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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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giovedì 22 novembre 2012

Il declino tendenziale del saggio di profitto, di Riccardo Achilli




L’illustrazione di Marx

Il tema della legge marxiana della caduta tendenziale del saggio di profitto è, non a caso, insieme alla questione della trasformazione dei valori in prezzi, il più dibattuto e controverso della teoria del grande pensatore di Treviri. Non è un caso: dall'accettazione o confutazione di tale legge discende l'accettazione o confutazione dell'idea di una estinzione del capitalismo per via della sua stessa contraddizione interna fondamentale, ovvero la declinante capacità di valorizzare il capitale investito, fatto salvo, ovviamente, l’indiscutibile argomento per cui il capitalismo terminerà soltanto quando sorgerà la classe sociale che lo abbatterà.
Nei termini più semplificati possibili, Marx afferma che l'incremento continuo di investimento in macchinari e strumenti di produzione, mirato ad accrescere la produttività del lavoro, produce una tendenza alla caduta del tasso di profitto, anche quando ciò accresce il saggio del plusvalore. L'effetto depressivo derivante dall'incremento del capitale costante, infatti, più che compensa l'aumento del plusvalore. Formalmente:
-        sia q la composizione organica del capitale, ovvero q = Cc/Cv, dove Cc è il capitale costante, ovvero il valore-lavoro (lavoro morto) incorporato nella massa di macchinari e strumenti per la produzione, e Cv è il capitale variabile, ovvero il valore-lavoro necessario per la riproduzione della forza-lavoro (approssimabile con il monte-salari);
-        sia s il saggio del plusvalore, ovvero s = Pv/Cv, dove Pv è il plusvalore estratto dal capitalista;
-        sia p il saggio di profitto, ovvero p = Pv/(Cc + Cv).
Se dividiamo numeratore e denominatore del saggio di profitto per Cv, otteniamo:

p = s/(q + 1)

Pertanto, un incremento della composizione organica del capitale q, derivante da un investimento in nuovi macchinari di produzione, se superiore al conseguente incremento del saggio di plusvalore s, associato alla maggiore produttività dovuta al migliore equipaggiamento tecnico di produzione, comporta evidentemente una riduzione del valore del saggio di profitto p.
Tuttavia lo stesso Marx circonda di notevole circospezione tale legge, onde evitare irrealistici meccanicismi. Nel libro III del Capitale, infatti, viene detto che tale legge rappresenta una tendenza generale, cioè di lungo periodo, mentre nel breve operano “fattori contrastanti”, ed in particolare Marx ne cita sei (un più intenso sfruttamento del lavoro, che fa crescere oltremodo s, la riduzione dei salari al di sotto del valore di riproduzione della forza-lavoro, la riduzione del valore di elementi di capitale costante, una crescita dell'esercito industriale di riserva, il commercio estero, che può ridurre il costo degli input produttivi, l'aumento della condivisione del capitale, che ne trasferisce il costo su altri soggetti).

Nei sistemi capitalistici maturi: tendenziale declino del saggio di profitto nel lungo termine, e sua tendenziale stabilità nel breve e medio termine

In questo paragrafo, cercherò di dimostrare che esiste, in linea con le previsioni di Marx, una tendenza di lungo periodo del saggio di profitto a scendere. Tale tendenza viene frenata, e parzialmente contrastata, ma solo nel breve e medio periodo, dalla struttura produttiva stessa del capitalismo maturo, ovvero dalle sue caratteristiche oligopolistiche e finanziarizzate.
Purtroppo i dati statistici non aiutano: la ricostruzione omogenea dei profitti su serie storiche lunghe è molto difficile, gli stessi risentono di artifici contabili e fiscali messi in opera dalle imprese, la ricostruzione dello stock di capitale di un'economia nazionale presenta notevoli difficoltà, la composizione settoriale dell'economia influisce esogenamente, e per lunghi periodi, sul valore del profitto aggregato, ecc.
L'esercizio condotto da Perri (2010), tramite i dati Ocse, sembrerebbe evidenziare una tendenza al calo del saggio di profitto lordo, fra gli anni Sessanta ed oggi, per Italia, USA e Giappone, mentre per Francia e Germania l'andamento della curva è inconclusivo. Peraltro, poiché i salari sono a prezzi correnti e non costanti, il decremento del saggio di profitto calcolato da Perri potrebbe dipendere da un effetto inflazionistico sui salari. L'economista marxista Robert Brenner evidenzi, in modo molto più robusto,a un calo del tasso di profitto netto statunitense fra 1948 e 1999, dovuto esclusivamente al comparto manifatturiero, mentre il comparto non manifatturiero mostra un andamento stagnante del tasso di profitto (fig. 1). Per l'Italia, da una personale stima sui dati Istat, che utilizza il risultato lordo di gestione come proxy del profitto, evidenzio che il saggio lordo di profitto deflazionato segue un andamento effettivamente decrescente, con il valore che passa dall'11,3% nel 1970 al 6,6% nel 2009 (fig. 2). Ma tale discesa è in parte alimentata da componenti del risultato lordo di gestione, come le rendite, che sono strutturalmente in calo (anche se incidono marginalmente). I dati statistici, quindi,  sembrano supportare una tendenza di lungo periodo verso il calo tendenziale del tasso di profitto, ma è evidente che il suo ritmo è troppo lento per poter far pensare ad un crollo del capitalismo in un futuro prevedibile.

Fig. 1 – Andamento del saggio di profitto netto nel comparto 
manifatturiero e non manifatturiero ed extragricolo degli USA, 1948-1999

