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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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domenica 23 dicembre 2012

Saccheggi in Argentina: una (possibile) interpretazione, di Riccardo Achilli


di Riccardo Achilli

Mentre il fuoco dei saccheggi sembra in esaurimento (ad oggi, si parla di 292 negozi saccheggiati, 400 persone arrestate e tre deceduti), ci si chiede quali siano le radici ed i motivi di questa esplosione sociale. Governo ed opposizione si rimpallano le responsabilità: il Governo accusa alcuni sindacalisti di opposizione di aver fomentato gli sforzi. Ma non fornisce prove, che ovviamente se avesse sfoggerebbe senza indugio. Uno dei sindacalisti accusati dal kirchnerismo, Pablo Micheli, è un progressista moderato, difficilmente coinvolgibile in scontri di questo genere. Dal punto di vista politico, il municipio di Bariloche, dove è esploso il primo seme della rivolta, è stabilmente in mano al FPV, ovvero alla corrente peronista kirchnerista, confermata alle elezioni del 2011. Nel barrio periferico di Buenos Aires, San Frnando, alle elezioni del 2011 il kirchnerismo ha preso quasi il 54% dei voti, però il sindaco eletto nello stesso anno è un peronista che si oppone al kirchnerismo. In una delle province in cui si sono verificati i più intensi casi di saccheggio, il governatore è un socialista oppositore.
Certamente due cose sono chiarissime, ed incontestabili: la prima è che la situazione sociale dell'Argentina del 2012 è completamente diversa da quella delle rivolte del 2001, la fame estrema e l'indigenza più disperata sono state sconfitte dalle politiche progressiste della Kirchner. Oggi, le assegnazioni alimentari, il social housing, l'ampliamento molto forte della copertura assicurativa e previdenziale, hanno di fatto ridotto a quote molto marginali le fasce di indigenza vera e propria. Una condizione assolutamente incomparabile con il 2001, in cui interi segmenti del ceto medio erano precipitati nella miseria, senza copertura previdenziale e sanitaria. Gli indici di povertà, di distribuzione del reddito, di crescita economica ed occupazionale sono evidentemente la fotografia di una situazione sociale incontestabilmente migliore di quella del 2001. Parte rilevante dei saccheggi è stata mirata a appropriarsi di beni durevoli (televisori al plasma ed altra roba) più che cibo o beni primari, quindi tutto sembra tranne che una rivolta motivata dalla fame.
La seconda cosa chiara è che tali proteste evidenziano elevati livelli di capacità organizzativa, e quindi tutto sono tranne che spontanee. La convocazione ai saccheggi è passata tramite reti sociali, così come per il “bocca a bocca”. In numerosi casi, i beni depredati sono stati portati via non a mano, o con i carrelli dei supermercati saccheggiati, ma con automobili e camioncini appositamente posizionati a ridosso del supermercato aggredito. Tale organizzazione, però, non ha portato ad un chiaro orientamento di tipo “politico”. Sono stati saccheggiati soprattutto piccoli supermercati rionali di proprietà di piccoli borghesi, e non i grandi centri commerciali; spesso sono state incendiate le vetuste automobili dei lavoratori di tali supermercati.
Personalmente, ed a meno di novità, non credo che vi sia una matrice partitica o sindacale dietro ciò che è avvenuto. Credo che l'organizzazione dei saccheggi sia anche, in una certa parte, il frutto di penetrazione da parte della criminalità organizzata, così come anche una abitudine comunitaria e di quartiere che risale al 2001, e che rende tali eventi fin da subito molto ben organizzati. La verità è che sintomi dell'esplosione di tali eventi si erano già manifestati nelle scorse settimane. I festeggiamenti dei tifosi del Boca Juniors, qualche giorno fa (tifosi provenienti essenzialmente dal proletariato e sottoproletariato urbano), hanno portato ad atti di vandalismo ed anche qualche saccheggio. Qualche giorno fa, nella Capitale Federale, si sono verificati duri scontri fra manifestanti e polizia davanti alla Casa della provincia di Tucumàn. Per finire, a Bariloche, dove è scoppiato il primo seme della rivolta, il sindaco kirchnerista aveva chiesto, nei giorni precedenti, una “riparto volontario” di beni alla cittadinanza, da parte degli esercizi commerciali, evidentemente avendo sentore di un'onda di scontento in crescita.
Concordo invece con l'opinione di Mario Wainfeld, da Página 12. I tumulti di queste ore sono un prodotto, esasperato dal rallentamento della crescita che colpisce anche l'Argentina a causa della recessione globale, delle crescenti contraddizioni interne dei processi socialdemocratici messi in atto dal kirchnerismo, e non sono del tutto diversi da ciò che emerge in Uruguay. L'eliminazione progressiva delle condizioni più gravi di miserie e sottoccupazione fa emergere una nuova domanda sociale, che il kirchnerismo non riesce ad affrontare. Emerge una differenziazione interna alla classe lavoratrice fra precarietà e stabilità, un'ampia fascia di lavoratori in nero che sono stati emarginati dai benefici sociali portati dal kirchnerismo, gente priva di copertura sanitaria, o di ferie pagate, che sente la frustrazione in modo tanto più serio quanto più le politiche progressiste della Fernández conducono ad un miglioramento sociale evidente per i lavoratori legali e stabili. Nodi futuri che verranno al pettine sono ancora del tutto non affrontati dal kirchnerismo, come ad esempio i lavoratori che andranno in pensione nei prossimi dieci anni, senza adeguata copertura previdenziale a causa di periodi di disoccupazione e precarietà legati alla crisi attuale, o l'ampia quota di giovani NEET, non potranno che aggravare i problemi sociali lasciati irrisolti dal kirchnerismo.
L'accelerazione dell'inflazione, ben al di là dei dati truccati dall'INE, comporta pesanti effetti redistributivi sui percettori di reddito fisso, devastandone il potere di acquisto, con un effetto psicologico incrementato anche dalla ricorrenza consumistica natalizia, inducendoli alla rivolta. Ed anche la fiammata inflazionistica, che secondo alcuni si attesterebbe ad un tasso del 25%, secondo altri al 40%, è il frutto delle contraddizioni interne del kirchnerismo. Non voler risolvere in modo negoziale la questione del default parziale dichiarato, nei confronti di detentori di debito pubblico non residenti, nel 2003, è infatti la fonte di tale inflazione. La difficoltà di piazzare sui mercati internazionali i titoli del debito pubblico, come effetto di scarsa credibilità, ha portato ad un'ampia monetizzazione del debito pubblico, che naturalmente, accrescendo la massa monetaria, ha portato a maggiore inflazione. La massa monetaria totale in circolazione (M3), secondo i dati (forse artatamente sottostimati) del Governo argentino, risulta cresciuta del 27% fra ottobre 2011 e identico mese del 2012; fra la data del ripudio del debito (dicembre 2001) ad ottobre 2012, questa è cresciuta dell'888% (fonte: Banco Central de la República de Argentina).
Tale enorme massa monetaria aggiuntiva, oltre che indurre effetti inflazionistici di per sé, spinge verso il basso il tasso di cambio, nonostante i buoni risultati di bilancia commerciale. Il peso perde, rispetto al dollaro, quasi il 5% nell'ultimo anno. E perde il 18% circa rispetto all'euro. La svalutazione del peso, ovviamente, comporta tensioni ulteriori da inflazione importata. Ciò peraltro spiega, da un lato, le consistenti (e socialmente dannose) restrizioni amministrative imposte ai flussi di valuta estera in uscita, e dall'altro la preoccupazione per il comportamento delle banche, che potrebbero essere tentate, in questo scenario, di tesaurizzare, o esportare capitali, anziché favorire l'investimento.
I nodi del kirchnerismo, purtroppo, stanno venendo al pettine. O la Fernández è in grado di imprimere un'accelerazione, in senso radicale, alla sua svolta, affrontando le nascenti ingiustizie sociali della “seconda fase”, dopo la lotta vittoriosa contro la povertà più estrema, ed al contempo saprà trovare soluzioni negoziali per far tornare sul mercato internazionale il suo debito pubblico, tornando ad essere credibile, oppure sarà la stessa pressione popolare a far fallire tale esperimento.


