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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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venerdì 22 giugno 2012

Il Congo: una tragedia dimenticata, di Riccardo Achilli




Nel presente articolo si ripercorreranno i recenti avvenimenti storici della Repubblica Democratica del Congo, Paese che rappresenta, da solo, l'immagine stessa della tragedia di un intero continente. L'analisi degli avvenimenti congolesi recenti è propedeutica ad un esame dei suoi assetti sociali e quindi delle sue prospettive future, che sarà fatto alla fine.

I primi anni di indipendenza: l'ascesa di Mobutu

Decolonizzatosi dal dominio belga nel 1960, il Paese si ritrova in mano ad una giovane classe dirigente tecnicamente e politicamente impreparata a gestirlo, costituita essenzialmente da piccoli funzionari esecutivi del governo coloniale e da ex militari della guardia coloniale belga, sostanzialmente una sorta di mezza classe impiegatizia che era l'unica ad aver potuto ricevere una educazione di base in un Paese largamente analfabeta, ma assolutamente priva di esperienza politica di base e spesso, nel caso di chi veniva dai ranghi militari, anche culturalmente impreparata a guidare il Paese in forma democratica.
In un tessuto sociale di tipo tribale frammentato in centinaia di etnie, la dialettica politica che si va formando nella giovane Repubblica parlamentare si frammenta per appartenenza politico-ideologica e per linee etnico/tribali, creando un miscuglio esplosivo, foriero di future tragedie, non appena l'imperialismo occidentale, interessato alle incredibili ricchezze minerarie delle regioni dell'est e del sud del Congo accenderà la miccia.
E ciò avverrà immediatamente: le ricche regioni minerarie del Katanga e del Sud Kasai dichiarano subito la loro indipendenza, istigate dalla potentissima multinazionale belga Union Minière du Haut Katanga (che nel Katanga conserva importanti interessi nell'industria estrattiva) e dagli USA (nel caso della regione diamantifera del Sud Kasai, infatti, la multinazionale che finanziò i secessionisti era la Société internationale forestière et minière du Congo, detenuta in quota uguale dal Governo belga e da businessmen statunitensi).
Accanto agli interessi economici dell'industria estrattiva, vi è l'interesse politico, da parte degli USA, di bloccare la possibile estensione dell'influenza dell'Urss sulla neonata Repubblica, tramite il Primo Ministro Patrice Lumumba, eroe dell'indipendenza e di tendenza socialista nazionalista, che per contrastare l'influenza imperialista esterna e la conseguente disgregazione del Paese, con la perdita delle regioni più ricche, chiede immediatamente l'aiuto sovietico. Lumumba verrà quindi deposto da un colpo di Stato architettato dalla CIA, dopo esser stato isolato politicamente ad arte, mettendogli contro il presidente Kasa-Vubu (ed in questo caso sfruttando abilmente le divisioni etniche; Kasa-Vubu è infatti un Bokongo che sogna di imporre a tutto il Paese l'egemonia della sua etnia, mentre Lumumba è un Tetela) e provocando scissioni nel suo partito, l'MNC (abbandonato dal secessionista del Kasai Kalonji e dal moderato Iléo). Il colpo di stato che rovescia Lumumba è guidato da un altro suo ex alleato che lo abbandona, il capo di Stato Maggiore Joseph-Désiré Mobutu, che sfrutta abilmente le divisioni etniche nell'Esercito nazionale, imprudentemente “africanizzato” da Lumumba, eliminando troppo rapidamente gli ufficiali belgi che lo comandavano (e quindi creando, contemporaneamente, uno scadimento immediato della disciplina e il fiorire di bramosie, da parte dei vari gruppi etnici, ad occupare le ambite posizioni di comando lasciate libere dagli ufficiali europei; due ingredienti micidiali che aprono la strada al putsch militare). I militari baluba e bangala, che non si sentono rappresentati adeguatamente nella nuova catena di comando, sferrano il golpe, di cui Mobutu approfitta, grazie alla sua amicizia con il Governo belga, per prendere il potere a settembre 1960.
A quel punto, eliminato ed assassinato Lumumba, ed installato al potere Mobutu, l'Occidente provvede a cancellare gli esperimenti secessionisti del Katanga e del Sud Kasai, varati strumentalmente soltanto per indebolire Lumumba. Con l'aiuto delle truppe dell'ONU, che fino a quel momento erano rimaste passive ad assistere agli eventi, le regioni secessioniste vengono riconquistate dopo brevi ma sanguinosissime campagne militari, condite da azioni punitive contro le popolazioni civili sotto lo sguardo indifferente dei caschi blu, e contro la guerriglia lumumbista.
Nel 1965, Mobutu eliminerà anche il presidente Kasa-Vubu e, con l’adesione entusiasta degli USA e della ex metropoli fonderà una dittatura tipicamente africana, basata sui seguenti tratti caratteristici:
-          L’eclettismo ideologico; Mobutu sarà fino all’ultimo alleato politico degli USA, tanto da intervenire militarmente contro la guerriglia comunista in Angola, e da aprire, soprattutto nella prima fase, il suo Paese ad un enorme flusso di investimenti esteri nel settore minerario, ma non disdegnerà aiuti militari dalla Cina e dalla Corea del Nord, ed a metà degli anni Settanta inizierà una disastrosa politica di nazionalizzazione nel settore minerario, che gli allontanerà i favori del suo alleato occidentale, e che sarà pagata da un declino economico immediato e dall’allungamento della manomorta del FMI;
-          un richiamo all’identità culturale africana, non vissuto però, come fecero Sankara o Nyerere, come richiamo a forme di socializzazione comunitaria, ma come una africanizzazione soltanto di facciata, che finisce quindi per assumere toni grotteschi (il Paese viene ribattezzato Zaire, Mobutu si ribattezza con una espressione che significa “Il grande guerriero che va di vittoria in vittoria senza che nessuno possa fermarlo” e si fa vedere in pubblico con sontuose vesti in pelle di leopardo, animale che secondo i Bantu simboleggia coraggio ed astuzia);
-          un culto della personalità associato ad un consenso basato su legami etnici e tribali, e quindi inevitabilmente su una catena di corruzione e nepotismo capillarmente diffusa in ogni ganglio della società, e sul suo risvolto, ovvero una feroce repressione rispetto agli esclusi da tale cerchia ristretta di privilegiati. 
Il dittatore Mobutu



