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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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martedì 19 giugno 2012

STAVOLTA HA VINTO SERSE di Norberto Fragiacomo

Stavolta ha vinto Serse
                             di Norberto Fragiacomo


A Syriza e ai tantissimi greci che le hanno dato fiducia (circa il 27% dell’elettorato) non possiamo rimproverare nulla, anzi: dobbiamo complimentarci con loro, lodarne il coraggio e ringraziarli. Su un punto, poi, non nutriamo dubbi: Alexis Tsipras non si farà attirare nella trappola della c.d. “unità nazionale” ad uso e consumo delle banche estere.
La Sinistra vera, dunque, esiste ancora, e ottiene un risultato che, in circostanze ordinarie, definiremmo storico.
Però non vince: a vincere è la destraccia corrotta di Nuova Democrazia (facile commentare: ai greci conveniva tenersi quella vecchia, di 25 secoli fa…), trascinata al traguardo dalle tivù, dai giornali araldi dei “mercati”, dall’ottusa, micragnosa cancelliera tetesca e da quegli stessi banchieri che, fino ad un annetto fa, giuravano e spergiuravano di essersi lasciati gabbare (figuriamoci!) proprio dagli amici di Samaras, capaci di truccargli i bilanci sotto il naso. Più facile credere ad una zucca che diventa carrozza…
Insomma, stavolta hanno trionfato gli invasori stranieri, terrificanti e spietati al punto da capovolgere la piramide di Maslow, minacciando a gente già privata di tutto l’annichilimento totale.
Il tiranno Mercato, col suo esercito di servi in doppiopetto, ha piegato gli ultimi democratici: Serse ha stravinto, e dubitiamo che ci sarà spazio per una revanche. La Grecia , comunque, è capta: se Samaras non farà diligentemente i “compiti per casa”, il trio Merkel-Draghi-Barroso ha già pronto l’usato sicuro, Papademos.
Paradossalmente, molti che si sognano di sinistra hanno tirato un sospiro di sollievo, in Italia e in Europa.
Poveri “compagni” immaginari: non avrete alcun premio dai padroni del mondo per il vostro “realismo” cavallino, cioè per esservi bevuti la loro propaganda (v. l’uscita della Grecia dall’euro, che Tsipras non voleva) fino alla feccia. Anzi, i signoroni rideranno a crepapelle quando vi vedranno annaspare, sorpresi, sgomenti e senza braccioli, in acque inaspettatamente gelate.
Dal diluvio si salveranno i potenti assieme ai loro vassalli, non i “realisti” in buona fede.
Morale di un esito elettorale deludente ma, viste le forze in campo, pressoché inevitabile: non li batteremo mai col voto, perché la partita è truccata, la “democrazia” in salsa liberale una leggenda.
Tocca giocarsi il tutto per tutto allora, pur consapevoli che le possibilità di successo sono desolatamente basse, assai più che cent’anni fa.
D’altro canto, meglio sfidare i rischi di una paurosa scalata – malgrado l’attrezzatura scadente e il senso di vertigine - che aspettare tremanti, a fondovalle, il rombo della frana che ci seppellirà.
La lezione greca va mandata a memoria senza indugi: chi non ha tempo, capacità e voglia è opportuno che si accomodi all’uscita.
Non ci mancherà.