ANTIPARLAMENTO DEI MOVIMENTI SOCIALI di Michele Nobile




Sintesi della discussione svoltasi il 16 dicembre 2012 nella sede di Utopia rossa e introdotta da una relazione di Michele Nobile. Il testo che segue è stato arricchito dai contributi di altri compagni e compagne, e in quanto tale entra a far parte del patrimonio teorico di UR.
(La Redazione di Utopia rossa )



Per Antiparlamento dei movimenti sociali non si deve intendere l’ennesima conferenza o coordinamento di professionisti della politica, magari affiancati da associazioni di supporto; l’Antiparlamento non deve intendersi come qualcosa il cui compito sia elaborare soluzioni alternative alla crisi capitalistica o ai problemi sociali in vista delle elezioni, in definitiva contando su una nuova maggioranza parlamentare «amica» dei proponenti.
Al contrario, l’Antiparlamento dovrà essere espressione dell’auto-organizzazione di movimenti di massa in lotta non solo contro i loro determinati e specifici avversari, locali e/o settoriali, ma anche contro l’intera casta politica e lo stesso Parlamento in quanto organo di legittimazione della casta.
Alla lettera, intendiamo l’Antiparlamento quale forma di democrazia politica alternativa e contrapposta all’istituto parlamentare e al suo necessario complemento: le elezioni politiche.
Non basta più dire che la vittoria delle lotte specifiche e determinate non deve più passare attraverso burocrati partitici e sindacali e il parlamento. Occorre dire che la casta dei professionisti della politica e le loro istituzioni sono nemici dell’espansione dei diritti e delle libertà. Occorre rompere definitivamente con la strategia consistente nel far rifluire la propaganda politica e la mobilitazione sociale in una scadenza elettorale e nel sostegno a una determinata maggioranza parlamentare o ad una linea di pressione esterna e «critica» del governo pur sempre visto come «amico». In questa strategia è invischiata da decenni la sinistra italiana, compresi la ex estrema sinistra e i vari partiti post-Pci.

Dal nostro punto di vista la posizione antiparlamentare si motiva con il processo d’involuzione storica della cosiddetta democrazia rappresentativa nei paesi a capitalismo avanzato e, in particolare, in Italia.
Si tratta di un processo di lungo periodo, il cui motore fu proprio la crescita delle funzioni economiche e sociali dello Stato capitalistico, con i suoi effetti sui rapporti tra burocrazia amministrativa e partitica, tra governo e parlamento e sulle funzioni e le caratteristiche dei partiti.
Risultati finali delle trasformazioni accennate, apparentemente democratiche e nostalgicamente rimpiante da tanta parte della sinistra, sono stati la statizzazione dei partiti, la loro convergenza programmatica, la costituzione del sistema dei partiti in casta. 
Nei decenni di fine secolo si è consumata definitivamente la parabola d’integrazione nello Stato dei partiti della sinistra, socialdemocratici e comunisti. Il processo degenerativo, in termini politici, ideali e personali è molto avanzato e grave in Italia. Esso ha coinvolto anche i partiti post-Pci che, con il sostegno e la partecipazione diretta ai governi nazionali e locali del centrosinistra, hanno ampiamente dimostrato e continuano a dimostrare di rimanere subalterni al centrosinistra o a una sua componente: le differenze, a questo proposito, riguardano più i modi e i tempi che la sostanza. Il processo è stato ampiamente trattato nei libri di Utopia rossa (da La sinistra rivelata a I forchettoni rossi a Le false sinistre fino al recente Capitalismo e postdemocrazia) e negli articoli pubblicati nel blog.
Quando il finanziamento dell’attività di partito dipende per l’80-90% e oltre dai fondi statali i partiti cessano di essere organi di mediazione tra Stato e società civile e diventano a tutti gli effetti organi statali. La dipendenza dal finanziamento pubblico dei partiti «alternativi», verdi e a denominazione «comunista» è alla pari o superiore di quella dei partiti di governo. Ovviamente per essi la partecipazione alle elezioni è una necessità vitale; e necessità vitale è trovare forme di collaborazione con il centrosinistra.
La statizzazione dei partiti comporta l’assoluta prevalenza della funzione di governo rispetto a quella della rappresentanza, sia pur limitata e distorta, di alcuni interessi dei comuni cittadini. Per i partiti e le coalizioni che si spartiscono il mercato dei voti il processo di statizzazione è parallelo alla sostanziale convergenza politica intorno agli interessi immediati del padronato.

 Pur rimanendo un organo dello Stato capitalistico, negli anni ’60 e ‘70 il Parlamento riusciva ancora a rispondere alle lotte e ai problemi sociali con leggi che costituivano un progresso, sia pur parziale. Ma da oltre trent’anni a questa parte, mentre il sistema dei partiti si fa autoreferenziale, la stessa istituzione parlamentare cessa di avere qualsiasi possibilità progressiva. Le leggi più importanti adottate in Parlamento sono sempre contrarie ai lavoratori ed ai bisogni sociali dei comuni cittadini.
Questo è un dato strutturale e non reversibile. Ne consegue che i richiami al dettato costituzionale e alla «sovranità popolare» entro il quadro di questo Stato, la retorica circa la partecipazione politica e la pretesa dei partiti post-Pci di far da ponte tra Piazza e Palazzo appaiono, nel migliore dei casi, illusioni condannate dalla storia o, nel peggiore e più probabile dei casi, come ideologia strumentale alla riproduzione di apparati partitici. 

 Per queste ragioni riteniamo che la lotta per la difesa e l’espansione della democrazia e dei diritti sociali nel senso più ampio non possa più passare attraverso il Parlamento, le elezioni e la rappresentanza partitica. Al contrario, per difendere ed espandere la democrazia e i diritti occorre assumere il sistema dei partiti e l’istituzione parlamentare come nemici da abbattere, senza nessun compromesso.

Questa posizione antielettorale e antiparlamentare è da intendersi come relativa all’Italia e da verificare negli altri paesi a capitalismo avanzato; non vale necessariamente in paesi nei quali l’esperienza della democrazia parlamentare nell’ambito dello Stato capitalistico è stata limitata e la conquista della libertà politica è un fatto relativamente recente.

Siamo perfettamente consapevoli che l’Antiparlamento è un’indicazione ancora propagandistica, perché essa potrà prendere vita solo in presenza di forti movimenti sociali decisi a perseguire fino in fondo i propri obiettivi di lotta in aperta rottura con la casta politica e le sue istituzioni pseudorappresentative.
Nondimeno, non vediamo altra possibilità di iniziare a costruire subito e nel presente una prospettiva che sia nello stesso tempo globale, democratica e anticapitalistica se non partendo dalla visione di un organismo nazionale che sia spazio di raccordo e di discussione di movimenti di lotta, che di questi esprima la volontà unitaria e di sintesi politica al di fuori e contro le istituzioni che rappresentano il potere della casta politica.

Concretamente e nell’immediato, condividere questa visione significa rifiutarsi di legittimare col voto la casta dei professionisti della politica (o degli aspiranti tali), nelle sue componenti di destra e sinistra, e l’istituzione parlamentare.
Assumere consapevolmente la prospettiva dell'Antiparlamento comporta il consapevole rifiuto della retorica pseudomovimentista o incoerentemente anticasta che finisce con il fare delle elezioni e delle alleanze elettorali e istituzionali l’approdo dell’azione politica.

Prendere seriamente in considerazione la prospettiva dell’Antiparlamento è innanzitutto l’inizio di un processo di liberazione dalla dipendenza psicologica da apparati che sopravvivono solo grazie al finanziamento statale e alla loro capacità di far da parassiti dell’impegno altruistico e sincero di militanti e volontari.
Riteniamo che prendere posizione per l’Antiparlamento e contro la delega alla casta partitica (ivi compresa la sottocasta subalterna dei Forchettoni rossi) comporti anche un processo di liberazione culturale nel senso più ampio, di impulso alla creatività volta a cambiare la vita e a cambiare il mondo senza compromissioni e autocensure.