La fine di Mobutu e la prima guerra congolese

Di fatto, all’ingresso degli anni Novanta, Mobutu si ritrova in mano un Paese che non ha beneficiato di alcuna modernizzazione nel suo assetto sociale, con un tasso di analfabetismo in crescita, un impoverimento drammatico, con l’industria mineraria, l’unica a fornire le risorse di esportazione, in rovina, dopo le nazionalizzazioni, un debito pubblico alle stelle e la Banca centrale senza riserve, a causa delle continue razzie di denaro pubblico del clan mobutista, un Pil che scende a picco, e che nel 1994-1995 sfiora una decrescita di 15 punti percentuali all’anno, una iperinflazione che genera una svalutazione mostruosa: se a gennaio 1990 erano sufficienti 512,8 zaire per comprare un dollaro, a gennaio 1994 ce ne vogliono 355.500.000!! Il malcontento popolare diviene inarrestabile, e nel 1990 il regime è costretto a reintrodurre il multipartitismo, mentre lo stesso Mobutu, vecchio e stanco, si isola sempre più nella sua sontuosa villa nella giungla.
Il puntello tradizionale del regime mobustista, ovvero l’Esercito, si è dimostrato indisciplinato ed inefficiente: durante la campagna militare contro la guerriglia comunista angolana di Agostinho Neto, interi reparti dell’esercito disertano o si mettono addirittura a combattere fra loro. Nel 1977, quando Neto promuove una insurrezione secessionista nel Katanga, soltanto l’intervento congiunto di Francia, Belgio, Marocco, Togo e Costo d’Avorio, sotto l’egida dell’ONU, salverà Mobutu.
All’estero, poi, i suoi tradizionali protettori, Francia e Belgio, lo abbandonano non appena, con la caduta del muro di Berlino, non serve più avere gendarmi anticomunisti. In questo modo, il grande guerriero che va di vittoria in vittoria senza che nessuno possa fermarlo paga, nei confronti dei suoi protettori, le sue ambiguità, le nazionalizzazioni di imprese minerarie occidentali, il suo opportunismo politico e la sua megalomania.
Manca solo una piccola spinta per far precipitare un regime oramai debolissimo. E questa spinta arriva da un vicino dello Zaire, ovvero il Ruanda. Nel 1994, l’esplosione di questo Paese genera un gigantesco flusso di profughi, soprattutto di etnia Hutu. Circa 2 milioni di persone entrano in un Paese, come lo Zaire, prostrato da una crisi economica, sociale e sanitaria gravissima, facendo esplodere definitivamente la situazione. Fra i profughi si trovano i membri della milizia Hutu Interahamwe, che aveva preso parte al genocidio dei Tutsi ruandesi, armati di tutto punto ed in cerca di sopravvivenza ed impunità. 