Fonte: Robert Brenner, 2002





Fig. 2 – Andamento del tasso di profitto lordo in Italia nel periodo 1970-2009

Fonte: mia elaborazione su dati Istat

La conseguenza operativa di tali evidenze è che il saggio di profitto declina, ma nel lungo periodo, mentre occorre considerare, nel medio termine, l'intuizione di Sweezy e della Mosszkowska relativa alla tendenza del saggio di profitto verso la stagnazione, più che verso la sua riduzione (ovviamente stiamo ragionando di medio periodo; nel lungo periodo, l’evidenza statistica è per la riduzione). Da un lato, infatti, l'incremento di produttività consentito dall'introduzione di innovazione tecnologica, e quindi dall'aumento di capitale costante, controbilancia la spinta a ridurre il tasso di profitto; dall'altro, l'aumento di produttività può anche ridurre il valore dei nuovi beni capitali introdotti, cosicché ad un aumento del volume fisico di capitale costante non corrisponde sempre, automaticamente, un aumento del suo valore per unità di lavoro e di prodotto, e quindi della composizione organica del capitale (che per l'appunto è in valore). 
Tali effetti moderano, anche se non eliminano, la tendenza verso la riduzione del tasso di profitto, rendendola molto lenta.  Contrariamente all'opinione di una parte degli economisti marxisti, per cui l'attuale fase di oligopolizzazione e trustificazione dell'economia, avviatasi dagli anni Cinquanta, porterebbe ad una accelerazione della caduta del saggio di profitto, in realtà la concentrazione oligopolistica del capitale è il rimedio contro la caduta del tasso di profitto perché, da un lato, come sottolineano Gillmann e Pietranera, tale fase ha consentito di ottenere innovazioni di processo a forte effetto incentivante sulla produttività, economie di scala e rafforzamento del potere contrattuale nei confronti del lavoro e dei fornitori di materie prime e semilavorati. D'altro lato, la trustificazione ha ridotto la concorrenza, stabilizzando il prezzo e quindi i profitti ed ha portato, come sottolinea Sweezy, a curve di domanda tendenzialmente di tipo angolare, tipiche di mercati oligopolistici, nelle quali il prezzo si stabilizza ad un livello pari al costo pieno, con oscillazioni poco rilevanti, perché se l'impresa, in presenza di curva di domanda angolare, cerca di ridurre significativamente il prezzo per aumentare la quota di mercato, viene immediatamente imitata dai concorrenti, senza quindi riuscire ad aumentare la sua quantità venduta. Se invece aumentasse il prezzo al di sopra del costo pieno in misura consistente, perderebbe immediatamente il suo mercato.
In tale situazione, poiché il prezzo di equilibrio è basato sul principio del costo pieno, nel breve e medio periodo il profitto tende a stabilizzarsi, a smorzare la sua caduta, poiché è fissato come mark-up del prezzo. Quindi, poiché il prezzo non può aumentare per via della curva di domanda ad angolo, la concorrenza oligopolistica si sposta sempre più sulla qualità finale del prodotto e sul controllo dei costi di produzione interni in rapporto alla produttività.
Tali fattori, sempre nell’immediato, tendono a stabilizzare, se non ad accrescere, il profitto complessivo del sistema produttivo, poiché la maggiore qualità giustifica una parziale uscita dalla condizione di “angolarità” della curva di domanda, aumentando il prezzo senza necessariamente pregiudicare il profitto delle imprese concorrenti (perché l'impresa che fa qualità si sposta su una nicchia di mercato non concorrenziale, un po' come la Mercedes che non fa concorrenza diretta alle berline della FIAT, perché i segmenti di consumatori sono diversi). D'altro canto, una riduzione dei costi di produzione interni rispetto alla produttività dei fattori consente di ottenere maggiori profitti a parità di fatturato e di quota di mercato, anche in questo caso, quindi, senza pregiudicare il profitto dei concorrenti.



Fig.3 – curva di domanda concorrenziale ed oligopolistica (angolare)
  

Infine, l'oligopolizzazione delle strutture produttive e di mercato è alla base della finanziarizzazione crescente del capitalismo che, a partire dagli anni Ottanta, contrasta il declino del saggio di profitto, tramite la realizzazione di profitto fittizio sui mercati finanziari. Infatti, la leva fondamentale per lo sviluppo della finanziarizzazione è data proprio dalla rendita da oligopolista, ovvero l'extra-profitto ottenibile dal maggiore potere di mercato e dalla riduzione della concorrenza che l'oligopolista spunta, rispetto ad una condizione di concorrenza perfetta. Inoltre le crescenti interrelazioni azionarie fra imprese industriali e banche, innescate dai processi di crescita dimensionale e concentrazione oligopolistica, facilita ulteriormente l'accesso ai mercati finanziari da parte delle società industriali. Non è un caso che l'esplosione dei profitti finanziari delle grandi imprese private si verifichi proprio a partire dagli anni Sessanta, quando la struttura oligopolistica dei mercati diviene evidente: la quota dei profitti finanziari sui profitti totali delle società private statunitensi passa dall'11% nel 1966 al 22% nel 1974. Nei vent'anni precedenti, tale quota era rimasta invece relativamente stabile (era infatti pari all'8% nel 1948). La crescita prosegue poi fino ad un picco del 45% nel 2002 per poi ridiscendere al 15% nel 2009, a causa dell'esplosione della bolla finanziaria (dati Bureau of Economic Analysis).
Però è innegabile che il capitalismo sia in una profonda crisi di sistema, non certo dentro una oscillazione ciclica. Il problema dell'analisi della crisi del capitalismo va quindi spostato, almeno in parte, verso valle, ovvero dalla tradizionale sfera marxiana della produzione verso quella della distribuzione. Con una struttura di mercato sempre più oligopolistica, in cui la concorrenza si sposta dai prezzi alla qualità ed al controllo del rapporto fra costi e produttività dei fattori di produzione, i profitti, per periodi brevi o medi di tempo, tendono a stabilizzarsi, ed anche a crescere, anche senza la necessaria presenza di accordi di cartello. Il potere di mercato sui fornitori di materie prime e sui lavoratori è accresciuto, è possibile effettuare grandi investimenti in innovazione che aumentano la produttività riducendo il valore unitario del capitale costante sul prodotto finale, quindi senza scaricarsi sull'aumento della composizione organica del capitale, mentre è possibile accedere a crescenti economie di scala ed a redditizi profitti da investimento finanziario.
Tra l'altro chi, come Samir Amin, fa notare che la concentrazione oligopolistica genera problemi di crescita del profitto complessivo perché deprime quello delle piccole e medie imprese, omette di considerare il fatto che la quota delle PMI nei processi di accumulazione, e quindi di generazione di profitto, è oramai sempre più marginale. In Italia, patria della piccola impresa, il valore aggiunto per impresa generato dalle piccole imprese extragricole è di circa 12 euro, contro un valore medio di 59 euro per ogni impresa medio-grande. Il 48% del valore aggiunto extragricolo italiano è generato dallo 0,6% delle imprese più grandi. Nelle altre economie capitalistiche a minor presenza di piccola impresa, tali dati sono ancora più sperequati.
Ovviamente, la sfera produttiva è quella che genera la caduta tendenziale del saggio di profitto nel lungo termine, e che si riscontra nelle evidenze statistiche sopra illustrate. Infatti, il profitto finanziario genera irrimediabilmente bolle causate da una distorsione fondamentale nella legge del valore, e quindi nei processi di accumulazione, e la struttura oligopolistica, da un lato irrigidisce la struttura produttiva, rendendola sempre meno capace di reagire a shock di domanda, d’altro lato contribuisce a propagare le crisi finanziarie all’intera struttura economica ed a tutti i Paesi, a causa delle molteplici interrelazioni societarie e produttive tipiche di un capitalismo oligopolistico, che costruisce veri e propri reticoli globali di relazioni. In sostanza, è la struttura “stabile” del capitalismo che porta, in tempi lunghi, al declino del saggio di profitto.