Infine, nell’assumere la prospettiva dell’Antiparlamento ci sentiamo materialmente confortati da quelle decine di milioni di cittadini, in Italia e nel resto d’Europa che, astenendosi dal voto, hanno voluto esprimere e continueranno ad esprimere il loro disgusto per le caste politiche. Ci sentiamo, in questo vicini a coloro che hanno espresso la loro indignazione e la loro nausea nei confronti dei governi e dei parlamenti che fanno pagare la crisi capitalistica ai lavoratori, ai comuni cittadini, ai pensionati, ai giovani, alle donne. Ci sentiamo vicini a coloro che hanno assediato i parlamenti, sedi formali del potere delle caste che pretendono di rappresentare il popolo.
Riteniamo che l’Antiparlamento possa essere una risposta coerente, di lotta, costruttiva ed eticamente sana, al bisogno di democrazia da affermare contro la casta politica.






sabato 22 dicembre 2012

CHE FARE? di R.C. Gatti -UNA RISPOSTA AL MIO AMICO GATTI di R. Achilli



Pubblichiamo questo interessante dibattito apparso sul sito Facebook della Lega dei Socialisti tra i suoi due migliori economisti sul futuro della sinistra e della LdS in particolare.
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CHE FARE?
di Renato Costanzo Gatti


In un suo post, il compagno Riccardo Achilli indicava, linkandolo, l’articolo di Aldo Giannuli come la chiara esposizione (senza lasciarsi ingannare dal titolo “Sinistra radicale: non c’è più niente da fare”) di ciò cui tende l’area di Bandiera Rossa. (*)
                        
Ho letto con attenzione l’articolo che è uno Spoon river della sinistra radicale, un poetico funerale delle varie formazioni di cosiddetta sinistra che va dalla delusione post-vendoliana, che include (sentite sentite) l’Idv, Grillo, Rifondazione, PdCI, De Magistris, Ingroia, No Tav, No Molin, Alba. Scusate ma da vecchio marxiano mi pare una accozzaglia di soreliani. Lo stesso Giannuli (ecco forse la pars construens indicata da Riccardo) dopo aver riconosciuto che “lo spazio politico della protesta antisistema è totalmente presidiato da Grillo e dai suoi”  (indicando chiaramente lo spazio politico nella protesta antisistema) afferma: “e poi questo metodo di fare prima la lista e poi il soggetto politico non mi convince, proviamo a fare il contrario: prima il soggetto politico e poi la lista che chieda consensi da rappresentare. Una volta, a sinistra, si faceva così perché non rimettiamo in piedi la sinistra radicale iniziando dalla definizione del soggetto politico e della sua pratica delle lotte sociali?”.

Il problema quindi mi pare da lettino psichiatrico; non esiste una realtà da studiare, non esistono problemi da risolvere, non esiste studio per cercare delle soluzioni, non esistono proposte, non esiste un programma per cui lavorare. Esiste solo la ricerca di una identità, schizofrenica allo stato, e l’obiettivo di una pratica delle lotte sociali.
                        
Credo che mai e poi mai, questo si possa definire un progetto egemone. Lo trovo un onanismo schizoide.
  
Non che l’alternativa stia meglio. La carta d’intenti, dopo l’impennata delle primarie è impantanata nel “catrame” mastronardiano della figura di Monti. Probabilmente Bersani ne avrà bisogno per avere la maggioranza al Senato, probabilmente i condizionamenti saranno notevoli visto lo schieramento montiano: Confindustria e anti-confindustria di Marchionne, Montezemolo, benedizione dei sindacati di Bonanni e Angeletti, presa sotto la pesante e soffocante protezione della Chiesa. Monti nasce come una reincarnazione della miglior D.C.
                        
Ho sempre scritto che Monti ha diligentemente attuato ciò che la BCE ci aveva ordinato di fare nell’agosto 2011, ma che egli è culturalmente e politicamente incapace di fare sviluppo e crescita. Perché non è keynesiano, perché non crede nella programmazione, perché vede lo sviluppo solo come asservimento del sindacato ad una imprenditoria che non può essere discussa. Quante volte ha affermato il fatto che il governo non può sindacare le scelte dell’imprenditoria? NON SONO UN DIRIGISTA  ha affermato più volte. Monti è “unfit” a guidare il paese, ma condizionerà pesantemente il già condizionato Bersani, per cui prevedo momenti difficili.
                        
E la sinistra non radicale? A mio modo di vedere non può che appoggiare Vendola nello spostare a sinistra la coalizione PD-SEL-PSI già pesantemente condizionata dalla destra ex margheritina, ma ancor più pesantemente condizionata dal condizionamento del rassemblement montiano.
                        
La Lega dei Socialisti che ha deciso di non appoggiare il triciclo, lasciando liberi i suoi aderenti di votare se lo credevano, alle primarie. Non ha deciso di partecipare ma ha  partecipato al No Monti Day in chiave anti-triciclo, vede ora il cul de sac in cui è andata ad infilarsi? Ha voluto essere pregiudizialmente anti-Pd ed invece di condizionarlo l’ha lasciato nelle sue ambiguità sistemiche, con una operazione autoavverantesi.
                        
Sta poi delineandosi un profilo isolazionista. Non si è redatto un documento che stabilisca la strategia con le altre associazioni socialiste, non ha mandato neppure un delegato a Passignano. Se ci fossi andato, e l’avrei veramente voluto, sarei andato a titolo personale.
                        
C’era una ottima occasione di discutere sul documento economico (che tanta considerazione e riconoscimento ha avuto dalle altre associazioni, ricordo l’intervento di Somaini ad esempio), si poteva parlare di come affrontare le elezioni, ci si poteva chiarire su molti punti su cui abbiamo glissato. Ma la proposta di convocazione è stata lasciata cadere nell’insabbiamento e nel rinvio a dopo le elezioni (sic).
                        
Non capisco cosa stiamo facendo, ma sono decisamente deluso. 

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UNA RISPOSTA AL MIO AMICO RENATO COSTANZO GATTI ED ALLA SUA NOTA "CHE FARE?"
di Riccardo Achilli

In questa nota, fornisco una mia risposta, che reputo doverosa, all'ultima nota dell'amico e compagno Renato Costanzo Gatti (che mi cita), intitolata “Che Fare”? Caro Renato, noto con una punta di inquietudine che nella tua nota “Che Fare” mi citi un po' come se fossi, con le mie posizioni, una sorta di portavoce di Bandiera Rossa. Così non è, non abbiamo portavoce, perché siamo tanti cervelli pensanti, in grado di esprimersi anche da soli. Gli appunti di questa nota sono quindi una mia risposta personale alla tua precedente nota, non concordata né fatta leggere preliminarmente ai compagni di Bandiera Rossa.

Caro Renato, naturalmente condivido in tutto e per tutto la tua delusione circa la LdS, che è anche la mia, per cui non c'è bisogno, credo, di aggiungere alcunché. Credo di poter dire che la Lega sia un soggetto politicamente agonizzante, e ciò a prescindere dalle decisioni assunte, ma semplicemente perché non vi è stato alcun dibattito reale. Non ritengo accettabile che non si sia fissata una riunione sul “Che fare” a ridosso di una tornata elettorale strategica come quella del prossimo febbraio, e nemmeno che non si sia mai discusso dei documenti che le varie anime della Lega hanno prodotto, ad iniziare da quelli di Bandiera Rossa.
Tra l'altro, l'assenza di discussione dei nostri documenti di Bandiera Rossa, certamente anche non condivisibili ma comunque articolati nella loro proposta, fa sì che tu identifichi la nostra proposta complessiva di Bandiera Rossa nell'articolo di Giannuli che citi, che è stato da me usato come estrema sintesi delle nostre posizioni (e quindi necessariamente, come tutte le sintesi estreme, eccessivamente schematico, e che quindi non può riflettere in maniera fedele il pensiero complessivo che abbiamo come Bandiera Rossa). Questo impoverimento della visione delle nostre posizioni è esattamente la conseguenza di un dibattito tenutosi su Facebook (nel caso di specie, peraltro, un dibattito estramamente teso con un compagno evidentemente di cattivo umore) e non nelle sedi appropriate, guardandosi negli occhi, dove anche la complessità può essere evidenziata (mentre il dibattito su Facebook, per la natura stessa di tale strumento, tende ad impoverirsi nello schematismo).
La nostra posizione è semplicemente che la sinistra, oggi, non esiste. 
Il campo della politica istituzionale si divide fra una destra rozza, razzista e impastata di sovranismo e corporativismo, una destra impulsiva e rabbiosa, che esaurisce la sua proposta politica in una richiesta demagogica di legalità e forti tendenze al caudillismo (il grillismo) ed una destra liberista e democratica (il PD ed i suoi addentellati, ivi compreso il PSI, evidentemente incapace, o non desideroso, di costruire una proposta politica che si richiami alle radici del socialismo, schiacciato nel suo rapporto semi-simbiotico con il PD). 
A sinistra di tutto ciò, si agita una confusionaria e magmatica galassia arancione, la cui “proposta” programmatica, sintetizzata nei dieci punti di Ingroia, è a metà fra la demagogia e la proposta tipica di un partito borghese, e soprattutto è priva di analisi, di consistenza, di concretezza. Galassia arancione che, probabilmente, come del resto avviene anche in astrofisica, tenderà a gravitare sempre più strettamente attorno alla più grande e strutturata galassia del centrosinistra, fino a schiantarsi e fondersi in essa.