Miliziani Interahamwe

 

La reazione del Governo Tutsi ruandese, installatosi al potere dopo il genocidio grazie all’intervento dell’ONU, è immediata: l’esercito governativo ruandese effettua continui raid nei campi profughi Hutu dello Zaire, sia per scovare miliziani Interahamwe da uccidere, sia soprattutto per razziare i profughi dei loro miseri averi, al fine di contribuire a rimpolpare le casse vuote del Governo del Ruanda. D’altro canto, gli Interahamwe rifugiati in Zaire, riorganizzatisi sotto la sigla RDR, conducono analoghi raid punitivi contro le popolazioni ruandesi, usando i campi profughi come basi logistiche.
Oramai la miccia per l’esplosione dello Zaire è innestata, e nonostante la decisione criminale di Mobutu di rimpatriare con la forza migliaia di profughi ruandesi, destinandoli a morte certa, oramai l’est dello Zaire è presidiato stabilmente dall’esercito ruandese e da milizie irregolari Interahamwe, e sfugge al controllo di Kinshasa. In questo caos, la provincia orientale del Kivu meridionale diviene lo scenario dell’ennesima rivolta anti-Mobutu. Quando il governatore mobutiano di tale provincia ingiunge ai Banyamulenge, una etnia di origine ruandese, di abbandonare il Paese, nel quadro delle espulsioni decise da Mobutu per tentare di arginare il contagio allo Zaire dei fatti ruandesi, costoro si rifiutano e, armati dal Governo Tutsi ruandese, il 7 ottobre 1996 iniziano a scambiare una fitta sparatoria, a colpi di mortaio, con l’Esercito governativo dello Zaire, sulle due rive del lago Kivu. Questo episodio è considerato l’inizio della prima guerra del Congo. 
Quasi immediatamente, i Banyamulenge si uniscono all’opposizione armata anti-Mobutu, rappresentata dall’Alleanza delle forze democratiche per la liberazione del Congo (AFDL). L’AFDL è composta da residui della sinistra lumumbista ed altre sigle minori, che rappresentano singoli gruppi etnici. E’ chiaramente una creatura del Governo ruandese Tutsi e del Governo ugandese di Museveni, dittatore filo occidentale interessato in modo particolare alle risorse diamantifere del Paese.
Con l’assistenza militare ruandese ed ugandese, l’AFDL inizia una campagna contro l’esercito dello Zaire e contro le forze Hutu dell’RDR, basata su attacchi ai campi profughi dell’est del Paese, sistematicamente distrutti. Migliaia di profughi vengono massacrati sul posto, altre migliaia costretti a rifugiarsi nelle foreste, dove saranno vittime di malattie, bestie feroci e fame. Come era prevedibile, l’indisciplinato e demotivato Esercito governativo dello Zaire si dissolve rapidamente ai primi combattimenti contro l’AFDL, mentre emerge, a capo dei ribelli, la figura di Laurent-Désiré Kabila. Originario di un’altra provincia tradizionalmente secessionista, il Katanga, estranea allo scenario del conflitto, che riguarda le province orientali, Kabila negli anni Sessanta guida una piccola milizia etnica, costituita da Lubas, alleata di Lumumba. Affarista e trafficante, verrà definito come “un contrabbandiere, più che un guerrigliero” da Che Guevara nel 1965. Dopo l’ascesa al potere definitiva di Mobutu, Kabila sopravviverà nella foresta del Katanga, trafficando in diamanti. 

Strage di bambini innocenti: l'immagine più emblematica della sporca guerra del Congo



Nel 1997 viene messo a capo dell’AFDL dal Presidente ugandese Museveni, con il quale traffica in diamanti da sempre, e provvede ad eliminare il suo rivale politico diretto, Kissasse Ngandu. Sotto la guida di Kabila, il Nord ed il Sud Kivu vengono rapidamente conquistati, ed i ribelli iniziano a volgere lo sguardo verso la capitale Kinshasa. La marcia verso la capitale viene favorita dalla popolazione civile che, stanca di Mobutu, accoglie i ribelli come liberatori, e dallo sfaldamento definitivo dell’Esercito governativo. Il 17 maggio 1997 l’AFDL entra a Kinshasa, Mobutu fugge in esilio e Kabila si autoproclama Presidente della Repubblica. L’AFDL viene immediatamente proclamata nuovo esercito nazionale.
Fin dall’inizio, la prima guerra congolese coinvolge altri Stati. Infatti, da un lato i ribelli dell’AFDL possono contare sull’aiuto militare del Ruanda, del Burundi e dell’Uganda, mentre dall’altro, Mobutu si fa spalleggiare dalla milizia angolana UNITA, che in passato aveva aiutato a combattere contro i comunisti, oltre che dagli Hutu ruandesi dell’RDR. Tale coinvolgimento di altri Paesi non è soltanto dovuto a motivi etnici (i Governi del Ruanda e del Burundi entrano in conflitto per spalleggiare i Banyamulenge, ovvero i Tutsi congolesi) ma soprattutto a motivi economici: il governo ugandese è infatti interessato a mettere le mani sull’oro e i diamanti,; il Governo ruandese di Paul Kagame è interessato a mettere le mani sulle ricchezze del Congo per ripagare gli enormi debiti contratti durante la guerra civile del 1994. Su tutto ciò, aleggiano gli interessi imperialistici, soprattutto della Francia e degli USA, alleati sia di Museveni che di Kagame, e che hanno volutamente lasciato l’AFDL rovesciare l’oramai scomodo ex amico Mobutu, al fine di riprendere il controllo del Paese con nuovi, ed auspicabilmente più presentabili ed affidabili, leader. 