Dalla sfera della produzione a quella del realizzo

Nel medio termine, però, le tensioni più rilevanti sul saggio di profitto non si verificano nella sfera produttiva, ma in quella successiva del realizzo della produzione. Le oscillazioni negative, anche molto forti, che il saggio di profitto sperimenta nel breve periodo, al di là della sua tendenza declinante di lungo termine, possono essere spiegate quasi interamente dall’andamento della domanda effettiva, definita come sommatoria di consumi privati e pubblici, investimenti (anche qui privati e pubblici) ed esportazioni al netto delle importazioni. Un andamento particolarmente negativo della domanda effettiva può infatti controbilanciare le già analizzate spinte di breve e medio periodo alla stabilizzazione del saggio di profitto, derivanti dall’oligopolizzazione e finanziarizzazione dei sistemi produttivi. Un brusco calo della domanda effettiva, generato ad esempio da uno shock sui mercati finanziari che produce una contrazione del risparmio, della propensione al consumo, del credito bancario e quindi degli investimenti, può quindi controbilanciare gli effetti stabilizzanti di breve e medio periodo forniti dall’assetto del sistema produttivo.
Il problema centrale diventa quindi quello della domanda effettiva.  L'enorme surplus realizzatosi negli anni Sessanta dal capitalismo oligopolistico si riversa, già dagli anni Settanta, ed ancora più in seguito, nell'investimento finanziario, dando risposta alla famosa domanda posta da Sweezy e Baran, nel loro “Capitale Monopolistico”, ovvero “per che cosa spendere?”
La concentrazione del capitale e la sua finanziarizzazione, che sono aspetti strettamente legati fra loro, come detto in precedenza, comportano necessariamente un rallentamento della crescita della domanda effettiva, al di sotto del suo trend potenziale. La concentrazione oligopolistica deprime la domanda perché il modello concorrenziale che si sposta dal prezzo al controllo del rapporto fra costi e produttività tende a deprimere la crescita dei salari reali, in particolare in quelle economie, come l'Italia, in cui le condizioni strutturali del contesto produttivo (infrastrutture, capacità di ricerca ed innovazione, efficienza della P.A., rilevanza dell'economia sommersa ed illegale, livelli di formazione del capitale umano, ecc.) generano diseconomie esterne che abbattono la crescita della produttività. In Italia, il reddito reale per lavoratore dipendente cresce soltanto del 18,3% fra 1977 e 2009, mentre la produttività del lavoro cresce del 48,9%, con una riduzione di reddito rispetto all'apporto produttivo fornito di oltre 15 punti percentuali. E' evidente che la maggiore ricchezza prodotta tramite l'incremento della produttività non trova riscontro in una crescita parallela dei redditi, quindi della capacità di consumare ed assorbire tale ricchezza prodotta, generando strutturalmente una problema crescente di crisi da realizzo. 
Tale crisi viene affrontata mediante lo sbocco delle esportazioni (infatti la nostra è un'economia fortemente orientata all'export) ma tale situazione trova, prima o poi, un limite nel fatto che il divario fra crescita della produttività e dei redditi da lavoro riguarda tutti i sistemi capitalistici, non solo il nostro, e quindi ad un certo punto diviene impossibile dare sfogo alla sovrapproduzione nazionale sui mercati esteri. Il costo del lavoro per unità di prodotto, in termini reali, scende, fra 2001 e 2011, da 0,68 a 0,637 negli USA,  da 0,717 a 0,683 in Germania, da 0,69 a 0,689 in Francia, da 0,694 a 0,614 in Spagna, da 0,663 a 0,594 in Giappone (dati Ocse), come effetto del divario crescente fra produttività e reddito reale, fenomeno che riguarda quindi tutti i Paesi capitalisti, e non solo il nostro, e che quindi tende ad estendere all'intero capitalismo globale la crescente condizione di sovrapproduzione come differenza crescente fra ricchezza prodotta e redditi percepiti dai produttori (solo che ovviamente, in termini assoluti e non relativi, i redditi crescono di più dove la produttività cresce maggiormente, ceteris paribus).
E' chiaro che quando la sovrapproduzione è estesa a tutti i Paesi capitalisti maturi, anche lo sfogo dell'export diventa meno rilevante. Nel momento in cui uno shock esogeno (come una bolla finanziaria) abbatte una domanda effettiva la cui crescita è già limitata, nell’ambito della condizione strutturale di sovrapproduzione, il saggio di profitto tracolla anche nel breve periodo.

Fig. 4 – Andamento della produttività e del reddito del lavoro in termini reali, fra 1977 e 2011

Fonte: mia elaborazione su dati Istat



Conclusione

L’analisi sin qui condotta conduce a ritenere che esista, in linea con le previsioni di Marx, una tendenza di lungo periodo del saggio di profitto a scendere, basata, ancor una volta secondo la teoria marxiana, sulle contraddizioni in sede di struttura produttiva. Tale tendenza viene frenata, e parzialmente contrastata, nel breve e medio periodo, dalla struttura produttiva stessa del capitalismo maturo, ma al costo di generare condizioni sistemiche di sovrapproduzione, che esplodono in vere e proprie recessioni, nel momento in cui uno shock esogeno colpisce una domanda effettiva già di per più bassa del suo livello potenziale. Pertanto, mentre il declino del saggio di profitto nel lungo periodo è spiegabile con le tradizionali spiegazioni marxiane di tipo produttivo, le sue oscillazioni nel medio periodo sono spiegabili dall’andamento della domanda effettiva.
Da tutte queste considerazioni, ne conseguono a mio avviso alcune indicazioni operative:
1)   nel medio termine, il capitalismo reagirà all’attuale recessione operando un cambiamento delle sue caratteristiche, come ne ha operati altri in passato, imperniato sulle seguenti direttrici:
- nei Paesi capitalistici maturi, macelleria sociale sui salari e la domanda, accompagnato da una forte spinta verso una maggiore produttività dei fattori rispetto al loro costo, perché la configurazione oligopolistica assunta in tali capitalismi maturi impedisce, come si è visto, la concorrenza di prezzo, ed implica, come unico strumento di ripristino di una profittabilità minima, la compressione dei costi dei fattori rispetto alla loro produttività. Ciò a sua volta implica, per tenere sotto controllo le conseguenti reazioni sociali, derive autoritarie e tecnocratiche che progressivamente estinguono i nostri sistemi democratici tradizionali, per sostituirli con una soft dictatorship;
- sviluppo dei capitalismi emergenti, per ricostruire in tali Paesi i bacini di domanda atti a ricostituire un incremento di domanda effettiva che riduca la condizione di sovrapproduzione sistemica, il che, come ben dice Amin, corrisponde ad una lentissima uccisione degli Stati Uniti da parte della Cina, ed al sorgere, molto lento e progressivo, di un nuovo ordine monetario, commerciale e politico mondiale, oltre che ad una nuova divisione internazionale del lavoro, in cui l'industria si sposterà dai capitalismi maturi a quelli emergenti;
- ricostruzione delle condizioni per rigenerare il profitto finanziario, come stabilizzatore della caduta del profitto reale, il che implica ancora una volta la macelleria sociale nei nostri Paesi maturi, poiché la speculazione finanziaria richiede la stabilità di parametri come i prezzi, i tassi di cambio, i tassi di interesse, e ciò può essere ottenuto soltanto in economie in cui il debito è sotto controllo, non vi sono tensioni inflazionistiche, ecc. Ciò implica anche una costante riduzione del ruolo dello Stato nell'economia e nella società, perché il laissez-faire e l'assenza di regolamentazione sono il bacino ideale entro il quale sguazza la speculazione finanziaria globale.
2)      In queste condizioni, occorre ricostruire una opposizione politica e sociale che sia il più inclusiva possibile di tutte le componenti della tradizione della sinistra, e senza pregiudiziali. Non posso essere d'accordo con le posizioni di Samir Amin e in generale del marxismo più ortodosso, secondo cui la tradizione socialdemocratica sarebbe obsoleta. Ha delle responsabilità gravi per la sua involuzione blairiana e social-liberista, ma non è vero che la socialdemocrazia, nella sua forma più radicale, vada abbandonata, poiché la sua tradizione più sana va recuperata. Se, come detto sopra, il capitalismo genera condizioni sistemiche di sovrapproduzione, e la sua finanziarizzazione e liberalizzazione riducono il ruolo dello Stato nell’economia, allora il Socialismo del XXI Secolo, se vuole proporre un modello diverso, deve riappropriarsi di concetti socialdemocratici come la programmazione pubblica, la nazionalizzazione delle imprese strategiche, il sostegno alla domanda effettiva. Se la ristrutturazione del capitalismo in crisi porta a forme di dittatura tecnocratica, occorre lavorare per la democrazia dal basso, il che significa coinvolgere, a livello progettuale, la società, e le sue forme spontanee di associazionismo, e ricostruire meccanismi di democrazia economica dal basso, di compartecipazione dei lavoratori alle scelte aziendali, di progressiva socializzazione della produzione, di cooperativismo. Questo significa che la lotta di piazza e di movimento non può non accompagnarsi anche ad una lotta dentro le stesse istituzioni democratiche borghesi, in primis nel tentativo di preservarle da uno svuotamento definitivo delle loro sia pur modestissime capacità di rappresentanza e garanzia dei diritti politici;
3)      Occorre rifuggere da forme di nazionalismo, non perché il nazionalismo sia di per sé brutto, o evochi chissà quali scenari catastrofici, ma semplicemente perché la ristrutturazione del capitalismo per uscire dalla crisi è globale, non nazionale; i centri decisionali che stanno operando per portare a termine questo doloroso processo di ricostruzione prescindono dalle frontiere nazionali. Occorre che il panorama dell'azione politica mirata ad imporre un paradigma economico e sociale nuovo sia internazionale, altrimenti rischieremmo di combattere contro i centri di potere globali dal provincialismo delle nostre piccole frontiere. L'Europa, per noi, deve essere un traguardo, non una cosa da abbandonare. Deve essere profondamente trasformata rispetto alla sovrastruttura burocratica e dirigista attuale, che lavora solo per opprimere i popoli, deve essere resa un'Europa democratica e popolare, ma rifugiandoci dietro le frontiere nazionali non faremmo altro che dividerci, e fare lotte fra poveri. Se il baricentro del potere economico si sposta dall'Europa, che dovrà soltanto impoverirsi sempre più, è necessario che l'Europa resista, unitariamente, contro tale destino;
4)      occorre un forte orientamento antimperialista, occorre un modello di sviluppo armonioso e collaborativo, non competitivo, che guardi alle speranze di sviluppo e democrazia del Sud del mondo come se fossero le nostre stesse speranze di liberarci da un destino che ci si sta preparando e che, veramente, non è affatto bello;
5)      ad ogni modo la tendenza al declino del tasso di profitto, nel lungo periodo, è evidente. La transizione da un modo di produzione ad un altro è però un fatto che, nella sua fase iniziale e pre-rivoluzionaria, dipende dal progressivo emergere di elementi “in fieri” del nuovo modo di produzione all’interno di quello esistente. Il modo di produzione schiavistico iniziò ad essere superato nel momento in cui, a partire dal III Secolo, il sistema del colonato pose le basi per il modo di produzione feudale, creando la servitù della gleba, il radicamento sulla terra, le prime forme di gerarchia feudale. Il feudalesimo iniziò ad essere superato quando l’economia mercantile, stimolata dalla colonizzazione, generò le prime forme di accumulazione originaria. Poi naturalmente arrivarono i salti rivoluzionari veri e propri, che però si verificarono quando le condizioni erano oramai mature. Questo significa che un programma economico di sinistra non può che stimolare la realizzazione di forme e modi di produzione diversi da quelli capitalistici, anche mediante esperimenti dal basso. Se il capitalismo assume forme oligopolistiche e finanziarizzate, allora occorre lavorare sull’autogestione dal basso, sul cooperativismo dei piccoli produttori autonomi che producono per sé stessi o per forme eque e solidali di scambio.