19 giugno 2012




lunedì 18 giugno 2012

Syriza: le ragioni per un (moderato) ottimismo



di Riccardo Achilli


La Grecia ha votato. Si è affidata ad un Governo filo-merkeliano che, fra Nd e Pasok, avrà 163 seggi, quindi la maggioranza assoluta. Il risultato elettorale ottenuto da Syriza lascia però più spazi per un moderato ottimismo che per un senso di sconfitta, anche se naturalmente chi è ostile all’unità della sinistra radicale (e per ciò stesso ostile alle ragioni del lavoro e degli oppressi) ne trarrà motivi per criticare, o addirittura per gioirne, in nome di un purismo ideologico dello zero virgola qualcosa.
I motivi di ottimismo non sono soltanto nel risultato elettorale in sé, che è straordinario, poiché Syriza arriva al 26%, ed è oggi, in Europa, il più importante partito che si richiama al socialismo radicale ed all’antiliberismo reale (che va cioè oltre un riformismo di maniera, inadatto ad affrontare le sfide sociali che il degrado del capitalismo, e la sua ennesima metamorfosi guidata da istinti animali di tipo liberista, pone).
I motivi di ottimismo risiedono nel fatto che il progresso di Syriza (che nel giro di un mese guadagna quasi dieci punti percentuali, fra una tornata elettorale e l’altra, e ciò in assenza di effetti matematici attribuibili ad una contrazione della platea di elettori, visto che il dato sull’astensionismo, in questa seconda tornata elettorale, è addirittura lievemente più basso rispetto alla prima) evidenzia una radicalizzazione dell’opinione pubblica greca, nell’unico modo in cui, a mio avviso, nella presente congiuntura il proletariato di un Paese con una tradizione di alto livello di benessere (alto livello che esisteva prima del 2010, ovviamente) può radicalizzarsi.
E’ evidente che la vittoria di Samaras, un esponente di Nd, responsabile, come il Pasok, della tragedia greca, mette a nudo i limiti del meccanismo elettorale borghese, influenzato dalla possibilità, da parte delle forze conservatrici, di manipolare l’opinione pubblica tramite la superiore leva finanziaria che può essere investita in comunicazione politico-elettorale. Tutta questa campagna elettorale è stata pesantemente influenzata da una comunicazione mediatica ostile a Syriza (ancora ieri pomeriggio Repubblica, che invece di organizzare passerelle mediatiche dovrebbe vergognarsi, proponeva lo scontro elettorale greco come un referendum pro e contro l’euro, omettendo di dire che lo stesso Tsipras ha sempre detto di voler rimanere dentro l’euro). Commentatori politici pagati dalla Siemens o da qualche altra multinazionale che fa affari sulla pelle della Grecia hanno addirittura detto che in realtà Tsipras non voleva governare, ma restare all’opposizione. La stessa Merkel, con un atto gravissimo, che meriterebbe la rottura delle relazioni diplomatiche, ma che però nessuno ha criticato, ha osato intervenire nel processo elettorale di un Paese sovrano, invitando gli elettori greci a votare Nd o Pasok, dopo averli ripetutamente ricattati con la minaccia di non erogare più le tranche di prestiti del fondo salva-Stati, vitali per la stessa sopravvivenza del Paese, oramai in default conclamato.
In definitiva, a mio parere il voto a Samaras è stato guidato, per un buon numero di elettori greci, oltre che dalla paura irrazionale del salto nel vuoto di una uscita dall’euro, indotta dalla propaganda politica scorretta effettuata dalla controparte, anche da una considerazione di pratico cinismo, atteggiamento che tende a prevalere quando la coscienza di classe si affievolisce e le ideologie vengono considerate “superate” da una sottocultura di modernismo da trogloditi (che peraltro non supera le ideologie, posto che anche il liberismo è una di esse, tende solo a schiacciare quelle considerate “sgradite” al padrone del vapore). Un certo numero di elettori deve aver pensato che, in fondo, posto che la Ue, prima del voto, si era dichiarata disponibile a fare qualche ridicola concessione sul memorandum, un eventuale Governo a guida Tsipras non avrebbe potuto ottenere molto di più, posto che sarebbe comunque stato un Governo di transizione dipendente, per la sua sopravvivenza, dai condizionamenti dei filo-merkeliani del Pasok, e posto che comunque la Grecia non ha il peso economico, e quindi politico, per influire sulle decisioni europee. Quindi, se secondo molti elettori Tsipras non avrebbe avuto comunque la forza per ottenere più di quello che la Ue si era già detta pronta a concedere, allora tanto valeva votare per il vecchio azzecca-garbugli dei conti pubblici, ovvero Samaras (ex Ministro delle Finanze e referente per le questioni economiche di Nd), rappresentante di un partito come Nd che in fondo, con la complicità delle multinazionali tedesche e della Ue, era riuscito a regalare al Paese diversi anni di una prosperità basata sul debito (come avvenuto con la mostruosa spesa per le olimpiadi del 2004, quando proprio Nd, con Karamanlis, era al Governo). La speranza di molti elettori è che ovviamente alla vecchia faina riesca qualche altro trucco, per ricostituire in qualche modo il circuito della spesa pubblica, magari sfruttando il buon rapporto che Samaras ha con la Commissione Ue, e così salvarli dal baratro.
Questo atteggiamento del tipo “meglio la vecchia faina che la giovane tigre” è però un errore. Non è vero che Tsipras non avrebbe ottenuto molto di più di ciò che otterrà Samaras, e che la Ue è già pronta a concedere. Va infatti ricordato che il prossimo 28 Giugno si terrà un Eurogruppo fondamentale, dal quale si dovrà uscire con una idea di politica economica per la ripresa della crescita. Il fatto che in Grecia vi sarà un altro fedele esecutore delle direttive del Capitale finanziario avrà sicuramente ripercussioni sulle decisioni di tale vertice.
La presenza di Samaras in luogo di Tsipras a tale vertice eviterà, a mio parere, che vi sia una vera mutualizzazione del debito pubblico dei diversi Paesi, consolidandolo a livello europeo. Infatti, solo la presenza di uno Tsipras in grado di picchiare i pugni sul tavolo e minacciare il congelamento unilaterale del memorandum avrebbe potuto rappresentare un incentivo agli eurobond. Perché in realtà la Merkel non ha nessuna pressione reale a fare questo passo. E’ inutile illudersi che Hollande e Monti, pur se a parole favorevoli agli eurobond, faranno molto per imporne l’adozione. Questo perché la Bce, che rappresenta gli interessi del Capitale finanziario, è chiaramente ostile alla mutualizzazione del debito. Il suo governatore Draghi ha infatti affermato che “non è possibile trasformare l’eurozona in un’unione di trasferimenti finanziari dove uno o due Paesi pagano e gli altri spendono. E il tutto finanziato dagli eurobond”. E l’Ocse, anch’essa legata agli interessi del capitalismo finanziario, ha dichiarato, tramite il suo segretario generale Gurria, che “la mutualizzazione del rischio già esiste, nel Fondo salva-Stati” (il che non è vero, poiché il rischio rimane a carico del Paese debitore, i Paesi che conferiscono risorse nel Fondo salva-Stati rischiano soltanto la quota di conferimento).
Si può credere che Hollande e Monti, di fronte alle pressioni del capitale finanziario, e senza la contropressione di uno Tsipras, difenderanno gli eurobond al punto di piegare l’ostinata resistenza tedesca? Mi pare impossibile. Alla fine, prevarrà il compromesso raggiunto fra la Merkel e la Spd, ovvero il “redemption fund”, uno strumento che non consente di mettere i debiti pubblici nazionali in comune, ma ne lascia l’onere ai singoli Stati, tenuti a trasferire a tale fondo la quota di debito pubblico che supera il 60% del PIL, obbligandoli a pagare annualmente una quota capitale, per l’estinzione entro 20-25 anni, più ovviamente gli interessi. Tale strumento è perfettamente coerente con la filosofia liberista del fiscal compact, e non consente alcun alleggerimento del fardello sociale imposto ai Paesi PIIGS. E’ utile per tranquillizzare l’elettore tedesco. Ma non per risolvere i problemi. La Grecia, come l’Italia, rimarrà sottoposta alla stessa pesante disciplina di bilancio, la sua economia rimarrà in recessione o al massimo di stagnazione per anni, riducendo di conseguenza la stessa capacità di creare nuova ricchezza necessaria per pagare le quote al redemption fund.
Non si capirà come solo una soluzione europea e solidale possa consentire all’Europa di uscire dal pantano, posto che l’Eurozona nel suo insieme è virtuosa: il rapporto tra debito pubblico e Pil aggregati è infatti molto inferiore a quello di Stati Uniti e Giappone (87% contro 100% e 200%); il deficit/Pil è addirittura metà di quello USA (4% contro 8%). Data la bassa rischiosità dell’Europa nel suo insieme, i rendimenti degli eurobond sarebbero molto bassi e i paesi in crisi debitoria non avrebbero difficoltà a rifinanziare i propri titoli in scadenza a costi inferiori. I più bassi tassi di interesse consentirebbero inoltre uan ripresa degli investimenti e della crescita. Ciò è già stato sperimentato con successo con la nascita degli Stati Uniti: quasi tutti gli Stati erano sovraindebitati ed insolventi, ed il ministro del Tesoro di allora li risanò accentrando tutti i debiti con l’emissione di titoli federali.
Quindi per la Grecia, senza Tsipras e con Samaras, ci sarà soltanto un po’ di riduzione dei tassi di interesse sui prestiti del Fondo salva-Stati, un po’ di riscadenzamento temporale degli impegni del memorandum (che però rimarranno quantitativamente identici a prima), un po’ di investimenti della BEI in infrastrutture digitali e trasportistiche (una tipologia di investimento che però, nell’immediato, crea soltanto un po’ di occupazione di cantiere, precaria e legata al tempo di esecuzione dell’investimento, e nemmeno molta occupazione indiretta ed indotta, posto che il settore delle costruzioni rappresenta il 5,3% del valore aggiunto greco, a fronte del 6,2% della media dell’area-euro – dato Eurostat 2010; mentre gli effetti strutturali di tale tipologia di investimento si fanno sentire solo in tempi medio-lunghi, quando cioè l’opera è realizzata, ma la Grecia ha bisogno di uno shock di crescita positivo oggi, non fra cinque anni). Queste concessioni non tireranno fuori dal pantano la Grecia, e nemmeno l’Europa; l’elettore tedesco terrorizzato dagli eurobond non viene portato da nessuno ad un ragionamento semplice, ovvero “a chi esporterà la Germania, se l’Europa centro meridionale viene ammazzata?” Il nuovo tonfo delle Borse e degli spread di oggi dimostra come gli stessi mercati finanziari siano consapevoli del fatto che aver tolto di mezzo la minaccia-Tsipras, per difendere le carabattole liberiste ( il fiscal compact, il redemption fund, i piani di rientro nazionali, l’ESM, ecc. ecc.), non si traduca in alcuna soluzione strutturale alla crisi.
Non si va da nessuna parte senza maggiore solidarietà europea sulla gestione dei debiti pubblici nazionali, e senza una politica chiaramente orientata alla crescita della domanda per consumi, partendo dalle fasce più povere ed a maggior propensione marginale al consumo, e senza un nuovo ciclo di investimenti pubblici su settori ad elevata ed immediata capacità di creazione di occupazione stabile (non di cantiere) come energia, ambiente, sanità e protezione sociale, e senza una regolamentazione europea a statunitense severissima sulle transazioni finanziarie “over the counter”, e senza una politica monetaria ricondotta sotto il controllo dei popoli, e non gestita da tecnocrati dietro la sciocca idea dell’indipendenza delle banche centrali (in realtà dipendenti dai poteri finanziari) e senza una politica sociale mirata a ridurre le diseguaglianze economiche e di accesso ai beni comuni, e senza una reale integrazione di popoli migranti, e senza una attenzione prioritaria alla qualità della vita e dell’ambiente, e senza un ritorno ad una programmazione pubblica che nasca dal basso, con idonei strumenti di pianificazione condivisa e partecipata, e senza strumenti di reale compartecipazione dei lavoratori alle loro imprese, e senza un rilancio del cooperativismo come strumento che vada al di là della concorrenza di mercato in nome del benessere degli individui e della società, e non del profitto.
Tutto ciò è reso più difficile dalla mancata vittoria di Tsipras. Però, ed è per questo che sono ottimista, in una fase in cui le condizioni soggettive per una rivoluzione non sembrano esservi, e non soltanto perché manca un partito-guida, ma anche perché ampie fasce dei proletariati nazionali dei Paesi sottoposti a piani di rientro, hanno una coscienza di classe annacquata da decenni di benessere, e quindi non chiedono un cambiamento di sistema, ma semplicemente il ritorno (impossibile) a quel benessere precedente, il meccanismo elettorale, pur con tutti i suoi limiti, segnala una radicalizzazione in senso antiliberista all’interno della società greca. Ciò non è sufficiente, per ora, a produrre un cambiamento di paradigma, ma sicuramente contribuisce a dimostrare che, nonostante tutti gli sforzi messi in atto per imporre il pensiero unico liberista, tale pensiero unico non solo non è unico, ma è addirittura in regresso fra i popoli più duramente colpiti dal morbo liberista. La stessa speranza dell’elettorato greco di riuscire a sfangarla affidandosi alla vecchia faina di Nd sarà sottoposta a una disillusione, quando diverrà evidente che il vecchio caro Samaras si allineerà acriticamente a politiche europee che non produrranno alcun effetto positivo sulla situazione disperata in cui versa il Paese. Ed allora, inevitabilmente, l’onda antiliberista vista ieri diventerà una marea. Sempre che Tsipras non commetta l’errore di Mélenchon, e rimanga coerentemente e lealmente avverso al Governo filo-merkeliano che si metterà in campo con la coalizione Nd-Pasok.