Laurent Désiré Kabila



Il breve governo di Laurent-Désiré Kabila e la seconda guerra del Congo

Gli interessi esterni sul Paese (ribattezzato nuovamente Repubblica Democratica del Congo) mettono alle corde immediatamente il nuovo Governo di Kabila. Il suo tentativo di rendersi autonomo dal Ruanda e dall’Uganda, che mantengono sul territorio del Congo reparti dei propri eserciti, nonché di non farsi condizionare dai creditori internazionali dell’enorme debito pubblico accumulato da Mobutu, che ora pretendono il rimborso e quindi politiche economiche di estrema austerità, si ritorce contro di lui: spuntano fuori accuse internazionali per il genocidio dei profughi dei campi del Kivu, perpetrati nella prima fase della guerra, e ben presto le sue pratiche di corruzione e nepotismo, del tutto identiche a quelle di Mobutu, gli allontanano il favore dell’opposizione democratica, diretta da Francia e Stati Uniti. Ma anche le componenti politiche nazionaliste si allontanano rapidamente da Kabila, accusato di essere troppo accondiscendente con i suoi protettori esterni, ugandesi e ruandesi.
D’altra parte, Kabila eredita un Paese ingestibile: stremato dalla crisi economica indotta da Mobutu, ed aggravata dalla guerra, il debito pubblico alle stelle, alimentato anche dalle spese di guerra, le fragili infrastrutture di collegamento, specie verso l’est, danneggiate, la rete sanitaria nazionale, già fragilissima, stressata da migliaia di feriti di guerra e profughi, e le condizioni igieniche, già critiche, che sono arrivate a punti di rottura, specie nelle province orientali che hanno subito l’immigrazione dei profughi e la guerra. Intere aree del Paese sono oramai fuori dal controllo del Governo di Kinshasa, specie le aree minerarie più ricche: all’est, bande paramilitari costituite da Interahamwe superstiti, ma anche da reparti dell’ex esercito governativo allo sbando, da Banyamulenge e altri gruppi, imperversano, spesso attraversando tranquillamente la frontiera con il Ruanda. Il Katanga ribolle, come suo solito, di irredentismo, il nord est del Paese è presidiato dall’esercito ugandese, e su altre regioni del Paese operano altre bande armate, spesso costituite da componenti dell’ex esercito governativo mobutista.
Quando Kabila cerca di riprendere in mano questa situazione oggettivamente ingestibile, tutto quanto esplode nuovamente. A luglio 1998, cerca di liberarsi dell’influenza ugandese e ruandese: sostituisce il capo di gabinetto ruandese con un congolese, ed ordina alle truppe governative di Uganda e Ruanda di sloggiare dal Paese immediatamente. I Banyamulenge, preoccupati dalla possibilità che la rottura fra Kabila ed il Governo ruandese possa essere propedeutica ad un loro isolamento, prendono le armi, scatenando la seconda guerra del Congo. Il 2 agosto 1998, i reparti governativi di etnia Banyamulenge stazionati a Goma (al confine orientale con il Ruanda) si ribellano a Kinshasa, assistiti immediatamente dal governo ruandese che mette in piedi una coalizione anti-Kabila, il Rassemblement Congolais pour la Démocratie (RCD) composto soprattutto da Banyamulenge, e guidato da Ernest Wamba dia Wamba, che conquista gran parte della zona mineraria orientale (Kivu). Approfittando della confusione, l’esercito governativo ruandese entra in territorio congolese, occupando zone del nord est. 