PERCHÈ VENDOLA PUÒ SOLO PERDERE di Norberto Fragiacomo



PERCHE’ VENDOLA PUO’ SOLO PERDERE
di
Norberto Fragiacomo


La nostra ipotesi/auspicio, espressa un paio di settimane fa, si è rivelata poco realistica: Nichi Vendola non lascia, semmai raddoppia, e tanto vale prenderne atto.
Intervistato dall’incalzante Lucia Annunziata, il presidente pugliese ha ribadito le sue dure critiche al montismo e si è detto sicuro di poter rappresentare la sorpresa delle primarie, vincendole. Ne è davvero persuaso? Non sapremmo rispondere: in fondo, la prima sfida contro Francesco Boccia (per la candidatura pugliese) sembrava persa in partenza, e nella seconda – conclusasi con un plebiscito a favore di Nichi – i due candidati erano dati alla pari dai media più influenti. In teoria, il carisma del leader di SeL potrebbe funzionare ancora, e regalargli un clamoroso trionfo – solo in teoria, però, perché l’inarrestabile ascesa di Grillo e soprattutto l’avvento di Mario Monti hanno radicalmente mutato lo sfondo su cui ai protagonisti (o sedicenti tali) tocca muoversi. Ancora un anno e mezzo fa Nichi incarnava, per l’elettorato di sinistra, il nuovo della politica, ed era idolatrato come una popstar: le feste del suo partito (chi scrive ne rammenta una a Padova) erano affollate di giovanissimi, e i tesserati crescevano come funghi dopo un acquazzone autunnale.

Purtroppo non si vive di pane e poesia: in una situazione nazionale sempre più ingarbugliata, la narrazione fu oscurata dai tatticismi, la bussola impazzì e subentrò la disillusione. Prima il progetto di creare una nuova Sinistra di massa, poi l’OPA ostile sul PD (attraverso lo strumento delle primarie), infine l’affiancamento a quest’ultimo: costretto a giocare di rimessa, sempre più in affanno, Vendola spariva dai balconi televisivi, su cui si affacciavano personaggi nuovi, più “arrabbiati”, in apparenza più innovatori – il ciclone Grillo, Renzi il rottamatore -, o figure rassicuranti di salvatori della patria (il duo Monti-Napolitano, con il loro codazzo di banchieri in aspettativa e baciapile vaticani). Dopo una lunghissima attesa, le primarie sono finalmente arrivate; ma sono arrivate tardi, troppo tardi per consentire a Nichi Vendola di fare tris: oltretutto, quella del 25 novembre-2 dicembre è una competizione a misura di PD [1], con gli elettori chiamati a scegliere il politico più adatto ad attuare un programma centrista e – nei fatti – montiano. La Carta d’intenti assomiglia al cerchio magico di un racconto gotico di Gogol: chi si azzardasse a uscirne sarebbe condannato a morte (politica) certa, non solo per la presenza di forze acquattate “nell’ombra” e pronte a dilaniarlo, ma per l’esplicita previsione – contenuta nel documento sottoscritto da tutti i candidati – che le decisioni politiche più importanti saranno demandate, in caso di successo elettorale del centrosinistra, non al candidato premier bensì ai gruppi parlamentari, egemonizzati dal PD, che in termini elettorali vale sei volte Sinistra Ecologia Libertà.