In queste condizioni, qualsiasi strategia di alleanza politico/elettorale, vista con gli occhi di un movimento che vuol essere di sinistra, è semplicemente priva di senso. Sia perché manca il soggetto di sinistra che dovrebbe promuovere tale alleanza, sia perché i soggetti che vengono da una posizione di sinistra e che sono confluiti nel Triciclo si troveranno schiacciati, in una posizione di sudditanza al PD, dentro il Triciclo stesso, senza poter incidere e senza poterne spostare minimamente il baricentro.
Ciò che succederà nei primi mesi di vita del futuro governo di centrosinistra alleato con il centro montiano (è Bersani stesso a confermare che, quale che sarà l'esito elettorale, egli dialogherà con Monti) è facile da prevedere. Non serve la Sibilla Cumana. Poiché Bersani non viene dalle montagne di sapone, ha fatto inserire nella Carta Comune di Intenti la regola secondo cui le decisioni controverse saranno risolte a maggioranza dei gruppi parlamentari del centrosinistra. La SEL, il PdCI, il PSI, i Verdi, il gruppodi Patta e Salvi, si vedranno recapitare proposte di politica economica e sociale in linea di continuità con il montismo ed estranee alla loro radice politica ed identitaria. Protesteranno vigorosamente, dopodiché tali proposte saranno decise a maggioranza dei gruppi parlamentari, in cui il PD rappresenta il 30% degli elettori, e la sinistra interna al Triciclo, tutta insieme (ammesso e non concesso che riesca a muoversi unitariamente, il che è una ipotesi probabile quanto quella che i somari un giorno possano volare) al massimo il 9-10%. Pertanto, per le differenze di peso all'interno del gruppo parlamentare di maggioranza, la sinistra del Triciclo sarà sistematicamente sconfitta e costretta a sostenere provvedimenti contrari alle sue posizioni, alla sua storia ed alla sua identità. Alla terza, quarta o quinta volta che la sinistra del Triciclo dovrà ingoiare provvedimenti di tipo liberista, l'elettore medio (supportato in ciò dalla stampa di regime) penserà “ma che ca... ci sono entrati a che fare questi qui nel Triciclo, se protestano sempre, ma non incidono mai?” Peggio ancora: l'elettore medio della SEL, o del PdCI, perderà la pazienza e cadrà nell'astensionismo o nel grillismo. E il passsaggio di SEL, del PdCI e compagnia briscola dentro il Triciclo segnerà la definitiva estinzione di ciò che resta della sinistra italiana, esattamente come la sinistra radicale si suicidò con l'esperimento di Sinistra Arcobaleno che partecipò al governo dell'Unione.


Di fronte a tale prospettiva sicuramente disastrosa, di fronte all'autodafé finale, c'è una unica possibilità: ricostruire un movimento socialista radicato dentro la società, con un lungo e paziente lavoro dal basso, di ascolto dei problemi reali del Paese e delle sue classi oppresse, e di costruzione di una proposta politico/programmatica che sia esattamente allineata a tali problemi, e che quindi non sia ideologica, ma concreta. Se si vuole correre in una competizione automobilistica, occorre prima di tutto costruire la macchina utile a correre. Ogni forma di scorciatoia, ivi compresa la proposta di correre sull'auto di qualcun altro, per sperare di razzolare qualche soldo utile alla Causa del Sol dell'Avvenire, non può che costringerti a correre con due persone su una monoposto. In questo caso, una monoposto che deve correre con il peso di due persone si rompe prima della fine della gara, oppure, se arriva miracolosamente a fine gara, arriva ultima.

Caro Renato, mi duole quindi doverti dire che, quando scrivi (cito testualmente) “ Il problema quindi mi pare da lettino psichiatrico; non esiste una realtà da studiare, non esistono problemi da risolvere, non esiste studio per cercare delle soluzioni, non esistono proposte, non esiste un programma per cui lavorare. Esiste solo la ricerca di una identità, schizofrenica allo stato, e l’obiettivo di una pratica delle lotte sociali” dimostri di non aver compreso la nostra proposta come Bandiera Rossa. Proponiamo esattamente il contrario: proponiamo di studiare la realtà, proponiamo di cercare soluzioni ai problemi, proponiamo di lavorare ad un programma concreto, da presentare alla società. E proponiamo di farlo da una fase di ascolto, di ricostruzione e sintesi dei bisogni, di proposizione di un programma alternativo, tramite il quale costruire un movimento politico con la sua identità, che SUCCESSIVAMENTE dialoghi anche con forze quali il PD. Esattamente come fecero i socialisti delle origini, i socialisti ottocenteschi, come fece Turati, che in un'Italia dove peraltro esisteva ancora il voto censitario non si posero il problema di cercare la carega parlamentare, ma di cercare il rapporto con la società.

L'unica cosa che non proponiamo, perché ci sembra suicida, è la fregola, questa sì degna di un approfondimento da parte della psicoanalisi del profondo (visto che nella tua nota le posizioni diverse sono qualificate degne di “lettino da psichiatra”) di dover stare a tutti i costi nella stanza dei bottoni, anche quando in realtà, per farti contento, ti hanno dato una bottoniera fasulla, dalla quale non controlli niente, e che è poco più che un giocattolo da bambini da agitare davanti agli occhi di qualche militante ingenuo (“hai visto, tenimm'anche nuje 'a buttoniera!”). Questa fregola è veramente “onanismo schizoide”, per usare la tua espressione, caro Renato. Perché si colloca in un punto intermedio fra l'incapacità di fare qualsiasi tipo di analisi, replicando stancamente laboratori, peraltro fallimentari, come l'Ulivo e l'Unione, appartenenti a fasi storiche ed economiche molto diverse, il delirio di potere con implicazioni psicoanalitiche delicate, l'opportunismo gretto, l'infantilismo.

Vedi, caro Renato, in questi mesi sono circolate spesso, da parte di compagni che si proclamano comunisti, citazioni del famoso libello di Lenin “L'estremismo malattia infantile del comunismo”, per giustificare l'ingresso di SEL ed altri soggetti di sinistra nel Triciclo. E' vero che in tale libello Lenin faceva appello a compromessi con le forze avverse, ed anche ad alleanze tattiche provvisorie con i partiti borghesi, però ci si dimentica di dire che, secondo Lenin, tali alleanze (la cui opportunità, sempre secondo Lenin, va valutata di caso in caso, in base alle circostanze storiche date) hanno un senso solo in quanto funzionali allo sviluppo del consenso attorno alla sinistra, non in quanto funzionali al suo suicidio. Le alleanze fatte concretamente dai bolscevichi, inoltre, sono realizzate quando già esiste un partito bolscevico con un suo radicamento fra i lavoratori. 
Mentre oggi, per quanto detto sopra, la sinistra non ha tale tipo di radicamento, per cui alleandosi con le forze borghesi non farebbe altro che essere spazzata via, come una foglia staccata dal suo albero in un giorno di vento.