sabato 16 giugno 2012

UNA CONFERENZA INTERESSANTE di Stefano Santarelli



UNA CONFERENZA INTERESSANTE
di Stefano Santarelli

La pubblicazione di una nuova edizione, tra l’altro estremamente curata, del celebre testo di Victor Serge “Memorie di un rivoluzionario” da parte della Massari editore costituisce una iniziativa editoriale di notevole importanza.
Importante proprio per la figura straordinaria di Victor Serge, un bolscevico veramente originale la cui formazione politica è inizialmente anarchica. E benché continuasse a considerarsi anarchico aderisce nel 1919 al Partito bolscevico partecipando poi alla fondazione dell’Internazionale comunista organizzandone così il primo servizio stampa. Serge ha avuto la fortuna di partecipare ai processi rivoluzionari più significativi del Novecento (dalla Rivoluzione russa a quella spagnola).
Con l’avvento della dittatura staliniana il destino di Serge è segnato, può solo dedicarsi alla stesura di romanzi:
Concepisco la letteratura come un mezzo di espressione e di comunione tra gli esseri umani: un mezzo particolarmente potente agli occhi di coloro i quali vogliono trasformare la società. Dire ciò che si è, ciò che si vuole, ciò che si vive, ciò per cui si soffre e si lotta, ciò che si conquista. Bisogna dunque far parte di chi lotta, soffre, cade conquista.”
Egli è il primo ad elaborare il concetto di totalitarismo accomunando lo stalinismo al nazismo e al fascismo, un concetto poi reso famoso da Hannah Arendt la quale però non riconoscerà a lui nessun merito teorico.
Espulso dalla Russia nel 1936 dopo aver attraversato la Polonia e la Germania nazista raggiunge Bruxelles dove riprende i contatti epistolari con Trotsky allora in esilio in Norvegia.
Nel 1936 allo scoppio della Rivoluzione spagnola diventa corrispondente dell’organo del POUM, la Batalla. In prima fila nella lotta contro le calunnie dei Processi di Mosca collabora con la Commissione Dewey che doveva stabilire se Trotsky fosse o non fosse una spia nazista.
Nel 1940 giunge come il grande rivoluzionario russo anche lui a Città del Messico dove poi troverà la morte nel 1947 secondo alcuni, tra cui lo stesso Massari, per opera degli agenti stalinisti.
Un personaggio quindi di grande valore e spessore che è però quasi sconosciuto al grande pubblico, specialmente quello italiano.
E questo nonostante la fortuna dei suoi lavori letterari. Ricordiamo infatti che in Italia le “Memorie di un rivoluzionario” venne pubblicato la prima volta nel lontano 1956 con un discreto riscontro editoriale: ben quattro edizioni tra l’altro di case editrici di primo piano come La Nuova Italia e la Mondadori e che hanno venduto decine di migliaia di copie
Questa nuova edizione ha quindi il pregio di riproporre al pubblico italiano un testo che ha superato la prova del tempo e che è “indispensabile per capire la tragedia delle rivoluzioni sconfitte che è al tempo stesso, un classico della letteratura e una commovente testimonianza umana” (Claudio Albertani).
Ed è proprio per valorizzare un testo ed un autore veramente importante per tutta la sinistra che l’editore Roberto Massari ha organizzato a Roma il 15 giugno una interessante conferenza con la partecipazione di due dei più importanti dirigenti sindacali del nostro paese come Giorgio Cremaschi e Piero Bernocchi.
Sintetizzo qui brevemente questi tre interventi di notevole spessore.
Cremaschi dopo un interessante excursus storico ha sottolineato l’ispirazione morale del lavoro di Serge. Una battaglia quella di Serge che si indirizza su due fronti: da un lato contro l’avversario di classe e dall’altro contro le degenerazioni bolsceviche. Sottolineando la differenza di fondo esistente tra il totalitarismo nazista e fascista nei confronti di quello stalinista. Infatti mentre il totalitarismo nazista e fascista realizzò il suo programma politico, basti solo pensare al “Mein kampf” di Hitler. Quello stalinista al contrario tradì il suo stesso programma, quello comunista, che si batteva per la libertà, la democrazia e i diritti dei ceti più deboli della società.
E l’attualità di questo testo emerge oggi più che mai nell’odierno momento politico che vede una profonda crisi del sistema capitalista che si avvita su se stessa. Facendo così emergere la necessità di una alternativa a questo sistema e quindi di un cambiamento di fondo.
Cremaschi ha ricordato giustamente che nessun rivoluzionario ha fatto le rivoluzioni, ma solo le masse popolari quando esse non hanno più nessuna possibilità di ottenere dei cambiamenti tramite le riforme. E oggi è necessario battersi contro lo strapotere della burocrazia che soffoca i diritti della maggioranza della popolazione.
L’intervento di Bernocchi è stato forse quello più interessante dal punto di vista teorico.
Infatti ha sottolineato come il totalitarismo staliniano si trovasse già in nuce nel marxismo. Rivalutando così il celebre testo di Bakunin “Stato e Anarchia” dove veniva descritta 60 anni prima la dittatura staliniana. Ed infatti gli anarchici denunciarono per primi la dittatura del partito.
Marx d’altronde era convinto che con l’avvento del proletariato al potere terminassero i conflitti, ma questi conflitti purtroppo esisteranno sempre perché ci saranno sempre interessi diversi.
Neanche la grande Rosa Luxembourg metteva in discussione il predominio e la centralità del partito. E questa idea dell’unicità del partito e del sindacato si trovava quindi già nello stesso Marx. Non è quindi una invenzione staliniana.
E tornando all’attualità Bernocchi ha sottolineato che viviamo in una fase di transizione in cui può succedere di tutto e non sempre in senso positivo.
L’ultima relazione di Roberto Massari, che ricordiamo non è solo un editore ma è stato un dirigente storico della Quarta internazionale, si è soffermata sulla figura di Victor Serge. Un uomo che abbraccia tutta la storia del 900: il mondo anarchico, la Rivoluzione russa, la crisi dello stalinismo.
Serge è certamente un grande intellettuale, ma non è un teorico. Questi avvenimenti non li studia: li vive.
Per quanto riguarda il testo in questione bisogna riconoscere che le “Memorie di un rivoluzionario” è un bel libro anche dal punto di vista estetico come ha dichiarato lo stesso Massari che lo ha tradotto.
E questo libro conferma la grande qualità letteraria di questo rivoluzionario che è stato anche un grande romanziere.
In Serge vive una profonda nostalgia della I Internazionale, il cui vero nome ricordiamolo era Associazione internazionale dei lavoratori. Una Associazione estremamente eterogenea, dove non esisteva un verbo unico. Vi si trovavano anarchici, comunisti, ma anche mazziniani, garibaldini.
E quando si rompe questa storia si assiste ad una gigantesca tragedia. Una tragedia che ha provocato un grandissimo trauma e di cui le maggiori responsabilità sono di Marx.
Nell’ottobre del ’17 si prende il potere con la consegna “Tutto il potere ai Soviet ”. E sono ben sette le forze politiche organizzate che guidano questo processo rivoluzionario: il Partito bolscevico, certo, ma anche quello Menscevico e il Partito Socialista Rivoluzionario (che occorre ricordarlo aveva la maggioranza nei Soviet) e ben quattro formazioni anarchiche anch’esse per dare tutto il potere ai Soviet. Eppure un mese dopo al governo troveremo soltanto il Partito bolscevico con i socialisti rivoluzionari di sinistra, i quali resteranno al potere coi bolscevichi  fino al marzo 1918 (pace di Brest-Litovsk). E questo nuovo governo farà subito nascere la Ceka, cioè la polizia politica, facendo quindi iniziare una degenerazione che provocherà la più grande tragedia della rivoluzione russa: la dittatura stalinista.