Questo comporta che se, contro ogni pronostico, Nichi facesse l’impresa sarebbe condannato al ruolo ingrato di re travicello: tutte le sue belle e condivisibili parole resterebbero inevitabilmente lettera morta, visto che renziani, centristi e bersaniani (Fassina compreso) sono d’accordo nel conservare fiscal compact, taglio alle pensioni, controriforma del lavoro ecc.
Nell’Italia sotto scacco spread la strategia dell’entrismo non paga, specie se si sceglie, come “organismo ospite”, un partito nient’affatto autonomo, bensì condizionato da istituzioni – nazionali e internazionali – cui niente sfugge: l’idea del cavallo di Troia si rivela vincente solo perché i troiani, ubriacati dagli dei, accolgono il catafalco in casa, e poi si assopiscono in massa. Le manovre sulla legge elettorale, ma specialmente l’avvertimento kuwaitiano di Mario Monti (“non garantisco per l’Italia dopo le elezioni”) ed il successivo monito di Napolitano (“chiunque vada al governo dovrà proseguire sulla strada del rigore”) certificano che il potere non dorme: attende ogni ipotetico avversario a piè fermo.
Dopo aver disdegnato una ritirata strategica (verso sinistra), il condottiero Vendola prova a galvanizzare se stesso e i suoi, levando alto il grido di battaglia – ma supponiamo sappia che i nemici non sono alla sua portata.
La nostra personalissima (ed opinabilissima) impressione è che il leader di SeL non abbia compreso fino in fondo la portata della “rivoluzione” montiana [2], che ha prodotto la messa sotto tutela del Paese, delle sue istituzioni e delle sue forze politiche. Al principio dello scorso anno, quando lui chiedeva a gran voce le primarie, convinto (probabilmente non a torto) di potersele aggiudicare, la nozione di spread era nota solo agli economisti, Berlusconi sembrava spadroneggiare e la crisi era un rumore di fondo. E’ stato sufficiente un colpo di ariete economico – nell’estate 2011 – perché la casa di paglia crollasse, seppellendo inquilini che parevano inamovibili: finalmente abbiamo visto in faccia il vero nemico, una piovra internazionale senza volto (perché ne ha tantissimi) a paragone della quale il satrapo di Arcore è un arzillo, pittoresco vecchietto. Chi controlla i mercati ha decretato la messa in liquidazione della c.d. azienda Italia, ed ha affidato a Monti e a uno stuolo di seguaci il ruolo di commissari – con un mandato che (lo scrivevamo già a novembre 2011) prevede la svendita dello Stato, la privatizzazione del welfare, l’asservimento delle masse lavoratrici, l’immiserimento diffuso ed ovviamente nessuna patrimoniale. Nella sua opera di pseudo risanamento, che ha fruttato al Paese il crollo del PIL ed un sensibile incremento del debito pubblico, l’esecutivo Monti si è avvalso dei servizi del Partito Democratico – quello stesso partito che, secondo Vendola, dovrebbe aiutarlo nel 2013 a rimettere le cose a posto, ripristinando protezioni e diritti! Qui non si tratta di essere più o meno ottimisti, ma di scambiare il sogno (o la propria narrazione) per la realtà.

Invece che accostarsi ad un’ala (quella fintamente “di sinistra”) dello schieramento napolitan-montiano, Nichi Vendola avrebbe dovuto rivedere i propri piani, e tornare al progetto iniziale, quello di dar vita ad una sinistra radicalmente antiliberista, propositiva e di governo. Affermare che non esistevano spazi è ridicolo: i risultati conseguiti da Beppe Grillo (e non solo nei sondaggi: in elezioni vere!) provano che un’ampia fetta di cittadini italiani si oppone al rigore a senso unico ed all’istituzionalizzazione dell’ingiustizia sociale. Inoltre, la dura repressione poliziesca delle più recenti manifestazioni di lavoratori e studenti testimonia che il potere paventa un’escalation della protesta sociale, e intende soffocarla sul nascere.

Sussistono oggi le condizioni obiettive per la nascita di una forza anticapitalista di massa, che raggruppi forze politiche (PRC, ALBA, Lista dei sindaci, LdS ecc.), sindacali (USB, Cobas, si spera la FIOM) e movimenti di protesta (disoccupati, studenti, No Tav, No Debito…). Questa nuova formazione, o federazione, deve ottenere il suo riconoscimento in piazza e dalla piazza [3], amalgamando gruppi di cittadini atterriti o insoddisfatti e dando loro una prospettiva che non può essere limitata all’ambito nazionale. Da questo punto di vista, lo sciopero europeo del 14 novembre rappresenta un piccolo passo nella direzione giusta.
E’ chiaro che per crescere la protesta dovrà essere civile e democratica, ma è ugualmente chiaro che chi scende in piazza dovrà poterlo fare serenamente, sentendosi garantito e protetto da aggressioni violente di qualsiasi natura e provenienza: pestaggi come quelli di Roma e di Brescia non sono assolutamente tollerabili.
In questo schema non c’è posto per tricicli in affitto: nessuna alleanza, nessuna vicinanza, nessun appoggio indiretto è possibile a chi candida personaggi (Tabacci, tanto per fare un nome) che, in perfetta malafede, ripetono in tv il messaggio psyops “abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità”.
Nichi Vendola ha smarrito il sentiero, finendo nelle sabbie mobili del centrismo: l’unica, teorica via d’uscita per lui sarebbe imporsi alle primarie, indi battere il pugno sul tavolo, chiedendo al PD la completa riscrittura della carta e, subito l’inevitabile rifiuto, abbandonare la coalizione, portandosi dietro gli elettori conquistati sul campo – una mission impossible che scoraggerebbe Tom Cruise.

In sostanza, l’esito delle primarie non ci riguarda affatto: chiunque si affermi – a quelle del PD così come a quelle caricaturali, quasi dadaiste del PdL – sarà un montiano di complemento.
Con lui la sinistra e, nello specifico, la Lega dei Socialisti non devono avere nulla a che spartire, né oggi né mai: le lusinghe dei democratici sono come quelle del diavolo, conducono alla dannazione, cioè ad un precariato vita natural durante, che non riguarderà solo i contratti di lavoro.


[1] Non a caso, alcuni commentatori (ad es. Vianello) le definiscono sic et simpliciter “primarie del PD”.
[2] Si noti: stiamo dando per scontata la sua buona fede…
[3] Anche attraverso la raccolta di firme per i referendum contro le “riforme” montiane, promossi da varie forze politiche e sindacali di sinistra, tra cui SeL.

 

