che cambieranno il profilo delle popolazioni europee nei prossimi vent'anni (calo della natalità e invecchiamento rapido della popolazione, con tutte le conseguenze che ciò comporta sugli assetti dei sistemi sanitari e socio assistenziali pubblici, esplosione dei fenomeni migratori, con tutte le conseguenze sulle politiche per l'integrazione, le politiche socio educative, le stesse politiche abitative, l'emergere di nuove povertà nei ceti medi, l'emergere di nuove forme di esclusione sociale determinato da nuovi analfabetismi - l'analfabetismo informatico, l'analfabetismo riguardo alle lingue straniere, ecc.)

In sintesi: questa proposta mi sembra molto debole e priva di coraggio, nella sostanza non molto diversa dalla proposta che fanno i partiti di centro destra, se non, spesso, per mere dichiarazioni di principio prive di indicazioni politiche concrete (la priorità sulla crescita e sull'occupazione è una priorità anche per la destra, solo che la destra la promuove con politiche di destra, come le privatizzazioni, la deregulation, la riduzione della pressione fiscale sui redditi alti. Il problema quindi non è quello di fissare una priorità politica generale, il problema è indicare quali politiche saranno concretamente messe in atto, perché c'è una strada liberista e di destra ed una strada di sinistra per occuparsi della crescita). spesso tale documento, per mascherare le sue carenze progettuali sostanziali, sfocia in veri e propri progetti demagogico irrealizzabili, come la Tobin Tax europea. Si salvano solo poche cose, come la richiesta di mutualizzare i debiti pubblici nazionali, l'accento sulla green economy (che però è una bandiera anche della destra democratica; ricordo che è stata la Merkel a mettere la pietra tombale sul programma nucleare tedesco, ed a rilanciare gli investimenti nel settore delle rinnovabili). Le proposte di governance politica europea sono molto al di sotto dell'idea di realizzare un'Europa politica, e l'assenza di un progetto sociale, che sia parallelo a quello economico, è assolutamente indicativa della natura non di sinistra, e sostanzialmente liberale, di tale manifesto.


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