Questa conferenza è stata, come si può facilmente comprendere sia pure in questa mediocre sintesi, di grandissima levatura intellettuale di cui purtroppo non siamo più abituati a vedere dentro la sinistra italiana.
Voglio terminare dando la parola proprio a Victor Serge:

“(…) una trentina d’anni fa, con delle scoperte che hanno cresciuto prodigiosamente la potenza tecnica dell’uomo – senza accrescere proporzionalmente la sua coscienza - siamo entrati in un ciclo di trasformazione del mondo. Vi siamo entrati prigionieri di sistemi sociali logori al punto di non avere più alcuna possibilità di sviluppo. Formati a loro volta da un mondo sorpassato, i più lungimiranti e i meglio intenzionati tra i militanti della mia generazione si sono spesso rivelati, nelle tormente più che semiciechi. Nessuna dottrina ha resistito all’urto. Niente di sorprendente, per questo. Tanto valgono l’uomo e la dottrina, tanto valgono il mondo e l’uomo. E tuttavia non è un circolo vizioso. Alcune grandi linee degli eventi in corso di realizzazione si sprigionano dal caos.
Non sono più i rivoluzionari che fanno l’immensa rivoluzione mondiale, sono dei dispotismi insensati che l’hanno scatenata suicidandosi. E’ la tecnica industriale e scientifica del mondo moderno che rompe brutalmente con il passato e mette i popoli d’interi continenti davanti alla necessità di ricominciare la vita su nuove basi.
Che queste basi debbano essere, non possono essere che di organizzazione razionale, di giustizia sociale, di rispetto della persona umana, di libertà, e questa per me attuale.
L’avvenire mi appare, quali che siano le nuvole all’orizzonte, pieno di possibilità più ampie di quelle che avevamo intravisto nel passato. La passione, l’esperienza amara, gli errori della generazione combattente alla quale appartengo possono illuminare un po’ le strade. A questa sola condizione, divenuta un imperativo categorico: non rinunciare mai a difendere l’uomo dai sistemi che pianificano l’annientamento dell’individuo.”


venerdì 15 giugno 2012

E CHE SAN BAKUNIN CE LA MANDI BUONA...





Intervista di Alfredo Mazzucchelli a un anarchico cubano

Internet, la tessera annonaria, i prigionieri politici, le forme dell’opposizione, ecc. ecc. Chiacchierata a ruota libera, rigidamente anonima.




Quanto costa connettersi a internet?
A Cuba internet non è gratis per tutti, lo è solo per gli uffici del partito-Stato e per le persone con un permesso per il libero accesso; il resto della popolazione è costretto a comprare delle tessere pre-pagate. Non è nemmeno concesso connettersi a internet da casa, solo alcune persone autorizzate possono installarselo nel proprio domicilio privato; gli altri devono andare nei centri destinati all’uso di internet.

Quanto può costare per un lavoratore cubano?
Un’ora di internet costa 8 cuc (peso cubano convertibile in valuta, più o meno come il dollaro americano).

Cos’è “la libreta”?
Oggi “la libreta” (tessera annonaria) è una presa in giro, già che si trovano sempre meno generi alimentari nelle “bodegas” di quartiere (negozi amministrati dallo Stato adibiti alla vendita dei generi alimentari), eppure, per ampi settori che guadagnano miseri salari (da 11 a 15 dollari al mese) e/o sono disoccupati, “la libreta” continua a essere una maniera per garantirsi uno scarso numero di generi alimentari basici a modico prezzo. Un tempo era un metodo di controllo per evitare l’accaparramento dei viveri e una maniera per regolare i prezzi dei generi alimentari, ma nella presente congiuntura che vede il passaggio dal capitalismo di Stato al capitalismo privato, il partito-Stato si mantiene fermo nella sua proposta di eliminare “la libreta”, sostenendo che “non è il momento di fare del paternalismo” e che non tutte le persone che comprano a prezzi sussidiari ne hanno realmente bisogno. L’aspetto più ridicolo di queste argomentazioni è che nessun lavoratore o lavoratrice che percepisce un salario minimo ha un potere d’acquisto tale per poter acquistare pagando in cuc nei supermercati (gestiti dagli alti ufficiali dell’esercito) dove sì si trovano tutti gli alimenti, ma a prezzi altissimi.

Chi sono le Dame bianche?
Le Dame bianche sono (anche se sarebbe meglio dire erano, dato che nella mediazione Stato-chiesa, quest’ultima si è assunta l’impegno di mettere fine a queste proteste) le madri, le mogli e le figlie dei prigionieri politici del gruppo dei 75, arrestati durante l’ondata repressiva nota come la “primavera nera”. Si sono date questo nome perché manifestano pacificamente per richiedere la scarcerazione dei loro familiari.

I prigionieri liberati in seguito all’intervento del vescovo de L’Avana erano stati condannati per reati comuni o per dissidenza politica?
I prigionieri scarcerati dopo il dialogo tra la chiesa e lo Stato erano tutti prigionieri politici non “comuni”, come il partito-Stato definisce con disprezzo il resto dei detenuti sociali. Tutti i prigionieri scarcerati appartenevano al gruppo dei 75, sono stati gli ultimi a rimanere ancora in prigione da allora dato che qualcuno era stato scarcerato con il contagocce per gravi stati di salute.
Ma secondo le organizzazioni dei diritti umani – illegali, ovviamente – qualche gruppo di prigionieri politici che non rientrava all’interno dell’accordo continua a essere in prigione. Il fatto veramente allarmante è la quantità di prigionieri sociali (che loro chiamano “comuni”) presenti in ogni parte dell’isola. Non esistono dati ufficiali, non ci è permesso di sapere esattamente di quante persone stiamo parlando ma, secondo quanto affermano gli ex detenuti, i familiari e i dati raccolti dall’illegale Commissione dei Diritti Umani, il numero dei prigionieri si aggirerebbe attorno al milione, composto per la maggior parte di giovani tra i 16 e i 30 anni.

Nella stampa borghese italiana si parla molto di Yoani Sánchez. Dicono che sia pagata dalla CIA. Che te ne pare?
È logico che nella stampa borghese si parli molto di Yoani Sánchez, mentre qui molte altre voci vengono messe a tacere. Se non esistesse la censura e la mancanza di libertà d’espressione che il partito-Stato ci impone potrebbero sentirsi anche altre voci critiche. A questo si deve sommare l’“auto-censura” così frequentemente attuata dalle organizzazioni di sinistra che invece di farsi portavoce dei loro compagni d’idee e di aiutare a diffondere altre posizioni critiche, si uniscono al silenzio castrante che c’impone lo Stato. È davvero un fatto insolito ma è quanto accade nella realtà. Quasi tutta la “sinistra” internazionale si presta al gioco della censura e tutti si limitano a ripetere come pappagalli quanto gli viene ordinato dalle alte sfere del partito-Stato cubano. E per assurdo è riuscito a convincere perfino individui e organizzazioni di presunta affiliazione “anarchica” che rappresentano una straordinaria eccezione al momento di affrontare problematiche concrete come quella di Cuba o del Venezuela, della Bolivia, dell’Ecuador, del Nicaragua, e dimenticano l’antico motto, “Né Dio, Né Stato, Né padrone”, e cominciano con interminabili piroette semantiche a giustificare l’ingiustificabile.

Ah, scusa… dimenticavo la presunta impiegata della CIA. Che ne penso? Beh, a noi tutti sembra una tremenda commedia, sicuramente non condividiamo in nulla le posizioni e i postulati di Yoani che sono chiaramente liberali, piccolo-borghesi, proto-capitalisti ma da qui a credere alla storia che sia “un’agente della CIA”, una “mercenaria”, etc., ci vuole davvero molta fantasia. Anche se ha ricevuto dei premi all’estero, se importanti media della stampa borghese la pagano per i suoi lavori giornalistici e se riceve finanziamenti da fondazioni e da altre organizzazioni di questo tipo, la cosa realmente sorprendente è che nel resto del mondo innumerevoli organizzazioni e individui che si dichiarano di “sinistra” ricevono questo tipo di finanziamento dalle fondazioni e da altri enti, senza che nessuno gli rinfacci di essere dei mercenari. In realtà riteniamo che quando a Cuba verrà derogata ogni legge che attenta alla libera espressione, in quello stesso istante dichiarazioni come quelle di Yoani perderanno tutto il loro peso specifico, perché ci sarà un ampio ventaglio di giornali, riviste, opuscoli, proclami, con posizioni rivoluzionarie, socialiste libertarie, anarchiche che potranno contribuire alla critica.

Quale è il tuo rapporto con l’Osservatorio Critico? Sono marxisti, intellettuali o libertari?
La Rete Osservatorio Critico è un incredibile e meraviglioso ombrello sotto cui confluiscono molti progetti, numerosi collettivi e iniziative che partono da posizioni critiche – come indica il suo nome -, anche se queste posizioni critiche non hanno necessariamente un colore ideologico. Ci tengo a chiarire che non si tratta di un’organizzazione politica.

È indubbiamente un punto di confluenza d’idee in cui si ritrovano intellettuali marxisti critici, organizzati a partire da un dibattito del socialismo partecipativo e democratico, che appoggiano questa Internazionale, e compagni libertari, anarcosindacalisti, socialisti libertari, anarchici, ecc. Un buon esempio è il Laboratorio Libertario Alfredo López. Bisogna anche chiarire che non facciamo ufficialmente parte dell’Osservatorio, anche se conosciamo molti compagni e abbiamo partecipato a molte loro attività, forse per ragioni legate a interessi propri dell’età o forse perchè non ci riteniamo appartenenti alla denominata intellettualità, nonostante alcuni nostri compagni siano artisti.