Oggi, per la sinistra italiana, diversamente da ciò che accade negli altri Paesi europei, siamo all'anno zero. Tutta va ricostruito, prima ancora di pensare ad alleanze e partecipazioni elettorali. La monoposto va costruita, prima di iscriversi alla corsa. Le uniche due obiezioni sostanziali che sento fare a tale ragionamento (oltre agli insulti) sono di tipo politico, l'una, e finanziario, l'altra. L'obiezione politica consiste più o meno in questo: “guardate alle forze antisistema che non intendono allearsi con nessuno, ai residui del trotskismo, dell'anarchismo, del leninismo, guardate che peso irrilevante hanno nella società!” Intanto tale obiezione manca di approfondimento dinamico, perché è da vedere se tali forze non saranno, nei prossimi anni, rinvigorite dalla crescente polarizzazione di una società in cui i processi di impoverimento e precarizzazione continueranno a mordere in modo sempre più profondo. Poi va considerato che tali forze hanno il problema di voler a tutti i costi sovrapporre alla società reale schemi ideologici ed analitici del secolo scorso. Chi vuole ricostruire la sinistra, invece, come proponiamo noi di Bandiera Rossa, pur non rinunciando a schemi analitici nella misura in cui ancora utili, deve partire dal basso, dalla società reale, non certo da uno schema sovrapposto dall'alto.
La seconda obiezione è “nun tenimm'sord per fare politica autonomamente”, “anche Grillo ha il suo Casaleggio che lo finanzia”, ecc. Donde la conclusione automatica che occorre appoggiarsi a chi i soldi ce li ha, con l'ovvia conseguenza di perdere per sempre la propria autonomia politica, divenendone mera (ed alla lunga inutile e fastidiosa) appendice. E chi sta a libro paga di qualcun altro, se si rende inutile e fastidioso, viene fatto fuori. A questa obiezione rispondo che, mentre è documentato che ci si è mossi per prendere una costosa sede all'Equilino, non è documentato che ci sia mossi con il dovuto impegno per trovare un “Casaleggio socialista” disposto a finanziarci. Si liquida l'argomento, senza nessuna spiegazione, dicendo che le fondazioni non-bancarie non hanno soldi (sono state monitorate tutte?) e che gli sponsor ti condizionano (come se il farsi eleggere consigliere regionale in quota PSI non fosse condizionante). Non si possono raccogliere soldi dall'autotassazione degli iscritti, perché questi, a quanto pare da dati ufficiosi (in assenza di quelli ufficiali, mai comunicati) sarebbero 40 o 50 (ma vi è chi dice che sono solo 35). Non si approfondisce però il fatto che Grillo ottiene successo anche perché parla ad italiani stanchi di una politica fatta solo di tatticismi e di manovre di vertice, di partiti senza democrazia interna. E che forse, se la LDS fosse un partito a maggiore democrazia interna (dove cioè ad esempio le scelte elettorali del suo leader si discutono, o quantomeno si comunicano, anche senza discuterle) e non fosse impegnato in una politca fatta tutta quanta di scelte elettoralistiche e di schieramento, e lavorasse maggiormente nel sociale, nelle piazze e con i movimenti, forse di iscritti ne avrebbe di più, e quindi l'autotassazione diverrebbe uno scenario praticabile.

Per concludere, caro Renato, come vedi le posizioni di Bandiera Rossa sono molto più articolate di quelle, caricaturali, che vuoi spacciare nella tua nota “Che Fare”. E non ci sono giustificazioni politiche o finanziarie valide ad una scelta elettoralista di partecipazione al Triciclo, che non siano meramente di potere (o per meglio dire di autoillusione di partecipare ad un potere nel quale invece si sta come semplici giullari, ed i giullari hanno una utilità a tempo determinato). Ad ogni modo, lascia che io ti faccia, con il cuore, i più sinceri auguri di buon natale e felice e proficuo anno nuovo, che estendo a tutti i compagni (fra breve, ex compagni) della Lds. Ed a Franco, se mai dovesse ancora leggere il dibattito su facebook faccio, senza ipocrisia, gli auguri per le sue ambizioni personali, legittime ma a mio avviso dannose per lui stesso.


21 dicembre 2012
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(*)  L'articolo di Aldo Gianulli si può leggere in questo sito

http://ilmarxismolibertario.wordpress.com/2012/12/06/sinistra-radicale-non-ce-piu-niente-da-fare-di-aldo-giannuli/





giovedì 20 dicembre 2012

I DUELLANTI di Norberto Fragiacomo




I DUELLANTI
di
Norberto Fragiacomo


Con le acrobazie verbali di questi giorni, un terreo Silvio Berlusconi ha rinfrescato la memoria agli italiani, che notoriamente ce l’hanno cortissima: parlare, per lui, significa contraddirsi, e il tormentone Monti no-Monti sì è solo l’ultima perla di una collana lunghissima, pagata per intero da un popolo allo sbando.
Silvio un’alternativa? Sì, a Massimo Boldi e Pippo Franco… tocca sperare che l’ennesima giullarata, seguita ad un periodo di silenzio forzato, basti a smontare la favola del Berlusconi statista “geopolitico”, molto meno credibile, in verità, di quella di Pollicino. Quisquilie, in ogni caso: per la prima volta, dal ’94 ad oggi, al nostro è stato assegnato un ruolo secondario, quello del(l’orco) cattivo non protagonista. Il nemico pubblico numero uno è, infatti, l’alieno Grillo (a capo dei suoi Borg), mentre gli “eroi” della vicenda elettorale saranno Mario Monti e Pierluigi Bersani.
Va in scena la replica di Destra contro Sinistra, insomma, ma è soltanto fiction, anche se rischia di costare, al pubblico, molto più del previsto. Il battage pubblicitario è già iniziato: domenica 16, su un giornale quasi sempre “onesto” (Il Fatto Quotidiano), i duellanti venivano presentati uno accanto all’altro, con tanto di sostenitori e pillole di programma; un bel pezzo di Lidia Ravera incitava addirittura il proletariato alla riscossa.

Avanti Popolo, vien da fischiettare… ma la bandiera rossa non si trova più, sarà sul banco di qualche antiquario. Non è sufficiente una fotografia con una mezza dozzina di leader dell’annacquato progressismo europeo per trasformare Bersani nel paladino della sinistra: contro di lui parlano il sostegno acritico al governo “tecnico”, i voti a ripetizione in Parlamento, una Carta d’intenti postilla dell’Agenda Monti e la candidatura del Professore al Quirinale, per il dopo Napolitano. 
Il “centrosinistra possibile” (si) è (auto)condannato a portare avanti politiche di destra, anche se commentatori e media cercheranno di farci credere il contrario.
Con questo non intendiamo dire che un duello all’ultimo voto sia impossibile, anche se – per le ragioni che esporremo – lo riteniamo improbabile: siamo semplicemente persuasi che le motivazioni siano assai meno nobili di quelle presentateci, e l’onore (cioè l’ideale) non c’entri proprio nulla.
Bersani non vuole affatto smantellare la macchina montiana: lo dimostra l’invio di Enrico Letta in missione a Wall Street [1], per rassicurare “i capi di hedge funds, banche di investimento e banche d’affari” sul fatto che, in caso di vittoria elettorale piddina, il nuovo governo rispetterà gli impegni presi a livello europeo e proseguirà sulla strada del rigore. Dunque? Ci troviamo di fronte ad una banalissima e un po’ meschina lotta di potere: dopo anni di anticamera, i c.d. democratici vogliono entrare nel salone da pranzo, e sedersi a capotavola – anche se il menù è stato stabilito da altri. La casta dirigente, oramai irrimediabilmente scissa dalla base, è formata da uomini e donne (non molte) che, non avendo, grazie ai privilegi quesiti, niente da temere dalla crisi, possono permettersi di innaffiare l’orticello dell’ambizione personale – e fare il ministro, il sottosegretario o il premier è più gratificante che pigiare un tasto in Parlamento. Avendo dato, nel corso degli anni, innumerevoli prove di servile collaborazionismo e fedeltà al sistema, non capiscono le ragioni dell’ostracismo nei loro confronti… non le capiscono perché, a differenza dell’aquila Monti, volano rasoterra.
Eppure Mario Monti basterebbe ascoltarlo, quando afferma testualmente: “la mia bussola è l’europeismo, il mio progetto è completare una stagione di riforme e restituire luminosità all’Italia.” Tralasciamo il riferimento alla luminosità, che stona in bocca al propugnatore di “cieli bui”: la polpa sta in quel “completare una stagione di riforme”. L’ex Presidente della Trilateral (ed ex membro del direttivo del Gruppo Bilderberg) resta in campo perché non si fida di politici inetti e pasticcioni. A contare non è la provenienza politica di Bersani e compagnia: nessuno meglio di Monti sa che i suoi presunti avversari sono da tempo convertiti al liberismo, ed anche la puntatina al vertice del PPE a Bruxelles non andrebbe enfatizzata – è solo uno spot gratuito, un omaggio resogli da politicanti che, nonostante la loro supponenza, restano dei precari. Lui no, lui ha un posto a tempo indeterminato: quello di monaco-guerriero al servizio dei mercati mondiali. Le ideologie tradizionali sono costruzioni teoriche, “narrazioni” da convegno, chiacchiera; quella che lui e i suoi confratelli impersonano è viva e concreta, un’idea che si è fatta natura, e trasforma in profondità il mondo. Non assistiamo più ad un fenomeno di erosione lenta del territorio sociale: la crisi è come un’onda anomala che rimescola terra e acqua. Uomini ordinari non sono all’altezza di gestire una situazione straordinaria – serve l’esperto, serve Mario Monti, che non può quindi accontentarsi di un comodo seggio al Quirinale.
Seguirà l’esempio del collega Prodi il docente bocconiano, e diventerà il “podestà straniero” del centrodestra? Immaginiamo di no, perché non gli conviene. Se è vero che il centro casinista ha disperato bisogno di Monti per sopravvivere non è affatto vero il contrario: anzi, presentarsi alla guida di uno schieramento screditato ed ultraminoritario sarebbe un passo falso, oltre che un rischio enorme. Neppure l’abbraccio di Berlusconi è di buon auspicio: anche se in vendita (il prezzo è accettabile: impunità e garanzie per Mediaset), il cavaliere resta un personaggio ingombrante, che spacca in due il Paese.
Per condurre a termine il suo compito, il professor Monti deve interpretare, per qualche anno ancora, il ruolo super partes del semidio disceso dal cielo per salvare l’Italietta dal drago spread e dall’infida classe politica che ci ha portato lo sputafuoco in casa. Super Mario ha due maniere per raggiungere l’obiettivo: la prima è far pressione sul PD, per convincere i maggiorenti democratici ad accordarsi col centro, in modo che sia assicurato un amplissimo, quasi unanime sostegno politico al Monti bis. Hoc est in votis.
Se la manovra fallisse, il premier dimissionario potrebbe ritirarsi momentaneamente nell’ombra, giocando però sottobanco la carta di una riedizione del 2006, cioè dell’ingovernabilità – si tratterebbe di contribuire al rafforzamento del centrodestra per arrivare, con l’aiuto del Porcellum (e quello involontario di Grillo) ad un sostanziale pareggio. A questo punto, la minaccia esterna (vale a dire la crisi economico-finanziaria, che nell’ultimo anno è stata adeguatamente alimentata) costringerebbe i quiriti a richiamare in servizio Cincinnato.
Se il PD recalcitra, e Bersani resta sulle sue posizioni, viene meno qualsiasi alternativa alla seconda strada, che però è più lunga e insidiosa, se non altro perché, per arrivare primo al traguardo, Monti necessita del verificarsi (non scontato) di alcune circostanze favorevoli. 
Sia chiaro: se si imponesse Bersani, la stella polare dell’esecutivo sarebbe comunque l’Agenda Monti, attuata tuttavia da mediocri mestieranti anziché da un team di professionisti.
Chi scrive dubita che si arriverà al duello tra i paladini dell’Agenda, cioè tra il bocconiano e lo scudiero piddino: la volontà dei mercati è molto più forte di quella di Bersani, e una tempesta spread permetterebbe a quest’ultimo di fare marcia indietro salvando la faccia (e masticando amaro).
Staremo a vedere. Per il momento non si può escludere nulla, neanche un’ulteriore crescita di Grillo - nonostante gli strali che piovono su di lui da ogni lato - e la formazione di un credibile quarto polo di sinistra (Cambiare si può? Forse sì, ma le dichiarazioni sono contraddittorie, i movimenti incerti).
Potrebbe addirittura darsi che Monti sia meno astuto di come lo dipingiamo, e commetta qualche errore grave di posizionamento, rimediabile con difficoltà.
Sarebbe una lieta sorpresa scoprire che anche i Bilderberg sbagliano, e che i cialtroni non stanno solo in politica; ma, vista l’estrema gravità della situazione, non possiamo permetterci il lusso di coltivare illusioni.