martedì 20 novembre 2012

14 NOVEMBRE: FIASCO A POMIGLIANO PER LA FIOM?



14 NOVEMBRE: FIASCO A POMIGLIANO PER LA FIOM?
-Vita di delegato V-


di Lorenzo Mortara
RSU Fiom-Cgil



Le colonne della stampa (vedi articolo fotografato sotto) hanno subito sottolineato il fiasco della Fiom nello sciopero del 14 Novembre a Pomigliano, ignorato a loro dire dai lavoratori dell’ex Fabbrica Italia. Qualche lavoratore si è subito premurato di farcelo sapere appendendo nella nostra bacheca sindacale l’articolo appena citato. Di regola, la stampa in generale non fa testo, figuriamoci La Stampa degli Agnelli, cioè dei servi quotidiani dei padroni della FIAT. Prendere quel giornale come punto di riferimento, è come basarsi sulla testimonianza di Giraudo per dedurre l’innocenza di Moggi. Non è dai padroni e dai pennivendoli al loro servizio che bisogna informarsi sulla riuscita dei nostri scioperi, ma dai lavoratori stessi. Pomigliano non ignora affatto lo sciopero della Fiom, come titola La Stampa, chi lo vorrebbe ignorare indipendentemente dalla riuscita sono i padroni di Pomigliano, perché degli scioperi hanno paura anche solo a nominarli. Da questo punto di vista lo sciopero a Pomigliano, come qualunque altro sciopero, è perfettamente riuscito. Quand’anche però lo scribacchino dica il vero (e tanto lontano dal vero non è) non c’è da stupirsi: del 50% dei lavoratori che Marchionne ha messo in cassa integrazione, c’è tutto il fior fiore della Fiom, i lavoratori più coscienti e combattivi di tutti i metalmeccanici. A lavorare a Pomigliano sono rimasti crumiri, mezze cartucce e altri meritevoli aspiranti schiavi. Anche nel 1980, dopo la storica sconfitta ad opera dei 40˙000 marcianti ai piedi dell’Avvocato, alla Fiat non si mosse operaio per anni, perché il precedente Marchionne, e cioè Romiti, quello che oggi, per via di alcune sue melense dichiarazioni fuori luogo e fuori tempo massimo, la solita, insopportabile intellighenzia di corte “a sinistra”, fa passare come l’antitesi all’uomo col maglioncino, fece fuori, proprio come il suo successore, tutta la vecchia guardia della Fiom, che allora era nascosta sotto il manto dell’FLM, ma non tanto da non dare nell’occhio lo stesso, ed essere riconosciuta dal vecchio satrapo. Tuttavia, anche se a Pomigliano sono rimasti i lavoratori più deboli e impauriti, un crumiro non è mai crumiro per sempre. Il crumiro di ieri, assunto oggi come schiavo a Pomigliano, sarà il ribelle di domani che imparerà sulla sua pelle a scioperare e a spezzare le catene. Bisogna solo dargli il tempo di fare l’esperienza che gli manca. E noi gliela daremo, e quando sarà pronto saremo lì per aiutarlo. Speriamo, per allora, di trovarci anche gli attacchini che si felicitano quando gli scioperi falliscono, perché in caso contrario, non ci saranno più notizie da appendere, e gli attacchini dovranno passare direttamente ai manifesti funebri, e il primo sarà il loro. Ho buone ragioni di credere che tutto ciò non accadrà. Nel 1980, infatti, eravamo un movimento operaio in fase discendente, ora siamo in un periodo di ascesa, anche se i filistei ancora non se ne sono accorti. Anche perché la Fiom che dovrebbe accelerare i tempi, negli ultimi sta facendo il possibile per ritardarli più di quanto già non ci abbiamo fatto aspettare. E li aspetteremo ancora per un po’ finché la Fiom starà alla coda della Camusso nelle piazze e siederà ai banchetti referendari in compagnia dei forcaioli dell’italietta dei plusvalori e degli eroi di Stalinismo, Inquinamento e Libero commercio. E se fiasco c’è stato il 14, il fiasco è quello e solo quello. Perché per quanto la Fiom la stia ritardando con i suoi tentennamenti, la Storia è di nuovo in marcia, e chi vede nel fiasco dello sciopero a Pomigliano la prova dell’adesione dei lavoratori al Progetto Marchionne, non ha ancora capito un tubo di lotta di classe. Le condizioni a Pomigliano sono così terribili che gli operai sanno bene che nessun sciopero simbolico di 4 ore può riuscire. Perciò il 14 Novembre hanno conservato le energie. Lo sciopero mancato a Pomigliano non indica affatto la resa degli operai, al contrario è il simbolo della rincorsa che stanno prendendo per la loro imminente riscossa.


Stazione dei Celti
20 Novembre 2012


domenica 18 novembre 2012

LA FONDAMENTALE DIFFERENZA TRA EBRAISMO E SIONISMO a cura di Giuseppe Angiuli




LA FONDAMENTALE DIFFERENZA TRA EBRAISMO E SIONISMO
a cura di Giuseppe Angiuli

In questa lettera aperta rivolta a Giorgio Napolitano, scritta qualche anno fa, il compianto prof. Mauro Manno, studioso del sionismo e della storia di Israele, cercava di criticare alla radice un discutibilissimo intervento del Presidente della Repubblica, che aveva osato bollare di "anti-semitismo" qualsiasi critica rivolta all'ideologia politica del sionismo storico.
E' importante rileggerla a qualche anno di distanza, per cercare di non farsi confondere da messaggi che tendono a sovrapporre 2 concetti alquanto distinti: quello di EBRAISMO e quello di SIONISMO.
L'intervento di Manno è estremamente meticoloso e ben motivato e porta alla luce uno degli aspetti meno conosciuti della storia del sionismo, ossia la sua convergenza, in certi frangenti, con il nazismo ed il fascismo.
In fondo, sia i nazisti che i sionisti muovevano entrambi da una medesima nozione "etnica" di ebraismo e dunque lavoravano per un obiettivo convergente: sradicare gli ebrei dall'Europa e confinarli in un unico Stato etnocratico "per soli ebrei", ciò che in fondo è diventato oggi Israele.

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Lettera aperta al Presidente della Repubblica Italiana

Signor Presidente,
Da quanto leggo su televideo lei avrebbe dichiarato:
“No all’antisemitismo anche quando esso si travesta da antisionismo”.
Antisionismo significa negazione della fonte ispiratrice dello stato ebraico, delle ragioni della sua nascita, ieri, e della sua sicurezza oggi, al di là dei governi che si alternano nella guida di Israele”.
Se questo è realmente il suo pensiero, e naturalmente mi auguro che non lo sia, mi lasci dire che queste sono affermazioni errate e gravi e mi auguro che suscitino, da parte di numerosi italiani, una reazione calma e ragionata ma ferma.


Signor Presidente,
mi consenta di dissentire dalla prima frase da lei pronunciata. Lei sostiene che l’opposizione al sionismo è antisemitismo mascherato. Né si può pensare che Lei abbia voluto dire che solo alcuni antisemiti nascondono il loro antisemitismo reale dietro un preteso o falso antisionismo. Lei ha formulato il suo pensiero in modo inequivocabile: per Lei chi è antisionista è antisemita sic et simpliciter.

Io sono d’accordo con lei che l’antisionismo è la “negazione della fonte ispiratrice dello stato ebraico e delle ragioni della sua nascita” ma sostengo con decisione che la negazione delle ragioni della nascita dello Stato ebraico e la sua sostituzione con uno Stato democratico unico di ebrei e palestinesi su tutta la Palestina non potrà che arrecare bene agli ebrei, ai palestinesi, ai popoli mediorientali e del mondo intero. Ritengo, e non sono l’unico visto che molti ebrei antisionisti sono dello stesso avviso, che lo Stato sionista per soli ebrei è uno Stato razzista, coloniale e espansionista, non diversamente da quello che era lo Stato razzista per soli bianchi del Sud Africa. La natura sionista di Israele è una minaccia per la pace mondiale e per gli stessi ebrei.

Signor Presidente,
Un testo fondamentale
per comprendere le radici
del conflitto israelo-palestinese,
scritto da Ilan Pappè,
un docente ebreo, poi espulso
dal mondo accademico israeliano
non sono un negazionista dell’Olocausto e non nutro sentimenti anti-ebraici. Desidero solo che gli ebrei in Palestina non neghino ai palestinesi un diritto che rivendicano per sé. I palestinesi, profughi e residenti in Israele o nei territori occupati, hanno diritto a vivere in Palestina in pace e in armonia, godendo delle libertà democratiche che tutti i popoli del mondo meritano. Questo principio che noi non neghiamo agli ebrei di Palestina, Israele lo nega ai palestinesi.
Lei forse è favorevole agli stati etnici? Mi sembrava di aver capito che Lei e il partito da cui proviene eravate favorevoli agli Stati democratici in cui tutti i cittadini sono uguali indipendentemente dalla religione, dall’etnia, dalla cultura o altro, a cui appartengono. Forse mi sono sbagliato. Non capisco perché l’Italia e l’UE si sono impegnati per l’uguaglianza dei diritti tra bianchi e neri in Sud Africa, o si impegnano oggi per l’uguaglianza e la convivenza tra serbi e cossovari in Kossovo, tra macedoni e albanesi in Macedonia, tra musulmani, ortodossi e cristiani in Bosnia, tra sciiti, sunniti e cristiani in Libano e poi sostengano il carattere esclusivamente ebraico di Israele?