Esistono contatti con altri gruppi dell’opposizione?
No, non abbiamo il benché minimo contatto con i gruppi della cosiddetta “opposizione”; riconosciamo che esistono moltissime posizioni all’interno di questo grande calderone che si definisce “opposizione”, ma noi non ne condividiamo i principi “generali”, per chiamarli in qualche modo. Siamo d’accordo quando questi gruppi lanciano degli allarmi a proposito della mancanza di libertà, della mancanza di democrazia diretta, d’assenza partecipativa; appoggiamo le loro critiche alla direzione storica, alla verticalità del partito-Stato, alle segnalazioni di autoritarismo assolutista; siamo d’accordo sulla richiesta generale della necessità di un cambiamento urgente ma non concordiamo sulla direzione, sul verso che devono assumere questi cambiamenti. Noi non vogliamo passare dal capitalismo di Stato al capitalismo privato e neo-liberale, come molti di questi gruppi invece vorrebbero; noi desideriamo andare verso il Socialismo libertario, democratico e partecipativo, e per questo lavoriamo, per questo combattiamo.

A Cuba ci sono difficoltà per comprare generi alimentari?
A Cuba ci sono ovviamente molte difficoltà per comprare generi alimentari ma per gli elementi ai margini, per quelli a cui accennavo poco fa, che guadagnano tra gli 11 e i 15 dollari al mese, per i disoccupati – di cui non si ha una cifra concreta ma che si stimano essere centinaia di migliaia – per i cubani a piedi, le difficoltà sono davvero molte.

Com’è la situazione negli ospedali, nelle scuole, nell’agricoltura, nell’industria e nella costruzione civile?
Avviene la stessa cosa che nell’edilizia, il problema comune dell’abitazione, chi ha soldi si costruisce la sua casa senza molte difficoltà, compra tutto il materiale, in ogni modo, anche con materiale rubato ma, per la maggior parte dei cubani, questo continua a essere un sogno irrealizzabile. E per quanto riguarda gli ospedali, come per numerosi altri temi, le cose non sono molto diverse. È innegabile, gli ospedali e l’assistenza medica sono gratuite, ma ci sono grandi carenze, non ci sono i medicinali, ecc.
Questo non dipende sempre dal nemico o dall’embargo...
Lo stesso discorso vale anche per le scuole: è innegabile che l’educazione è gratuita dalle scuole primarie fino all’università ma noi per molto tempo abbiamo creduto che questo era un traguardo esclusivo della rivoluzione e uno diceva sempre, bene, il partito-Stato farà molti errori ma almeno l’istruzione è gratuita. Ma poi scopriamo che ci sono molti paesi in cui l’educazione è gratuita e non stiamo parlando di paesi sviluppati dell’Europa, no, ma di paesi di qua, del continente latinoamericano. Alcuni compagni messicani che sono passati di qua in visita ci hanno detto che anche là la scuola, fino all’università, è gratuita, e che hanno un sistema che hanno ottenuto grazie alle lotte degli studenti, e che inoltre assicurano il passaggio dal pre-universitario all’università. In realtà molte volte non sappiamo molto del mondo... è un gran carcere, siamo isolati senza possibilità di comunicare con l’esterno. È un’isola isolata. E non è solo per il tema dell’embargo nordamericano, è l’embargo interno che ci impongono e con cui ci condannano a vivere nell’ignoranza, a non sapere altro che quello che “papà” partito-governo-Stato ci vuole raccontare...
Ora gli è venuta la mania della guerra, l’Apocalisse nucleare tra le potenze capitaliste ed è un punto di vista che non si può mettere in discussione, nessuno può mettere in dubbio questa pazzia anche se il mondo vive convinto che le potenze capitaliste sono felici sfruttando gli esclusi del mondo e non pensa affatto a buttarsi in una ecatombe nucleare, questo non vuol dire che non continuino le guerre in Irak, Afganistan, etc., quelle di bassa intensità in Africa, questa è la logica del capitalismo.


Beh, spero tu sia rimasto soddisfatto, non posso fare altro che ringraziarti per l’intervista e raccomandarmi a San Bakunin affinché essa venga diffusa e si rifletta un po’ di più sul significato della parola “Solidarietà”. Grazie! Un forte abbraccio fraterno a tutti i compagni e le compagne italiane.


(traduzione di Arianna Fiore)

novembre 2010

giovedì 14 giugno 2012

CAUSE ED EFFETTI di Alfredo Mazzucchelli



CAUSE ED EFFETTI
di Alfredo Mazzucchelli



È finita la spinta propulsiva della Rivoluzione Russa. Con queste parole Enrico Berlinguer dichiarò definitivamente chiuso il rapporto del PCI con la nomenclatura bolscevica.
Riporto questo a conferma che effettivamente la spinta propulsiva ci fu, eccome, spinta che coinvolse centinaia e centinaia di milioni di esseri umani, tanto affascinati da quella realtà, da restare ignari di quanto realmente fosse accaduto e stesse ancora accadendo nella URSS staliniana. C'era chi sapeva, ma taceva, e questo un giorno avrebbe portato infine all'89 !
Il PCI non voleva sapere di storie, da una parte la NATO e dall'altra il Patto di Varsavia dove i due si combattevano a distanza senza esclusione di colpi, e le storie erano riassumibili nel controllo del sindacato, nella collaborazione con lo Stato borghese ( La Costituzione e l'art. 7 ), finalizzata questa politica all'inevitabile incontro tra le masse comuniste e quelle cattoliche, perno questo della politica togliattiana.
Ma il fascino dell'Ottobre rosso copriva e nascondeva sotto il tappeto tutto il sudiciume che ormai stava emergendo. Tuttavia la rivolta ungherese preoccupò non poco i baldi togliattiani, tanto è che alle successive elezioni italiane si prevedeva un primo arretramento del PCI, niente affatto! Il PCI ed i romanzi di Guareschi, ancora una volta fecero il miracolo: supportato da un CC saldamente nelle mani del Migliore, avanzò ancora e così la rivolta ungherese con i suoi centomila morti venne archiviata come un tentativo della NATO di intromettersi negli affari interni di uno stato sovrano e per di più protetto da quella “cortina” voluta e nata a Yalta.
Ma questo sistema non concede sconti, l'Oscar alla lira, l'esplodere del consumismo, il centro sinistra  e poi la solidarietà nazionale, per non dimenticare  le giunte milazziane in Sicilia, videro sì da un lato la conferma della inevitabilità di quel famoso “incontro” ma contemporaneamente il definitivo sfaldamento della sinistra parlamentare ormai divenuta pilastro di un liberismo sostanzialmente statalista. Il crollo poi della URSS accelerò la completa disfatta delle sinistre: era crollato definitivamente un mito, dove i continui fallimenti dei piani quinquennali erano stai i principali responsabili della disfatta, sia l'ormai insostenibile sostentamento delle ingenti spese militari che il nemico imponeva e sia per il fallimento dei piani agricoli, ormai annualmente debitori della agricoltura statunitense, in ragione di 150 milioni di Tons annue.

Come si vede ci sono sempre dei contesti che, se male interpretati, poi alla fine portano sempre alla disfatta, a noi non resta altro che prenderne atto, ma siamo proprio sicuri che non esistesse una alternativa? Se così non fosse, la speranza resterebbe confinata nel vaso di Pandora, ed all'umanità non resterebbe il ripetersi di una tragedia continua e senza sbocchi, essendo le cause che hanno prodotto questi effetti, ancora tutte da rimuovere.

mercoledì 13 giugno 2012

PROVACI, LANDINI! di Norberto Fragiacomo


 
PROVACI, LANDINI!