[1] Si veda Repubblica di sabato 15 dicembre (pag. 11).


martedì 18 dicembre 2012

La laicità clericale di Grillo



di Marco Barone



Trieste. Piazza della Borsa gremita di persone che seguiranno quello che non doveva essere un comizio, ma che poi altro non è stato che un comizio di Beppe Grillo. Una cannonata di informazioni senza tregua. Lui dice che siamo in guerra. E lui bombarda,urla in modo impressionante e dominante, passa da un tema all'altro senza alcun nesso, poi una sosta per una barzelletta, poi il fucile mira e spara, ancora. Non hai il tempo di soffermarti a riflettere su una specifica informazione che te ne arrivano altre mille. Ma gli applausi arriveranno, specialmente sulle tematiche anti-casta, anti-partiti. Affermerà che il suo movimento altro non è che un cuscinetto, già un cuscinetto che assorbe tutta la rabbia e la depressione della gente comune, e come coronamento ecco la chicca finale, affermerà che i veri moderati sono loro. Ed ha ragione. Il suo movimento non è anti-sistema, e per tale intendo il capitalismo, ma è riformista e moderato. E' un movimento che vuole catturare la rabbia viva e concisa e repressa della gente comune per riportarla nel recinto del sistema che lui vuole riformare. Il Movimento a 5 Stelle è una realtà politica e sociale ben affermata. 

Lo critico così come critico tutti i partiti ed i movimenti esistenti. 
Ma cosa è veramente rivoluzionario? Questo è il punto nodale della questione. Se il problema è il capitalismo, la soluzione non è e non può essere un cuscinetto che assorbe l'onda anti-sistema, perché quel cuscinetto sarà solo pro-sistema, poiché vorrà solo riformarlo e non ribaltarlo. Quando Grillo terminerà il suo comizio, verrà fermato dalle telecamere. In quel momento alzerò la voce è dirò “perché nel tuo programma non vi è una sola parola sulla laicità, ti sembra normale che la Regione del FVG continui a stanziare milioni di euro per le Chiese per sistemare ad esempio cappelle ed altari quando le scuole pubbliche cadono a pezzi? Perché non dici basta all'insegnamento della religione cattolica a scuola?”E lui mi risponderà, e di questo devo prenderne atto poiché non è scontata come cosa, che la Chiesa, come ha avuto modo di dire con il Cardinal Bagnasco deve essere riformata, che la Chiesa è presente nei territori ed è un bene, che l'integrazione religiosa è importante per la conoscenza. Insomma non ha detto in quel momento no ai finanziamenti pubblici alla Chiesa, non ha detto no all'insegnamento della religione cattolica a scuola, i cui insegnanti vengono pagati dallo Stato italiano ed hanno diritti che al personale precario statale non vengono ancora riconosciuti, come la progressione di carriera. D'altronde era il 2006 quando nel suo blog si leggeva che alla fine anche i Vescovi vanno protetti dall'estinzione. 
Nulla di straordinario. Ma un movimento sarà realmente destabilizzante e rivoluzionario quando romperà definitivamente i rapporti con il clericalismo, quando sarà integralmente laico ed anticapitalista. 




sabato 15 dicembre 2012

Il progetto europeo pericolante, di Riccardo Achilli


di Riccardo Achilli




L'economia tedesca su un crinale pericoloso

I recenti dati congiunturali sull'economia tedesca sono univoci, e preoccupanti. La crescita del PIL, che è stata, in volume, pari al 3,1% nel 2011, nel 2012 dovrebbe attestarsi su un modesto 0,9%, per poi scendere ulteriormente allo 0,6% nel 2013. I segnali di rallentamento del ciclo sono peraltro colti dagli indicatori anticipatori. L'indice IFO è in caduta libera: il sub-indice sul clima di business scende dal valore di 108,3 di gennaio 2012 a 101,4 a novembre, e certo il lieve incremento congiunturale sul mese precedente (+1,4 punti) non basta a tratteggiare una aspettativa di recupero; il sub-indice sulle aspettative di business scende, sul medesimo periodo, da 100,9 a 95,2, ed anche qui il lieve recupero fra ottobre e novembre non è tale da configurare alcuna prospettiva di ripresa economica in futuro. Ciò anche perché il saldo fra risposte positive e negative circa il clima degli affari, anche a novembre 2012, permane negativo per tutti i settori produttivi (seppur con un recupero rispetto ad ottobre), ad eccezione del solo commercio all'ingrosso. Il superindice Ocse, un indice composito con elevata capacità di anticipare l'andamento futuro del ciclo, nell'ultima release aggiornata ad ottobre 2012, anticipa un peggioramento per il ciclo economico tedesco per i prossimi mesi, con un outlook di “crescita debole”.
Tutto ciò ha evidenti riflessi sul mercato del lavoro. Il tasso di disoccupazione tedesco, secondo le proiezioni dell'Ocse, dovrebbe passare dall'attuale 5,3% stimato per il 2012 al 5,5% nel 2013, fino al 5,6% nel 2014, per oltre 130.000 disoccupati in più rispetto al valore attuale. Il ciclo economico tedesco, come era prevedibile, si avvia verso la stagnazione. Alcuni dei principali mercati di esportazione della Germania sono infatti localizzati proprio in gran parte di quei Paesi PIIGS che le politiche di austerità imposte dalla Merkel hanno distrutto. Fra 2012 e 2014, l'Ocse prevede infatti un tracollo delle esportazioni nette tedesche del 16,9%. Inoltre, poiché a quanto pare, nonostante lo spread, le banche tedesche continuano a fidarsi dell'Italia, visto che la sola Deutsche Bank, nel secondo trimestre del 2012, ha accresciuto la sua esposizione su titoli del debito pubblico italiano del 29%, arrivando a 2,52 miliardi di euro, è chiaro che la persistente recessione economica dei Paesi PIIGS, con il conseguente continuo aumento del debito pubblico, endogeno alla crescita stessa, non potrà che avere effetti depressivi sul mercato creditizio interno alla Germania, e quindi sugli investimenti.