Ribelli indipendentisti del Kivu durante la guerra

 
Kabila reagisce nel modo peggiore possibile: per contrastare l’RCD, composto da Banyamulenge (quindi da Tutsi) e l’esercito ruandese, anch’esso controllato da Tutsi, inizia a fomentare l’odio contro questo gruppo etnico da parte degli Hutu residenti nel Congo, anche mediante linciaggi pubblici nelle strade di Kinshasa. Ovviamente tale mossa fornisce un alibi all’intervento militare ruandese in Congo, spacciato come intervento umanitario a difesa delle popolazioni Tutsi.
L’Uganda, dal canto suo, motivata, esattamente come il Ruanda, dal desiderio di spartirsi la ricchezza mineraria congolese, sostiene un altro gruppo anti-kabila, il Mouvement de Libération du Congo (MLC), guidato da Jean Pierre Bemba Gombo, uno dei pochi criminali di questa sporca guerra che sono stati arrestati e processati. Le truppe dell’MLC, appoggiate da reparti dell’esercito ugandese, prendono quindi possesso del nord del Congo, scacciando i governativi.
Kabila sembra avere le ore contate. In una manovra di accerchiamento, dopo aver conquistato l’est, l’RCD prende possesso della base aerea della città occidentale di Kitona, sulla costa atlantica, rafforzando questa testa di ponte con reparti governativi ammutinati, e poi il 13 agosto conquista il complesso idroelettrico di Inga, che alimenta la capitale Kinshasa, ed il porto commerciale di Matadi, dal quale passa il grosso degli approvvigionamenti alimentari della capitale stessa. Kabila si ritrova quindi circondato da ribelli, ad est, ovest e nord, asserragliato in una capitale senza più rifornimenti elettrici ed alimentari. E senza più il controllo sul grosso della ricchezza mineraria nazionale, che potrebbe consentirgli di acquistare armi e mercenari per difendersi (il 23 agosto, infatti, cade nelle mani ribelli anche il grande centro diamantifero di Kisangani). Più in generale, l’esercito di Kabila appare non molto diverso da quello di Mobutu: poco disciplinato, poco combattivo, e con un comando evidentemente impreparato a gestire una guerra contro dei movimenti di guerriglia. Di converso, i ribelli Banyamulenge, tutti veterani della prima guerra congolese, utilizzano con efficacia la guerriglia.
Tuttavia, se Kabila è un mediocrissimo comandante militare, ciò non di meno si rivela un eccellente politico. Già da fine agosto, con la sua capitale minacciata dai ribelli, riesce a stringere un patto di assistenza militare con l’Angola, lo Zimbabwe, la Namibia, il Ciad, la Libia ed il Sudan. Le ragioni dei singoli Paesi sono diverse: l’Angola vuole cogliere l’occasione di intervenire in territorio congolese per eliminare le basi della guerriglia UNITA localizzate nel sud del Paese, e stipula anche un contratto in cui, in cambio dell’intervento militare, avrebbe ricevuto una grossa partita di diamanti; lo Zimbabwe è attratto da importanti concessioni minerarie che Kabila accorda alla famiglia del suo dittatore, Mugabe, e dalla volontà di accreditarsi come piccola potenza regionale; la Namibia è anch’essa “comprata” con promesse di concessioni minerarie; il Ciad viene inviato a sostegno di Kabila dalla Francia, desiderosa di riacquistare una influenza politica nell’Africa centrale, persa dopo il terribile genocidio del Ruanda del 1994. La Libia di Gheddafi vuole uscire dall’isolamento internazionale dopo i fatti di Lockerbie, e riprendere una capacità di influenza sulla politica africana (alcune testimonianze parlano anche di reparti speciali dell’esercito libico che operavano sul terreno; da notare come Francia e Libia si siano trovate, in questo frangente, dalla stessa parte, a sostegno di Kabila); il Sudan ha problemi con il Governo ugandese, che sostiene i ribelli del Sudan People’s Liberation Army, ed interviene in Congo, contro l’Uganda, per ritorsione. Oltre a cucire tale ragnatela di alleanze internazionali, Kabila si allea con i gruppi armati Hutu nell’est del Paese, che, nonostante il fatto che le province del Kivu siano sotto il controllo dell’RCD, proseguono in una guerriglia fatta di attentati e sabotaggi, che provoca danni alle linee logistiche ed ai rifornimenti del fronte avanzato dei ribelli, diretto verso Kinshasa.
A settembre, le forze dello Zimbabwe spezzano il fronte ribelle che sta accerchiando Kinshasa, finendo per scontrarsi direttamente con gli eserciti regolari di Ruanda e Uganda. Grazie ad accordi commerciali con compagnie diamantifere statunitensi, canadesi ed israeliane, Kabila riesce a riarmare il suo esercito, ed a gennaio 1999 il fronte di guerra, di fatto, si stabilizza: Kinshasa controlla l’ovest, il centro ed il sud del Paese, le fazioni pro-Ruanda l’est, quelle pro-Uganda il nord. Tale fronte, stabilizzatosi, si sbriciola in una miriade di micro-scontri, nella giungla e nei villaggi.
Tale esito è una tragedia per le popolazioni civili, poiché i diversi gruppi armati si insediano in varie porzioni del territorio, esigendo tributi dai civili, depredandoli, praticando lo stupro etnico, e avviando al conflitto con la forza migliaia di ragazzini, e in questo modo creando una generazione che, una volta cresciuta, sarà abituata a risolvere i problemi soltanto con la violenza (e quindi perpetrando anche nel futuro lo stato di guerra civile in cui versa il Paese). Inoltre, il ristagnare sul territorio di gruppi armati impedisce di far arrivare alle popolazioni alimenti e cure mediche, portando la situazione igienica, sanitaria ed alimentare verso la crisi finale. Nel 2001-2002, una epidemia di febbre emorragica da virus Ebola uccide l’80% dei contagiati, prima ancora che le autorità sanitarie ne sappiano qualcosa.