di Norberto Fragiacomo


Dell’incontro organizzato dalla Fiom sabato scorso a Roma e dell’appello rivolto dal suo leader, Maurizio Landini, alle (deboli) forze della sinistra politica si è parlato e si continua a parlare, tanto sui giornali quanto nei blog che popolano la rete.
In genere i commentatori ostentano cautela, come avessero a che fare con un oggetto misterioso; ma ai tiepidi applausi al sindacato fanno da contraltare critiche anche sferzanti, provenienti da destra e da sinistra.
Per i c.d. “moderati” (che moderati sono solamente nelle loro fantasie, se non altro perché sostengono il più autoritario dei regimi concepibili, quello dei mercati) l’iniziativa della Fiom svela la natura “politica” e “massimalista” dell’organizzazione, incapace di accettare l’ineluttabilità dei sacrifici imposti alla povera gente in tempi di crisi; dal fronte opposto si accusa, al contrario, il vertice sindacale di moderatismo ed irresolutezza, nonché di offrire una sponda a chi (Bersani, ma pure Vendola) si è prontamente allineato alle direttive provenienti dallo stato maggiore della finanza globale. L’aut aut indirizzato dal segretario dei metalmeccanici ai “politici” sarebbe piuttosto una supplica, e una scoraggiata ammissione di impotenza: anziché implorare coperture e chiedere alloggio – per le proprie idee – come un vagabondo qualunque, la Fiom avrebbe il dovere di indicare una strada che, superato il villaggio globale capitalista, conduca dritta alla società nuova.
In sintesi, pur avendo riconosciuto l’estrema gravità del male, il medico Landini consiglierebbe il ricorso ad un inutile placebo.
Abbiamo cercato di riassumere in un paio di righe delle argomentazioni che, per la loro pregnanza, meriterebbero ben altra analisi – ma, premesso che, osservando dal di fuori, non abbiamo piena coscienza delle dinamiche interne al sindacato, ci pare abbastanza ingeneroso accusare il povero segretario (che non si dà arie da intellettuale, e mai ha letto Il Capitale) di non essere Lenin, specie in un momento in cui il fronte unico delle destre prova a schiacciare contro un muro la sua organizzazione allo stremo.
Oggi la Fiom è sola, drammaticamente, e il marchionnismo di governo, oltre a cacciarla dalle fabbriche, l’ha privata di quelle fonti di finanziamento (il contributo degli associati, falcidiati dai licenziamenti) senza le quali non può sopravvivere. Con il laido balletto su pensioni ed articolo 18, la CGIL ha rinunciato – si direbbe definitivamente – alla lotta, ricostituendo con Cisl e Uil una triplice dai colori autunnali; la richiesta di sciopero generale, urlata alla piazza romana del 9 marzo, è caduta nel vuoto e, al di là di singole, apprezzabili iniziative (il raduno promosso a maggio dalla Fed, le azioni del Comitato NO Debito davanti alle banche e in Parlamento) non esiste oggi, in Italia, un’opposizione strutturata e capace di svegliare le masse.
Stretti tra l’incudine della carenza di fondi e il martello dell’accusa (pienamente in malafede) di massimalismo, che fa ancora presa su moltitudini rassegnate e poco reattive, i metalmeccanici non avevano altra scelta che proporsi come forza dialogante e responsabile: ecco la ragione, forse, dell’invito fatto pervenire al PD, che ha dimostrato da tempo di aver abbracciato – per forza, ma anche per amor di potere – la religione montiana dell’austerità “per molti, ma non per tutti”. Si può avere fiducia in chi, come Stefano Fassina – considerato la “sinistra estrema” dei sedicenti democratici -, sostiene che il pareggio di bilancio in Costituzione andava votato a prescindere, malgrado i suoi effetti catastrofici sulla società e l’economia italiane? Evidentemente no, perché chi non vede alternative all’esistente mai avrà il coraggio di opporsi alle misure sempre più draconiane che saranno imposte dai mercanti globali assetati d’Europa – e tuttavia, aprire ad un PD screditato è stata una buona mossa. La ridicola autodifesa di Bersani sull’articolo 18 è stata sommersa dai fischi dei delegati Fiom, e questa kermesse sonora è giunta alle orecchie degli italiani, che iniziano a prendere consapevolezza della doppiezza – oltre che dell’inadeguatezza – della classe dirigente democratica.
Per mostrare al Paese che Bersani non è (più?) di sinistra occorreva dargli la parola: è stato fatto, e il segretario ha reso una piena confessione, sollecitata dalla puntuta arringa di Di Pietro, che è senz’altro un demagogo, ma forse proprio per questo dice, alle volte, le cose come stanno.
L’altra figuraccia è stata quella del cerchiobottista Vendola: partito per riformare il mondo, il grande affabulatore si accontenta adesso di una candidatura alle primarie, e di un posto in un futuribile governo Bersani-Monti. Certo, il Presidentissimo continua a verseggiare su  lavoro, diritti per gli omosessuali (questione un po’ secondaria, in questa temperie storica) e giustizia sociale, ma questo – in gergo giornalistico – si chiama fuffa: il suo orizzonte è pienamente ulivista, e siamo cinicamente convinti che già sta preparando alate apologie per quando, seduto in Parlamento, dovrà avallare futuri, devastanti tagli allo Stato sociale. Spiace che di quanto è sotto gli occhi di tutti i compagni di SeL insistano a non accorgersi – d’altra parte, neppure si avvedono che il progetto è miseramente fallito, e il bacino elettorale (vasto solo nei sondaggi televisivi) si sta restringendo a favore di Grillo, che sarà pure un arruffapopoli, ma ha brevetatto il linguaggio giusto per parlare a tutti quegli italiani che, oramai, provano solo disgusto per un Paese costruito su misura dei peggiori, degli inetti (in senso proprio, non sveviano), dei disonesti e dei leccapiedi.
Non se l’è cavata troppo bene neppure Diliberto (PdCI), che seguita a caldeggiare un Ulivo già colpito dal fulmine ben prima che scoppiasse il temporale finanziario – tuttavia la proposta di unire la Sinistra e poi mercanteggiare con il PD non va letta necessariamente come un’esibizione di opportunismo elettorale: se si dimentica per un attimo ciò che accade fuori dai confini (e nelle borse), si può persino credere che una forte componente social-comunista in seno al centrosinistra potrebbe afferrare la barra del timone, e regalare ai cittadini una politica decente. Si tratta ovviamente di una pia illusione, che peraltro il necessario interlocutore (SuperNichi) non condivide affatto, avendo già optato per la subordinazione al PD montiano.
Convince di più Paolo Ferrero, che appoggia le battaglie della Fiom (e non da ieri: lo faceva anche quando Bersani, mentendo spudoratamente, asseriva che la vicenda Pomigliano era un una tantum), e dimostra consapevolezza di quanto sta succedendo intorno a noi. Anche lui, però, appare talvolta incerto tra una prospettiva di lotta “partigiana” a tutto campo (per condurre la quale, però, mancano le forze) e la presunzione – che in altre epoche sarebbe stata realistica, ma oggi è tutt’al più uno scongiuro – di poter contribuire, dall’esterno e comunque per via elettorale, ad un’evoluzione in senso democratico-progressista dell’inqualificabile PD.
In realtà, il falso dilemma di Ferrero è anche quello che tormenta Landini e la dirigenza Fiom: combattere a viso a aperto o tentare la via del compromesso? In astratto, il secondo sentiero sembra il più percorribile: peccato che sia stato reso impraticabile, oltre vent’anni fa, dalla frana dell’Unione Sovietica.
Il Capitale, oggidì, non è disponibile a trattare: pretende la resa incondizionata, ed è singolare che chi vive nelle fabbriche o intorno alle fabbriche non colga questa elementare lezione quotidiana.
Per cui va benissimo dare spazio a Bersani e persino alla Fornero (che va incalzata, però!), se lo scopo è metterne a nudo la falsità e la cattiva fede, cercando al contempo di presentarsi come educatissimi padroni di casa a beneficio dei media; ma poi bisogna rompere gli indugi, e sottoporre a chi ci sta un articolato piano di battaglia, che tenga conto della situazione concreta, non di aspirazioni fuori dal mondo e dalla Storia.
Rivoluzione subito? Piano, ci vuole un minimo di cautela: lanciare il ronzino contro i carri armati è gesto nobilissimo, ma suicida. Molti critici della Fiom paiono non prendere in considerazione il fatto che qui non si tratta di trasformare un bel giardino all’inglese nell’Eden socialista: ci troviamo su una pietraia bruciata dal sole.
L’avanguardia rivoluzionaria di domani potrebbe essere costituita da provetti hacker, capaci di mettere in… crisi borse e banche e assai più difficili da fermare dei generosi marciatori di Francoforte; di fronte ad un “evento prodigioso” (ad esempio, la vittoria di Syriza tra una settimana scarsa), le piazze potrebbero tornare a riempirsi – ma, in ogni caso, trovare l’acqua per innaffiare il germoglio socialista non sarà agevole.
Alla Fiom, a Rifondazione, al NO Debito e agli altri piccoli partiti/movimenti anticapitalisti chiediamo di non mollare, e soprattutto di non adeguarsi alla logica del “meglio che niente”: quello che i finanzieri sono disposti a concederci è, per l’appunto, niente.