Forse Olmert ha chiesto anche a Lei, come ha fatto con il Signor Prodi, di difendere Israele in quanto Stato esclusivamente ebraico e sionista?
Se questo è il suo pensiero, voglio chiederLe:
- se Israele decidesse di deportare i cittadini israeliani non ebrei, come chiede da tempo il ministro razzista Avigdor Lieberman, Lei appoggerebbe questa politica in nome della difesa del carattere ebraico dello Stato israeliano?
- ignora Lei forse che i cittadini non ebrei d’Israele non hanno gli stessi diritti degli ebrei?
Non sa forse che è proibito per legge ad un cittadino israeliano non ebreo di acquistare proprietà terriere da un ebreo? Ignora forse che esistono strade che collegano Israele alle colonie nei territori occupati su cui non possono circolare (non i palestinesi dei territori occupati, questo tutti lo sanno) ma i cittadini arabi di Israele? Le ricordo, inter alia, anche che è negato il ricongiungimento al coniuge ad un cittadino arabo d’Israele se questo coniuge proviene dai territori occupati. Spero che Lei sia informato sulla proposta di legge nella Knesset che prevede di togliere la nazionalità israeliana ad un cittadino arabo d’Israele se costui non dichiara fedeltà al sionismo. Si renderà conto che questo corrisponde a volere l’accettazione dell’ingiustizia storica che il sionismo ha fatto ai palestinesi da parte delle stesse vittime dell’ingiustizia.
- Non ritiene che portare quegli ebrei (per fortuna non sono tutti gli ebrei) che sostengono Israele a liberarsi di una forma statale che discrimina i cittadini non ebrei, che impianta colonie su territori fuori dai suoi confini, che conduce una guerra contro una popolazione occupata e indifesa, che possiede armi nucleari e non aderisce al trattato di non proliferazione nucleare e all’AIEA, che è stata condannata mille volte nell’ambito dell’ONU, non equivalga ad un bene per loro e per i palestinesi?
- e infine l’ultima domanda: se l’Italia (che lo ha già fatto nel passato) dovesse attuare una politica discriminatoria verso i suoi cittadini ebrei come Israele discrimina i suoi cittadini non ebrei e dovesse riprendere, malauguratamente, una politica coloniale, Lei non riprenderebbe la lotta contro il regime o il governo che così si comportasse?
Allora perché non si può combattere un regime, quello sionista, che è discriminatorio, razzista e colonialista?
Nessuno sta proponendo un nuovo olocausto ebraico, gli antisionisti vogliono solo uno Stato non confessionale, non etnico, non razzista in Palestina, per gli ebrei e per i palestinesi.
Non diversamente da quello che sono tutti gli stati autenticamente democratici nel mondo.

"L'asse Roma-Berlino-Tel Aviv":
un libro scottante che rivela
le convergenze che ci furono
per un periodo tra il nascente
movimento sionista,
il fascismo e il nazismo
Signor Presidente,
si dà il caso che sono uno studioso del sionismo. É quindi sulla base dei miei studi di questa ideologia politica che Le scrivo.
Le ricordo alcuni fatti:
Primo tra tutti la collaborazione dei sionisti (di destra e di sinistra) con gli antisemiti, con il fascismo e il nazismo.
Si è trattato di una collaborazione lunga ed estremamente dannosa per gli ebrei non sionisti (che allora erano la stragrande maggioranza). Per quanto ciò possa apparire incredibile, la collaborazione dei sionisti con i fascisti, i nazisti e gli antisemiti, storicamente documentata, si fondava su una logica di scambio criminale a danno degli ebrei. I sionisti hanno appoggiato i regimi fascisti e antisemiti prima e durante la seconda guerra mondiale, chiedendo in cambio di permettere loro di portare gli ebrei in Palestina per realizzare il loro progetto coloniale.
Gli ebrei che non accettavano di emigrare in Palestina sono stati abbandonati al loro destino. Gli antisemiti erano ben contenti di liberarsi degli ebrei in questo modo.
Non è vero che gli antisemiti sono antisionisti come lei sostiene ma è vero proprio il contrario.
Non metterà in dubbio, spero, le parole dello scrittore israeliano Yehoshua che qualche anno fa ha dichiarato: “I gentili hanno sempre incoraggiato il sionismo, sperando che li avrebbe aiutati a liberarsi degli ebrei che vivevano tra di loro. Anche oggi, in una maniera perversa, un vero antisemita deve essere un sionista”.
Lo scrittore israeliano dimentica però di dire che anche i sionisti, in maniera perversa, hanno incoraggiato gli antisemiti affinché allontanassero gli ebrei dai loro paesi e li consegnassero agli attivisti sionisti pronti a portarli nelle colonie in Palestina. Un vero sionista è un amico degli antisemiti.
Questo aspetto vergognoso della storia del sionismo inizia con il suo stesso fondatore, Theodor Herzl. Nell’agosto del 1903, Herzl si recò nella Russia zarista per una serie di incontri con il Conte von Plehve, ministro antisemita dello Zar Nicola II e Witte, ministro delle finanze. Gli incontri avvennero meno di 4 mesi dopo l’orrendo pogrom di Kishinev, di cui era direttamente responsabile von Plehve. Herzl propose un’alleanza, basata sul comune desiderio di far uscire la maggior parte degli ebrei russi dalla Russia e, a più breve termine, allontanare gli ebrei russi dal movimento socialista e comunista. All’inizio del primo incontro (8 agosto) von Plehve dichiarò che egli si considerava “un ardente sostenitore del sionismo”. Quando Herzl cominciò a descrivere lo scopo del sionismo, il Conte lo interruppe affermando: “Predicate a un convertito”.
In un successivo incontro con Witte, il fondatore del sionismo si sentì dichiarare apertamente: “Avevo l’abitudine di dire al povero imperatore Alessandro III: se fosse possibile annegare nel mar Nero sei o sette milioni di ebrei, io ne sarei perfettamente soddisfatto; ma non è possibile; allora dobbiamo lasciarli vivere”. E quando Herzl disse di sperare in qualche incoraggiamento dal governo russo, Witte rispose: “Ma noi diamo agli ebrei degli incoraggiamenti ad emigrare, per esempio dei calci nel sedere”.