Bambini-soldato reclutati da una delle fazioni in lotta durante la guerra del Congo



Verso la fine del conflitto

Lo stallo nella linea del fronte, però, comporta più vantaggi per Kabila. Infatti, i ribelli, non riuscendo più ad avanzare verso la capitale, si logorano ed iniziano a combattere fra loro, evidenziando come soltanto il fronte comune contro Kabila fungesse da collante fra componenti caratterizzate da notevole ostilità reciproca. Quando Wamba dia Wamba sposta il comando dell’RCD a Kisangani, considerata, dal presidente ugandese Museveni, avido di diamanti, sua zona di influenza, quest’ultimo stipula un accordo di cessate il fuoco con Kabila, tramite una mediazione condotta da Gheddafi. Il Ruanda e l’RCD rifiutano di interrompere i combattimenti, rompendo quindi il fronte comune con l’Uganda. Ma anche all’interno dell’RCD scoppiano problemi: la posizione di egemonia dei Banyamulenge è mal tollerata dalle altre fazioni, e a maggio 1999 si verifica uno scontro armato violento, tutto interno all’RCD, a Kisangani, con la spaccatura in due.
A Luglio 1999, i ribelli, esausti da una guerra che non riescono a vincere, e privati dell’appoggio internazionale, addivengono ad un primo accordo di pace, firmato a Lusaka. Tale accordo prevede il disarmo di tutti i gruppi armati che operano nel Paese, ma il Governo ruandese fa il doppio gioco: da un lato, firma l’accordo di pace, per evitare le critiche internazionali, e dall’altro induce i suoi controllati dell’RCD a non firmare e continuare nelle ostilità. L’ONU stessa non mostra particolare entusiasmo nel far rispettare l’accordo, dispiegando soltanto 90 funzionari di collegamento, evidentemente troppo pochi rispetto alla situazione.
La verità è che il Ruanda non è affatto soddisfatto della ripartizione ottenuta, poiché le aree diamantifere sono sotto il controllo ugandese. E le tensioni fra Ruanda ed Uganda non tardano a scoppiare. Ad agosto 1999, gli eserciti regolari dei due Paesi si scontrano per il controllo del centro diamantifero di Kisangani. Kabila cerca, con il supporto ugandese, di riconquistare il Paese, ma viene anticipato da una larga offensiva delle forze ruandesi, che arrivano quasi fino a Kinshasa, prima di essere richiamate, a causa delle proteste internazionali, orchestrate da Francia e Stati Uniti, oramai stabilmente alleati di Kabila.
A Novembre, per proteggere il Governo di Kabila, l’ONU autorizza l’invio di 5.500 caschi blu, la missione MONUC. Ma le forze dell’ONU falliscono non soltanto nel tentativo di disarmare i ribelli, ma anche in quello di evitare nuovi scontri. In particolare, Uganda e Ruanda si scontrano ancora, durante la guerra dei 6 giorni, per il controllo dello strategico centro di Kisangani, ad inizio di Giugno del 2000, distruggendo completamente ciò che restava della città, e facendo 1.000 morti e 3.000 feriti. Ad Agosto 2000, Kabila si volge nuovamente contro l’Uganda, e lancia una offensiva, che sarà fermata, in una battaglia sanguinosa, lungo il fiume Ubangui, dalle forze filo ugandesi dell’MLC. 