12 giugno 2012

martedì 12 giugno 2012

I risultati elettorali del Front de Gauche: alcune considerazioni




di Riccardo Achilli

Prima che si scatenino i consueti sciacalli sugli esiti delle elezioni parlamentari di oggi (già mi pare di sentirli: "il Front de Gauche è un bluff, una sinistra radicale unita non regge ai test elettorali, l'elettorato alla fine chiede ragionevolezza e quindi proposte moderate, ", ecc. ecc.) sarebbe il caso di precisare alcune cose in merito ai risultati elettorali per le parlamentari francesi conseguiti dal Front de Gauche:

- nel complesso, se il risultato fornito dalle proiezioni (6,5%) sarà confermato, allora il FG avrebbe conseguito un buon risultato, in lieve crescita rispetto al 6% conseguito alle europee del 2009 ed alle regionali del 2010;

- certamente il fortissimo calo rispetto al primo turno delle presidenziali di aprile (dove il FG aveva conseguito l'11%) e la stessa tragica sconfitta di Mélenchon, buttato fuori dal ballottaggio, nel suo feudo, dalla Le Pen e da un oscuro candidato socialista, deve far riflettere. A mio parere, è intanto il frutto di errori di strategia dello stesso Mélenchon. Il suo elettorato si aspetta che il leader di un partito di sinistra radicale sia combattivo, e non scenda immediatamente, e senza ottenere concessioni significative sul programma, a patti con Hollande. Invece, subito dopo il primo turno, Mélenchon si è "ammosciato", offrendo i suoi voti ad Hollande, per il ballottaggio, senza nemmeno negoziare in modo significativo sul programma, in nome di una presunta "emergenza FN" che si è rivelata  meno grave delle aspettative (atteso che il FvN ottiene, dalle proiezioni per il Parlamento, il 13,4%, in netto calo rispetto al risultato delle presidenziali). Vorrei ricordare, e ne so qualcosa sin dall'infanzia, che i francesi sono i più "germanici" fra i popoli latini: possono amare qualcuno (anche un movimento politico) con straordinaria passione, ma ad un certo punto irrompe il loro spirito cartesiano, razionalistico e freddo: se tu ti presenti come leader di un partito radicale e poi ti ammosci subito dopo le elezioni, non sei più coerente, e diventa illogico continuare a sostenerti. In cambio, mentre Mélenchon si ammosciava, Hollande, in questo ultimo mese, si è mosso efficacemente, varando due provvedimenti più demagogici che effettivi, in termini di riduzione reale delle diseguaglianze sociali, come il tetto agli stipendi di alcuni manager pubblici e la riduzione dell'età pensionabile a 60 anni per circa 110.000 lavoratori "precoci". Roba di poco conto, di piccolo cabotaggio, ma di impatto dal punto di vista mediatico. La politica è veloce, le rendite di posizione non esistono più, e chi non si muove è penalizzato subito, anche dopo soli due mesi;

- i risultati in discesa dei partiti alle due estreme del quadro politico francese, fra gli esiti delle presidenziali e quelli delle parlamentari, sono il frutto di un mostruoso astensionismo (43%) che non ha riscontro rispetto ai dati delle presidenziali (dove tale percentuale era soltato del 20-20,5%). Ciò mostra come gli elettori dei partiti posizionati alle estreme siano scettici ed anche ostili al parlamentarismo, in qualche modo associato ai rituali di gestione del potere della "casta" politica, mentre sono molto più propensi ad andare a votare per un leader dell'esecutivo che li rappresenti. Tale ostilità alla "casta", più o meno giustamente accusata di aver sprofondato l'europa in una crisi economica e sociale gravissima, assume varie forme nei diversi Paesi. Tutte queste diverse forme sono però negative per la sinistra radicale, poiché le tolgono quote di elettorato di riferimento. In Paesi come l'Italia o la Germania, dove esistono partiti politici de-ideologizzati, la cui base politica fondamentale è l'avversione nei confronti dell'intermediazione politica tradizionale, in nome di forme di partecipazione diretta e dal basso (M5S in Italia, Piraten Partei in Germania) tale disprezzo per la casta politica passa per il voto a tali partiti. Dove invece partiti simili non esistono, come in Francia, l'avversione per la casta passa tramite un enorme astensionismo in occasione di elezioni mirate a rinnovare le istituzioni simboliche dell'intermediazione politica tradizionale (come il Parlamento). Ma la conseguenza politica immediata è sempre la stessa: a soffrire maggiormente di tale orientamento dell'elettorato sono i partiti radicali, in particolare quelli di sinistra. Perché è soprattutto l'elettorato con tendenze di sinistra radicale a risentire maggiormente dell'attrazione di proposte politiche che in qualche misura possono risultare, solo apparentemente, "rivoluzionarie" nel loro rifiuto netto dei rituali tradizionali del parlamentarismo liberale;

- è comunque metodologicamente scorretto, e politicamente sleale, inferire lezioni per l'Italia da avvenimenti politici che si verificano in contesti nazionali, sociali e politici diversi da quello italiano. In Germania la Linke è in difficoltà per motivi specifici a quel Paese (sono d'accordo con Norberto Fragiacomo, quando in un articolo precedente dello stesso blog ci dice che molti elettori tedeschi preferiscono i Piraten alla Linke, perché i primi consentono loro di esprimere un dissenso che però non rimette in causa l'egemonia tedesca e della Bundesbank sull'intera Europa, anche se credo che molti dei mali della Linke derivino dall'assenza di un leader carismatico che la rappresenti, in una politica sempre più leaderistica e personalistica, e dalle mille mediazioni interne fatte con il bilancino, spesso anche fastidiose, che sono una consuetudine quotidiana di tale partito). In Francia il FG non sfonda per questioni specifiche a quel Paese. In Italia non abbiamo un Spd che metta in discussione il fiscal compact, sia pur in modo molto moderato, non abbiamo un PSF che faccia alcune politiche, sia pur prevalentemente di facciata, di sinistra. Abbiamo il PD. Ed è inutile sperare che il PD metta a disposizione la politica di rilancio della crescita ed equità sociale che serve oggi. È illusorio sperarlo. Quindi in Italia abbiamo bisogno di una sinistra unita...semplicemente per motivi inerenti le caratteristiche specifiche del quadro politico italiano, non perché tali esperienze abbiano successo o meno in contesti diversi dai nostri. Iniziamo a guardare dentro noi stessi, anziché misurare esperienze esterne, e stabilire se imitarle o meno in base ai loro specifici risultati.



lunedì 11 giugno 2012

Solidarietà per Eliana Como





La Redazione di Bandiera Rossa si unisce a questo appello delle RSU Fiom Piaggio di Pontedera. Pieno appoggio ad Eliana.


La Redazione

A tutte le RSU FIOM



La recente decisione del Segretario Provinciale della FIOM di Bergamo e del Segreterio nazionale della FIOM di trasferire a Roma Eliana Como contro la sua volontà, mettendo fine al suo lavoro in provincia di Bergamo, richiede a nostro avviso una attenzione e una reazione adeguata da parte di tutti i delegati e gli operai militanti. 
Eliana Como fa parte di una realtà di militanti sindacali che hanno saputo sviluppare, alla SAME e in diverse altre fabbriche in provincia di Bergamo, un’iniziativa e un movimento di lotta fra i più significativi a livello nazionale, che ha ottenuto risultati importanti nei posti di lavoro e ha dato un grande contributo alle lotte in difesa del Contratto Nazionale, dei lavoratori FIAT, delle pensioni e dell’Art.18 e che in quelle fabbriche ha reso la FIOM il sindacato di riferimento per la grande maggioranza dei lavoratori. 
Rimuovere Eliana dal suo incarico rappresenta un netto indebolimento di quella realtà operaia e sindacale, nel momento in cui si trova in prima fila contro la vasta e brutale offensiva dei padroni e del Governo, rappresenta un favore alle forze che vogliono schiacciare il movimento operaio o ridurlo al silenzio se non all’assenso a una politica economica e sociale ferocemente antioperaia. 
Come possono i dirigenti nazionali della FIOM avallare e sostenere un atto che, nel pieno di una battaglia difficile, colpisce un’esperienza che è un modello e un punto di forza per la difesa degli obiettivi e dei principi che la FIOM riconosce come fondamentali e inderogabili? 
Un atto che i compagni di Eliana e i lavoratori coinvolti giudicano come un trasferimento politico, un’epurazione voluta da una struttura provinciale che non è nuova ai tentativi di bloccare le loro iniziative. 
E che a noi della Piaggio non sembra molto lontano dall’operazione con cui nel 2004 le strutture provinciali e regionali tentarono la nostra espulsione dalla CGIL. 
Per noi, la difesa di Eliana Como rappresenta una discriminante, sempre più attuale e decisiva, tra chi si sta battendo per sviluppare e unificare le lotte dei lavoratori sui loro interessi fondamentali, nelle singole fabbriche come sul piano nazionale e chi ha di fatto accettato per le organizzazioni sindacali un ruolo di impotenza e di subalternità. 
Alla compagna Eliana va la nostra totale solidarietà e tutto il nostro appoggio nella battaglia sua e dei suoi compagni. 