I trattati europei saranno ammorbiditi

Sono quindi chiare almeno due cose. In primis, che certamente la politica della Merkel ha parzialmente messo al riparo l'economia tedesca dalla recessione. Scaricando sui PIIGS praticamente tutto il peso della ristrutturazione del debito pubblico europeo necessaria per preservare l'area euro dal crollo (ricordiamo che l'area euro è di fondamentale importanza per l'industria tedesca, poiché ha di fatto eliminato le politiche di svalutazione competitiva messe in campo dalle altre economie europee sue concorrenti dirette, in primis quella italiana), ha potuto preservare l'economia del suo Paese dal crollo subito dai PIIGS, avviandola verso una ordinata stagnazione. Il tutto in una condizione in cui, in realtà, la condizione di maggiore “virtuosità” dei conti pubblici tedeschi è frutto in parte anche di trucchi contabili. Come evidenziano gli studi fatti dalla Fondazione tedesca Markwirtschaft e dalla Facoltà di Economia di Friburgo, e come conferma Eurostat, il fatto che il debito pubblico, come calcolato in base alle regole scritte nel trattato di Maastricht, non includa il cosiddetto “debito pubblico implicito”, ovvero la proiezione sul debito pubblico futuro della spesa attualizzata per pensioni, sanità ed assistenza sociale, fa si che non si considerino i rischi di sostenibilità futura del debito tedesco. Infatti, il welfare pubblico tedesco, di gran lunga il più dispendioso di tutta l'area-euro, porterebbe ad un “divario di sostenibilità” del futuro debito tedesco pari a 111,8 punti di PIL aggiuntivi, a fronte di un divario di sostenibilità del debito implicito pari soltanto a 28 punti di PIL per l'Italia. Ciò significa che, a bocce ferme, se oggi il debito pubblico tedesco è certamente notevolmente più sostenibile di quello italiano, nel futuro sarà vero il contrario, e la Germania correrà verso un baratro finanziario. Strana concezione del calvinismo, quella di castigare le future formiche da parte di una futura cicala. Senza poi contare il fatto che, contabilizzando anche i titoli emessi dal Kfw (la Cassa Depositi e Prestiti tedesca) il debito pubblico tedesco schizzerebbe in alto di ben 428 miliardi (ben di più dei 300 miliardi di obbligazioni analoghe emesse dalla nostra CDDPP).
In secundis, diviene oramai evidente che la stessa Germania non potrà che farsi promotore di una revisione dei trattati europei, il fiscal compact in primis, perché il tracollo dei mercati di esportazione nell'Europa mediterranea sta portando la crisi anche a Berlino, e la potenziale deflagrazione di una crisi da doppio deficit negli USA rischia di dare un colpo ferale ad una Europa indebolita dalle politiche liberiste attuate sinora. Quindi, vi sarà quasi certamente un allentamento del fiscal compact, probabilmente ottenuto scomputando gli investimenti pubblici dal calcolo del deficit, tramite una sorta di golden rule, così come, a livello interno italiano, una qualche forma di redistribuzione del carico fiscale, riducendo di qualche grado l'imposizione diretta sul lavoro, ed introducendo qualche forma, sia pur imbastardita, di patrimoniale, oppure di tassazione sulle rendite patrimoniali. E ci sarà anche, a livello europeo, qualche forma, molto leggera per non spaventare i mercati, di regolamentazione dei mercati finanziari, con l'introduzione di agenzie di rating pubbliche, qualche sistema di early warning per anticipare bolle finanziarie con effetti sistemici, una più rigida vigilanza, di livello europeo, sulla solidità finanziaria delle banche, che già si sta predisponendo. Forse, più per motivi simbolici che reali, stante la sua inefficacia concreta nel disincentivare gli investimenti finanziari over the counter, vi sarà una vera e propria Tobin tax europea. Prevedo che l'allentamento dei trattati avverrà dopo le elezioni tedesche di autunno, che molto probabilmente costringeranno la Merkel a fare un governo di compromesso con la Spd.

L'inevitabile indebolimento dell'area-euro, anche dopo la crisi

Tuttavia, è da vedere se si possa uscire dalla recessione con un po' di revisioni all'acqua di rose del fiscal compact, atteso che nei prossimi mesi ed anni vi saranno da disinnescare una serie di bombe, che potranno prolungare la crisi. Le bombe sono rappresentate dal doppio disavanzo statunitense, la cui soluzione è oramai non più rinviabile da Obama, perché il fiscal cliff è oramai giunto al momento in cui qualsiasi scelta di politica economica comporterà effetti recessivi; anche lo scenario in cui il fiscal cliff verrà evitato, il rapporto fra deficit federale e PIL scenderà di almeno due punti entro il 2014. Inoltre, poiché il dollaro, come valuta di riferimento internazionale, è sotto serio attacco (alcuni acquisti internazionali di petrolio già si effettuano in renmibi), e la sua difesa richiede un forte riaggiustamento della bilancia commerciale statunitense, che sarà ovviamente pagato dalle esportazioni versi gli USA degli altri Paesi, tale riequilibrio genererà effetti recessivi sull'Europa. Una seconda bomba potrebbe provenire dalle contraddizioni interne del modello di crescita cinese, che potrebbero rallentarne il tasso di crescita potenziale.
Ammesso e non concesso che il capitalismo scansi questi pericoli, ciò che rimarrà in uscita dalla crisi, quando i trattati saranno rivisti per consentire la ripresa, prima che la crisi trascini verso il basso anche la Germania, sarà stata la pesante ristrutturazione del modello sociale europeo, ed uno schema di Unione europea in cui la Germania e i suoi addentellati nordici, seguita in parte dalla Francia, avrà rafforzato la sua egemonia economica sugli altri Paesi, e ci restituirà un'Unione europea più debole politicamente, influenzata in modo determinante nelle scelte economiche dagli egoismi nazionali. E ci sarà poco da illudersi: l'impoverimento dei paesi mediterranei, l'allargamento della forbice del benessere e dello sviluppo potenziale fra Nord e Sud dell'area euro, avrà effetti distruttivi non solo su ogni possibile prosecuzione dei processi di integrazione, ma finirà per creare i presupposti per l'esplosione di nazionalismi rovinosi, sulla spinta del risentimento. E' sostenibile una condizione in cui il PIL dei Paesi PIIGS, rispetto al PIL complessivo dell'area euro, passa dal 34,9% nel 2008 al 33,5% nel 2011, e scenderà ulteriormente, secondo le previsioni Eurostat, fino al 32,4% nel 2014? Tali differenze di benessere non faranno altro che alimentare rancori e nazionalismi. E saranno stati innescati dagli egoismi dei Paesi nordici, Germania in testa, che hanno scaricato a sud gli oneri della ristrutturazione dalla crisi dei debiti sovrani.
Non soltanto in termini politici, ma anche strettamente economici, l'area-euro che uscirà dalla crisi sarà strutturalmente più debole e più esposta ad attacchi speculativi o shock asimmetrici. Non a caso i modelli di area valutaria ottimale, persino quelli elaborati da economisti borghesi come Kenen e Mundell presuppongono, come postulato fondamentale per il funzionamento dell'area monetaria e per la sua resilienza di fronte ad attacchi speculativi, une elevato omogeneità nei parametri reali delle economie partecipanti all'area. In tali modelli, infatti, fra le condizioni di fondo di stabilità dell'area valutaria, si presume:
  • elevata omogeneità dei mercati del lavoro e dei capitali, per favorire la mobilità di tali fattori,
  • integrazione e centralizzazione delle politiche fiscali, al fine di rendere sostenibili le 'sacche di disoccupazione' che inevitabilmente si verificherebbero a seguito di oscillazioni nelle esportazioni combinate con una imperfetta mobilità del lavoro; in sostanza, trasferimenti, oppure crediti fiscali, dalle aree più "ricche" a favore di quelle più "povere"; ad esempio, Bayoumi e Masson (1995) hanno analizzato la politica fiscale federale negli USA e nel Canada (due unioni monetarie che funzionano da tempo, costante punto di riferimento negli studi sulle aree valutarie ottimali), rilevando che in entrambi i paesi sono previsti sia trasferimenti di lungo termine (erogazioni a favore delle regioni tradizionalmente più "povere") sia risposte di breve termine per gli shock asimmetrici; nell'area-euro esiste solo il primo tipo di trasferimento, attuato mediante le politiche di coesione ed i fondi strutturali, mentre non esiste il secondo tipo, che andrebbe realizzato tramite incentivi fiscali per le aree deboli, che invece la legislazione europea sugli aiuti di Stato alle imprese vieta (o perlomeno rende molto difficili, il punto è infatti controverso, e sembra che il muro ocmunitario contro incentivi fiscali localizzati territorialmente si stia lentamente sfaldando);
  • omogeneità nell'andamento del ciclo macroeconomico dei Paesi partecipanti (Mundell, 1961). Se, come avvenuto nell'area-euro, prendendo a riferimento le sue principali economie, fra 2007 e 2012 la Germania cresce, in termini reali, del 7,3%, la Francia del 2,7%, l'Italia invece subisce una decrescita di 5,1 punti, la Spagna è più o meno in stagnazione (-0,6%) è chiaro che gli enormi differenziali nazionali nel trend ciclico impediscono che si creino segnali univoci per stabilire la direzione (espansiva o restrittiva) della politica monetaria, che non può più essere utilizzata per fini anticiclici, ma nemmeno per il controllo di prezzi e tassi di interesse, atteso che qualunque decisione premierebbe una parte dei partecipanti dell'area, e penalizzerebbe un'altra parte. Inoltre, in presenza di imperfetta mobilità dei fattori, cicli macroeconomici divergenti creano bacini permanenti di sottocupazione nei paesi in recessione, non compensati dalla creazione di occupazione nei Paesi in crescita.
Un corollario della condizione di cui sopra è che, in presenza di barriere alla mobilità dei fattori, vi deve essere elevata omogeneità nel CLUP (rapporto fra costo e produttività del lavoro) fra i Paesi membri. Ciò infatti consente di omogeneizzare le condizioni di competitività, evitando di creare grossi squilibri fra le bilance commerciali, che si riflettono evidentemente in divergenti andamenti ciclici, con le conseguenze negative di cui sopra. Ora, se in Germania tale valore è, al terzo trimestre 2012, pari a 107,9 ed in Italia è di 114,7 (valore di riferimento media Ocse = 100 nel 2005), essenzialmente a causa di differenziali di produttività manifesti, ciò crea differenziali di competitività, che inevitabilmente si riflettono in differenziali sul ciclo macroeconomico dei due Paesi, ancora una volta con le controindicazioni di cui sopra.