La città di Kisangani distrutta dopo la guerra dei 6 giorni


 
A Gennaio 2001, Kabila viene assassinato da una sua guardia del corpo. I mandanti sono a tutt’oggi ignoti, ma vi è chi sospetta che ad ucciderlo siano stati proprio i suoi più diretti collaboratori, stanchi di promesse non mantenute circa la democratizzazione del Paese, e dei continui cambiamenti di fronti ed alleanze. Ma è invece probabile che ad ucciderlo sia stata una trama di compagnie diamantifere internazionali, che durante la guerra sfruttano illegalmente le miniere, e che vogliono far terminare il conflitto, per passare ad uno sfruttamento legalizzato e pacifico. Kabila si è infatti dimostrato palesemente incapace di pacificare il Paese o di riprenderlo sotto il suo controllo diretto, ed è dunque divenuto un ostacolo.
A dimostrazione di tale tesi, vi è che il figlio Joseph, che subentra al defunto padre come presidente della repubblica, si dà immediatamente da fare per pacificare il Paese, onde evitare di finire ucciso anche lui. Incontra infatti il presidente ruandese Kagame, al fine di avviare colloqui di pace. Significativamente lo incontra negli Stati Uniti, a dimostrazione del fatto che l’amministrazione USA, per conto delle multinazionali minerarie a stelle e strisce, è interessata ad un ritorno alla pace, per meglio mungere le risorse del Congo. Si trova quasi subito un accordo, sia pur nominale, su un piano dell’ONU, ed a febbraio Uganda e Ruanda iniziano il ritiro delle rispettive truppe. L’accordo di Sun City del 19 aprile 2002 stabilisce una road map verso elezioni multipartitiche ed un Governo di transizione. L’accordo di pace del 30 luglio 2002, a Pretoria, stabilisce il ritiro di circa 20.000 militari ruandesi ancora presenti sul territorio congolese, ma inizialmente non viene rispettato, poiché il governo ruandese pone, come condizione, il previo smantellamento delle milizie Hutu Interahamwe ancora attive nell’est del Congo, e ciò si rivela impossibile.
Solo ad ottobre 2002, sotto la pressione dell’ONU, il Ruanda ritira i propri soldati, seguito dall’Uganda. Il 17 Dicembre 2002 viene stipulato un accordo fra tutte le parti belligeranti interne al Paese per stabilire con maggior dettaglio il percorso verso la democrazia. Questa data è considerata la fine ufficiale della seconda guerra del Congo. 

Joseph Kabila


 
La RDC dopo la guerra

La guerra ha lasciato un’eredità pesantissima. Si stimano fra i 3,4 ed i 4,4 milioni di morti (praticamente si tratta del conflitto più sanguinoso dalla fine della seconda guerra mondiale), l’80% dei quali per malnutrizione e malattie indotte dalla guerra. Circa 3,4 milioni di civili si sono spostati all’interno dei confini del Paese, dopo aver perso tutti i loro averi, trasformandosi in profughi interni ed altri 2 milioni si sono rifugiati nei Paesi confinanti. Almeno 40.000 donne risultano vittime di stupri, condotti per finalità etniche. Decine di migliaia di bambini hanno combattuto ed ucciso, e ne escono devastati nel corpo e nella psiche, irrecuperabili per la società, spesso trasformati in bande di delinquenti di strada, o distrutti dall’assunzione di droghe ed alcool. Per via degli stupri, della malnutrizione, dell’impoverimento, dello spostamento continuo di truppe e profughi da una regione all’altra, della distruzione delle infrastrutture logistiche, idriche e sanitarie, malattie come l’Aids, l’Ebola, il tifo, il colera, la sifilide, sono endemiche. 

Un campo profughi nel Kivu



Fame e malattie indotte dalla guerra hanno ucciso milioni di civili, più che negli scontri a fuoco

 

La già debolissima economia congolese ne esce completamente distrutta. Il Pil pro capite è attorno a 300 dollari, il che colloca il Paese ad un modestissimo 226-mo posto nel mondo. Il tasso di accumulazione è risibile, non raggiungendo il 24% del PIL, a causa dell’enorme fuoriuscita di capitali, soprattutto esteri, causata dalla guerra. Il 71% della popolazione vive al di sotto della linea di povertà. La speranza di vita alla nascita non raggiunge i 56 anni, ed il Paese è fra i primi 13 al mondo per mortalità infantile. Solo il 23% della popolazione ha accesso a reti fognarie decenti, solo il 46% ad acqua potabile igienicamente sicura. Quasi il 30% dei bambini con meno di 5 anni è sottopeso. La rete infrastrutturale, in particolare verso le aree minerarie dell’est, è distrutta. 