RSU FIOM PIAGGIO 
Pontedera

domenica 10 giugno 2012

250 euro in meno per un contratto in più


foto originale di Stefano Mangione

di Lorenzo Mortara


Come era ampiamente prevedibile, la lotta di classe a colpi di sentenze si sta pian piano ritorcendo contro la Fiom, la giustizia non essendo altro che un numero imprecisato di aule di tribunale ad ulteriore disposizione dei padroni per la causa del profitto. Il tribunale di Larino, ha stabilito che a Termoli, per gli operai della Fiom, la Fiat debba applicare il contratto dei metalmeccanici del 2008. L’azienda torinese ha preso la palla al balzo per provare una nuova tattica: decurtare di 250 euro lo stipendio dei tesserati Fiom. L’ha fatto dicendo di aver «puntualmente eseguito quanto disposto dal tribunale di Larino. Eseguendo l’ordine del giudice, che stabilisce che ai lavoratori iscritti alla Fiom debba essere applicato il contratto collettivo del 2008 e non il contratto per il gruppo Fiat del 2011, l’azienda ha provveduto a calcolare le retribuzioni del mese di maggio». Naturalmente questa non è una giustificazione, ma solo una delle tante furbizie della Fiat. La Fiat, infatti, non ha affatto applicato la sentenza del giudice, della quale se ne frega come ogni azienda che si rispetti. Lo prova, tra le altre cose, il fatto che l’applicazione del Contratto del 2008 non pregiudica affatto il versamento delle integrazioni dei vecchi contratti aziendali, con cui Fiat s’è ripappata, oltre alle 100 euro circa del nuovo contratto di Fim e Uilm derogato, altre 150 euro firmate anche dalla Fiom. Molto più semplicemente la Fiat ha applicato la lotta di classe a un sindacato che invece vuole applicare soltanto la legge perché la lotta di classe non la fa o la fa male.
In questi ultimi due anni, l’idea di togliere i favolosi aumenti del Contratto di Fim e Uilm, è sempre stata l’arma dei delegati gialli nelle assemblee. Se sono contrari, quelli della Fiom – dicono i paladini dei contratti bidoni – perché non rinunciano a mettersi in tasca gli aumenti che gli abbiamo fatto avere? Apparentemente sensato, questo discorso, in realtà, non regge alla benché minima critica. Se applicassimo davvero, come un liberale qualunque, quella categoria demenzial-kantiana chiamata giustizia e non la lotta di classe, dovremmo chiedere i danni a Fim e Uilm. Secondo la loro giustizia, infatti, Fim e Uilm ci hanno regalato un aumento di 100 euro. Secondo la lotta di classe invece, non ci hanno regalato proprio niente per la semplice ragione che ci hanno svenduto ai padroni al di sotto del valore contrattato nel 2008.
Cerchiamo di chiarire nei dettagli l’intera questione.
Innanzitutto un Contratto Nazionale altro non è che la mediazione tra una domanda, quella dei lavoratori o dei loro rappresentanti, e l’offerta dei loro padroni. Già qui, Fim e Uilm, prima di chiederci di mollare i loro presunti aumenti, dovrebbero spiegarci, in quei 100 euro, quale quota rappresenta l’offerta padronale e quale la domanda operaia. Nel 2008, per due anni e mezzo di contratto, Federmeccanica offrì, se non erro, 70 euro. A occhio e croce quindi, Fim e Uilm con l’ultimo contratto triennale hanno al massimo racimolato 20 euro, perché 80 ce le ha messe la controparte. Ma la verità è che non hanno racimolato neanche 20 euro perché sono capitolate subito alla prima offerta padronale. Svendere sotto costo – citiamo per una volta Di Vittorio senza lodarlo troppo come vorrebbe la burocrazia da cui proviene – è sempre facile. E se proprio dobbiamo rinunciare a qualcosa, rinunciamo volentieri a quel che strappano Fim e Uilm rispetto alla loro domanda, non a quello che già i padroni sono disposti a darci con la loro offerta. Fim e Uilm prima di accusare noi della Fiom, dovrebbero conoscere l’abc della contrattazione.
Fatta la sottrazione dell’offerta padronale, però, non resta solo la domanda da calcolare. Per andare fino in fondo e valutare quanto dobbiamo eventualmente a Fim e Uilm, bisogna ancora contare quel che Fim e Uilm fanno finta che non esista, cioè quel che volgarmente viene detto costo del denaro, e che altro non è che l’inflazione. Se 100 euro di aumento salariale portato dalla bontà di Fim e Uilm non recuperano l’inflazione, in termini di potere di acquisto, cioè di potere del Lavoro sul Capitale, il salario del loro ultimo contratto separato diventa più basso in proporzione di quello firmato unitariamente nel 2008. Se quindi per uno strano concetto di giustizia si chiede a noi della Fiom di restituire gli aumenti, piovuti per altro come abbiamo visto al 90% dai padroni, è bene che per la stessa ragione Fim e Uilm ci restituiscano quel ci hanno tolto con l’inflazione. Nel cambio ci guadagneremmo molto più delle 100 euro che Fim e Uilm credono di aver portato a casa ma che non hanno portato affatto. E non potrebbe essere altrimenti, perché in effetti i padroni non offrono mai un aumento salariale, ma sempre e soltanto una sua decurtazione, anche se grazie proprio all’inflazione sono in grado di presentarla come un aumento. Fim e Uilm non se ne sono accorte, perché come tutti gli operai arretrati che rappresentano, si illudono che la paga possa aumentare senza far niente, grazie al loro genio di mercanti falliti, anziché alla forza bruta dei lavoratori in sciopero.
Le vanterie di Fim e Uilm per un aumento che è in realtà di fatto una decurtazione di salario, sono oltremodo dannose, non solo e non tanto per la parte economica, quanto per le illusioni che seminano nella classe operaia. La propaganda di Fim e Uilm porta l’operaio a credere che la paga possa alzarsi senza lotta, cosa che è storicamente impossibile. Invece di riflettere su come sia stato possibile aumentare la paga senza un’ora di sciopero, andando contro una legge implacabile della lotta di classe, il sindacalista di Fim e Uilm chiede il conto, in nome della Giustizia, a quello della Fiom per l’aumento immaginario che gli ha fatto avere. Totalmente ignorante la storia del movimento operaio, sganciato dal suo passato, non gli viene il dubbio che firmando senza un’ora di sciopero, ha firmato la decurtazione dello stipendio, non il suo aumento.
La decurtazione effettiva dell’ultimo contratto, ai padroni, è riuscita proprio imbrigliando la lotta di classe con la complicità delle loro due formazioni amiche. Se avessero puntato sulla giustizia, non ci sarebbero mai riusciti. Infatti, se la giustizia potesse sostituire la lotta di classe, noi saremmo ben lieti di poterla applicare. In effetti, cosa resterebbe nelle fabbriche del contratto di Fim e Uilm se applicassimo la giustizia? Resterebbe un accordo con non più del 10% dei metalmeccanici. Nei metalmeccanici, infatti, la Fiom copre tra il 50-60% dei tesserati che però rappresentano meno della metà dei lavoratori. Senza 100 euro di presunto aumento ma liberi dalle deroghe e dagli accordi Marchionne e con sempre la loro rappresentanza, i metalmeccanici avrebbero ancora il 90% della loro forza contrattuale da spendere. La Fiom, non ci metterebbe molto per usarla e portare a casa anche solo un 50% in più delle 100 euro strappate da Fim e Uilm, e senza svendere alcun diritto. Invece, è applicando a tutti accordi che han fatto solo con Fim e Uilm, cioè più o meno con sé stessi, che i padroni riescono a svalutare in partenza la forza contrattuale degli altri lavoratori. Certo, se la Fiom si mette a lottare fino in fondo, può lo stesso ribaltare la situazione. Se invece anche lei si perde nelle aule dei tribunali della giustizia, rischiando tra l’altro di trasformarsi da sindacato di fabbrica a un covo di avvocati e di azzeccagarbugli, allora la Fiat, oltre al normale danno che ci fa quando vince la lotta di classe, avrà buon gioco nel rincarare la dose, aggiungendo anche la beffa dell’applicazione di una personale interpretazione della sua stessa ingiustizia, che altro non è che l’ulteriore tassa che il padrone applica a chi non sa fare come si deve la lotta di classe. 


Stazione dei Celti
Domenica 9 Giugno 2012
Lorenzo Mortara
Delegato Fiom-Cgil

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