Un modo di vedere il progressivo divergere fra ciclo economico italiano e tedesco è l'andamento degli indici di produzione industriale, che iniziano a differenziarsi, in peggio per il nostro Paese, dal 2004, come conseguenza dei divari di produttività (e dell'impossibilità per il nostro Paese, entrato nell'euro, di fare svalutazioni competitive)


Il problema è quindi chiaro: una Germania che, insieme ai suoi addentellati nordici (Olanda, Finlandia, ecc.) rafforza la sua egemonia economica sull'area-euro, scaricando sui PIIGS la ristrutturazione finanziaria e sociale derivante dalla crisi dei debiti sovrani, sta contemporaneamente indebolendo l'area-euro nel suo insieme, rendendola più vulnerabile a shock asimmetrici, che colpiscano solo alcuni Paesi e non altri (tipicamente quelli con i fondamentali macroeconomici reali più deboli). Se ad esempio l'Italia entra in una crisi derivante da un crollo delle sue esportazioni, magari addirittura favorendo il commercio estero tedesco, ecco che si genera immediatamente un differenziale nel ciclo macroeconomico fra tali Paesi, che neutralizza ogni possibile risposta di politica monetaria, o addirittura genera una politica monetaria restrittiva, che amplifica il differenziale, nel tentativo di difendere il tasso di cambio dell'euro dal declino dell'export extra-euro dell'Italia. La difficoltà di realizzare una politica monetaria in una direzione chiara, a causa di segnali macroeconomici discordanti fra i vari Paesi membri, fornisce incentivi immediati ad una ondata speculativa contro il tasso di cambio. Oppure, in assenza di una politica fiscale comune, la necessità per l'Italia di contrastare con ammortizzatori automatici di spesa e tassazione la sua recessione può fornire un segnale verso l'aumento dello spread dei titoli pubblici italiani contro quelli tedeschi, innescando una speculazione contro il debito sovrano italiano.

In sintesi

In sostanza, ogni azione che tende a creare, o a rafforzare, una situazione di vantaggio competitivo di uno o più membri dell'area valutaria sugli altri, in assenza di politiche fiscali unificate e quindi di meccanismi fiscali compensativi, non fa che indebolire inesorabilmente l'intera area valutaria di fronte ad attacchi esterni innescati da shock asimmetrici. Ad aggravare tale situazione, si vanno ad aggiungere anche fenomeni di indebolimento della coesione sociale interna, ed emergenti nazionalismi. Aver scaricato il peso della crisi sui PIIGS, preservando la propria domanda interna, da parte delle economie “egemoni”, Germania in primis, si rifletterà intevitabilmente su tutta l'area valutaria. D'altra parte, aver realizzato una ristrutturazione sociale in senso neoliberista nei Paesi PIIGS (molti dei quali sono mercati prioritari di esportazione per le economie nordiche “egemoni”) potrebbe contribuire ad indebolire la domanda interna di tali Paesi per tanti di quegli anni, anche quando tornasse la ripresa grazie alla revisione imminente dei trattati, che ciò si convertirebbe in una penalizzazione duratura sulla crescita delle stesse economie egemoni, in una sorta di gioco a somma negativa in cui perdono tutti. Va considerato infatti che, per le differenti propensioni marginali al consumo delle diverse classi di percettori di reddito, il peggioramento delle condizioni di equità distributiva indotto dalle riforme neoliberiste potrebbe impedire un incremento sostanziale della domanda per consumi, anche in presenza di una vivace crescita economica complessiva: se i frutti di tale crescita vanno sorpattutto ai più ricchi, che hanno una propensione marginale al consumo stutturalmente inferiore rispetto ai più poveri, potrebbe aversi la condizione di una crescita economica con una domanda che cresce di meno.
Un disastro, propiziato da una visione prettamente monetarista del concetto di area valutaria ottimale, propiziata da un approccio Bundesbank mirato a favorire di fatto gli investimenti sui mercati finanziari europei, che predilige l'omogeneità nei fondamentali finanziari ed inflazionistici, anziché in quelli reali. A differenza dei modelli di area valutaria ottimale di Mundell e Kenen sopra analizzati, che puntano l'attenzione sull'omogeneità delle economie reali, il trattato di Maastricht, base dell'attuale area-euro, punta tutta l'attenzione sull'omogeneità dei fattori finanziari e nominali, ovvero sui saldi di finanza pubblica dei Paesi membri e sui differenziali di inflazione e di costo del denaro. Tale approccio, scelto evidentemente per privilegiare e stabilizzare gli investimenti finanziari sui mercati europei (chi investe in attività finanziarie ha bisogno di un quadro di stabilità dei prezzi e dei tassi di interesse, quindi della neutralità dei bilanci pubblici, perché un quadro stabile riduce il rischio dell'investimento finanziario) si rifletterà disastrosamente su tutti, e rischia seriamente di minare alla radice la stessa coesione ed unità europea. Senza una politica fiscale comune e solidale, senza strumenti di omogeneizzazione e stabilizzazione degli shock asimmetrici, senza la ricostruzione di condizioni di crescita della domanda interna dei PIIGS, i risultati saranno pessimi per tutti, cara signora Merkel, cari burocrati ottusi della Bundesbank.

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