Il risultato degli incontri fu la promessa di von Plehve e del governo russo di “un appoggio morale e materiale al sionismo nel giorno in cui alcune delle sue azioni pratiche sarebbero servite a diminuire la popolazione ebraica in Russia”.
“Se noi [sionisti] – diceva Jacob Klatzkin - non ammettiamo che gli altri abbiano il diritto di essere anti-semiti, allora noi neghiamo a noi stessi il diritto di essere nazionalisti. Se il nostro popolo merita e desidera vivere la propria vita nazionale, è naturale che si senta un corpo alieno costretto a stare nelle nazioni tra le quali vive, un corpo alieno che insiste ad avere una propria distinta identità e che perciò è costretto a ridurre la sfera della propria esistenza. É giusto, quindi, che essi [gli antisemiti] lottino contro di noi per la loro integrità nazionale. Invece di costruire organizzazioni per difendere gli ebrei dagli anti-semiti, i quali vogliono ridurre i nostri diritti, noi dobbiamo costruire organizzazioni per difendere gli ebrei dai nostri amici che desiderano difendere i nostri diritti”.
Queste parole, e l’atteggiamento conseguente dei sionisti, hanno certo dato argomenti preziosi ai nazisti che sostenevano appunto che gli ebrei erano una nazione estranea nella loro nazione.
“Per i sionisti, affermava senza vergogna Harry Sacher, un sionista inglese - il nemico è il liberalismo; esso è anche il nemico per il nazismo; ergo, il sionismo dovrebbe avere molta simpatia e comprensione per il nazismo, di cui l'anti-semitismo è probabilmente un aspetto passeggero”.
Non è solo cecità politica, è collaborazione criminale col nemico degli ebrei. E Lei, Presidente, vuole chiudere gli occhi su questo aspetto della storia del sionismo? Le ricordo poi che i nazisti rispondevano molto positivamente alle offerte dei sionisti come dimostra questo brano di una loro circolare:
“I membri delle organizzazioni sioniste non devono essere, date le loro attività dirette verso l'emigrazione in Palestina, trattati con lo stesso rigore che invece è necessario nei confronti dei membri delle organizzazioni ebraico-tedesche (cioè gli assimilazionisti)”. E Reinhardt Heyndrich, capo dei Servizi Segreti delle SS dichiarava: “Il momento non può più essere lontano ormai in cui la Palestina sarà in grado di nuovo di accogliere i suoi figli che aveva perduto da oltre mille anni. I nostri buoni auguri e la nostra benevolenza ufficiale li accompagnino”.
La colonizzazione della Palestina era ben vista dai nazisti. Tra colonialisti ci si intende. Questo per ricordarLe che i nazisti, con l’aiuto consapevole dei sionisti, hanno colpito solo quegli ebrei che intendevano vivere nei paesi in cui erano nati e non volevano rendersi responsabili dell’occupazione della Palestina e della conseguente e inevitabile cacciata dei palestinesi. Queste vittime ebraiche non erano sioniste, erano semmai assimilazionisti o antisionisti.

Dopo l’Olocausto, l’Occidente non ha fatto altro che premiare i sionisti consegnando loro la terra dei palestinesi e facendo pagare a chi non aveva nessuna colpa, il caro prezzo dello sterminio degli ebrei avvenuto per diretta responsabilità di alcuni paesi europei e per l’ignavia di altri nonché per il folle piano sionista.

Il compianto prof. Mauro Manno
La collaborazione tra sionisti e nazisti è stata possibile anche, al di là dell’aspetto pratico della comune volontà di portare gli ebrei in Palestina, perché l’ideologia sionista e quella nazista avevano un punto in comune, come riconosce l’ebreo sionista Prinz: “Uno Stato costruito sul principio della purezza della nazione e della razza (cioè la Germania nazista) può solo avere rispetto per quegli ebrei che vedono se stessi allo stesso modo”.

Lo stesso personaggio si rendeva conto della situazione paradossale che si veniva a creare, e ammetteva: “Per i sionisti era molto disagevole operare. Era moralmente imbarazzante sembrare essere considerati i figli prediletti del governo nazista, in particolare proprio nel momento in cui esso scioglieva i gruppi giovanili (ebraici) antisionisti, e sembrava preferire per altre vie i sionisti. I nazisti chiedevano un «comportamento più coerentemente sionista»”.
E tuttavia la collaborazione andò avanti. Fu una collaborazione multiforme che ricostruisco nel mio saggio “La natura del sionismo”.

Le voglio ricordare, per finire, l’invito di Dov Joseph, caporione dell’Agenzia Ebraica, che sul finire del 1944, quando gli ebrei morivano a centinaia di migliaia nei lager, parlando a giornalisti sionisti in Palestina preoccupati delle notizie dei massacri, li mise in guardia contro: “la pubblicazione di dati che esagerano il numero delle vittime ebraiche, perché se noi annunciamo che milioni di ebrei sono stati massacrati dai nazisti, poi ci chiederanno, a ragione, dove sono i milioni di ebrei per i quali noi rivendichiamo una patria quando la guerra sarà finita”. (Circolare della Gestapo bavarese indirizzata al corpo di polizia bavarese, 23 gennaio, 1935, pubblicata in Kurt Grossman, Zionists and Non-Zionists under Nazi Rule in the 1930's, Herzl Yearbook, vol VI, p. 340).

Questo può bastare, ma ho l’ardire signor Presidente di consigliarLe di approfondire l’argomento.
La storia del sionismo è una storia criminale, non è sorprendente quindi che i sionisti e lo Stato sionista continuino a trattare così barbaramente i palestinesi.
Ma la mia preoccupazione va al di là della tristissima situazione del popolo palestinese che tutti sembrano dimenticare.
Sinceramente, signor Presidente, vogliamo fare la fine degli Stati Uniti in Iraq? Oggi personaggi importanti negli USA, come l’ex presidente Jimmy Carter, o gli studiosi universitari Mersheimer e Walt si sforzano di aprire gli occhi ai loro compatrioti sulle conseguenze della cieca politica estera elaborata a Tel Aviv e nei circoli dei neoconservatori sionisti di Washington che gli Stati Uniti stanno conducendo in Medio Oriente. Crede che la guerra in Iraq sia stata fatta per le armi di distruzione di massa di Saddam? Per la minaccia che l’Iraq rappresentava per l’Occidente? Per l’esportazione della democrazia? Per gli interessi petroliferi americani? Molti sostengono quest’ultima ipotesi (le altre sono miseramente crollate). Ma il petrolio non si compra sul mercato?
E poi quanto verrebbe a costare se dobbiamo fare una guerra ad ogni paese produttore? Signor Presidente, la guerra è stata fatta per eliminare un possibile rivale di Israele e per consolidare il dominio sionista in Medio Oriente. Adesso Tel Aviv invita l’Occidente a distruggere l’Iran, e ricatta tutti facendo capire che se non lo facciamo noi, sarà proprio Israele a farlo. Come? Invadendo l’Iran? No Presidente, sappiamo tutti che Israele ricorrerebbe alle sue armi nucleari.
Gli americani si stanno accorgendo, a proprie spese, di cosa voglia dire essersi fatti invischiare in una guerra assurda in Iraq per gli interessi di Israele. E noi non ce ne vogliamo rendere conto.
Vogliamo veramente farci coinvolgere nella guerra nucleare contro l’Iran? Nella guerra mondiale contro l’Islam?
Prenda esempio dall’ex-presidente Carter e denunci l’Apartheid di Israele. Se non lo vuole fare Lei, lasci che qualcun altro, per il bene dell’umanità, degli ebrei e dei palestinesi, continui a denunciare il sionismo e si batta per uno Stato unico, democratico, pacifico in Palestina per tutti i suoi abitanti, nessuno escluso.

Signor Presidente,
Lei non si ricorderà di me, eppure noi ci siamo conosciuti e ci siamo parlati. Fu in una triste occasione. Qualche anno fa, all’aeroporto di Fiumicino, Lei in rappresentanza del suo partito venne a portare solidarietà a mia sorella, Marisa, che, dopo aver partecipato ad una manifestazione pacifista a Gerusalemme, solo perché guardava da dietro la vetrata dell’albergo i poliziotti israeliani che massacravano un ragazzino palestinese per strada, perse un occhio quando da un idrante con la stella di Davide spararono uno spruzzo talmente violento da infrangere il vetro e conficcarle una scheggia nell’occhio. Allora veniva a porgere un saluto a mia sorella che aveva pagato per difendere i diritti e la dignità dei palestinesi. Oggi con la sua dichiarazione inaccettabile accusa gli antisionisti, e molti sono ebrei, che si battono per uno Stato democratico in Palestina mettendoli nello stesso immondezzaio degli antisemiti.

Credo, signor Presidente, che i sionisti sono riusciti a fare con Lei, ancora peggio che con mia sorella.
A lei sono riusciti ad accecare non uno, ma tutti e due gli occhi!


Distinti saluti
Mauro Manno
(marzo 2007)


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