Villaggio congolese distrutto dopo il passaggio della soldataglia


La violenza che caratterizza il Paese non si è fermata. Gruppi armati continuano ad operare tranquillamente. Nel 2003 scoppia una nuova guerra, ancora una volta nella regione mineraria orientale del Kivu. Il Governo transitorio, infatti, stipula contratti minerari con la Cina, per lo sfruttamento del coltan (minerale fondamentale nella costruzione di processori elettronici) a condizioni più vantaggiose, per il Paese, di quelli preesistenti con compagnie europee e statunitensi. Quasi immediatamente, nella provincia del Nord Kivu si verifica un ammutinamento dell’esercito, guidato da un ex combattente dell’RCD, entrato poi nelle forze armate governative in base agli accordi di pace, il generale Laurent Nkunda. Gli ammutinati, tutti ex combattenti dell’RCD, sostenuti dalle compagnie estrattive occidentali estromesse dagli accordi con la Cina (quasi tutte anglosassoni, belghe, tedesche e svizzere, come verrrà confermato dal rapporto dell’IPIS del 2008), si nascondono nelle foreste e nel 2004 attaccano i reparti dell’esercito governativo stanziati nella città di Bukavu, nel Sud Kivu, occupandola ed abbandonandosi ad un massacro di civili, per poi ritirarsi nuovamente nelle foreste. Nel 2006, con la colpevolissima neutralità dei caschi blu della missione dell’ONU, che arrivano a dichiarare Nkunda “innocuo per le popolazioni locali” (nonostante i ben documentati massacri da lui compiuti a Bukavu due anni prima) questi attacca nuovamente l’esercito regolare, ingaggiando sanguinosi scontri attorno alla città di Sake.
A Nkunda è consentito di aumentare ancora i suoi effettivi, e di attaccare nuovamente le forze governative nel 2007. Solo alla metà di tale anno, infatti, gli Stati Uniti ufficializzano il loro appoggio a Kabila junior e quindi l’ONU dichiara ufficialmente che Nkunda è una minaccia per la stabilità della Repubblica Democratica del Congo (rimangiandosi quanto detto l’anno prima). Solo in tale anno, di fronte ai continui attacchi di Nkunda ed a documentati arruolamenti di bambini-soldato da parte di quest’ultimo, le forze ONU aiutano l’esercito governativo a schiacciarlo. Ma per poterlo fare, Kabila junior dovrà stipulare nuovi accordi con le milizie Hutu presenti nel Kivu, di fatto legittimandone l’esistenza. I combattimenti, sanguinosissimi, vedono però i 4.000 miliziani di Nkunda riportare numerose vittorie sui 20.000 soldati dell’esercito governativo i quali, nonostante l’appoggio aereo e di artiglieria fornito dai caschi blu, riportano perdite umane pesantissime. Nkunda, inoltre, riesce a mettere le mani su enormi stock di materiale bellico rubato all’esercito regolare ed a conquistare alcune città del Nord Kivu. Solo alla fine del 2009, e grazie all’improvviso voltafaccia del governo ruandese, fino a quel momento alleato di Nkunda (voltafaccia indotto ovviamente dalle pressioni degli USA e della Francia) quest’ultimo viene arrestato. La guerra del Kivu, fra 2005 e 2009, farà altre decine di migliaia di morti (quasi per il 100% civili) ed ulteriori centinaia di migliaia di profughi. 

Vittime civili della guerra contro Nkunda



L’est continua ad essere funestato, ad oggi, da milizie Mai Mai Hutu sostenute dal Ruanda (come la FDLR) e che raccolgono i componenti delle vecchie milizie Interahamwe, così come, nel nord est, si registra la presenza del brutale movimento guerrigliero LRA (Lord’s Resistance Army), un gruppo armato di fondamentalisti cattolici, che, dopo essere stato sconfitto in Uganda, si è ritirato nel territorio della Repubblica Democratica del Congo, seminando morte e terrore fra i civili (si stima che, da quando l’LRA si è stabilito nel nord est della Repubblica Democratica del Congo, cioè dal 2007, quasi 2.000 civili siano stati uccisi, 900 bambini costretti ad arruolarsi, e 390.000 profughi siano fuggiti).
I gruppi armati sono ancora ben installati in determinati territori, e ne sfruttano ogni risorsa, taglieggiando l’agricoltura, arruolando di forza uomini e bambini, ma soprattutto gestendo i siti minerari, ovviamente in nome e per conto di compagnie minerarie straniere, che usano tali gruppi armati come loro terminali locali. Nonostante l’embargo sulle armi e la presenza dei caschi blu, nel 2009 si contano circa 40.000 kalashnikov nel solo Nord Kivu.
Alla violenza dei gruppi armati si aggiunge quella politica. Nel 2004, un gruppo di nostalgici di Mobutu, tenta un colpo di Stato, e viene sconfitto dai lealisti. Nel corso delle elezioni presidenziali del 2006, i sostenitori di Kabila junior e del suo rivale Bemba si sfidano con armi pesanti nel pieno centro di Kinshasa. A Febbraio 2011, si verifica un nuovo tentativo, fallito, di colpo di Stato.

Gli assetti sociali del Paese oggi

Il Paese è devastato socialmente. Si stimano, al 2010, 1,5 milioni di profughi, totalmente sradicati dalle loro terre e dalle loro comunità tribali, e quindi trasformati in vagabondi senza speranza. I giovani, senza prospettive, si arruolano in massa nei gruppi armati Mai Mai, che offrono soldi facili, riconoscimento sociale, ed anche una struttura relazionale basata su legami di tipo egualitaristico, assente nelle tradizionali comunità tribali gerarchizzate. I bambini vengono regolarmente tolti dalle scuole ed inseriti in una vita di violenza e sangue, dove l’unica cosa che imparano è uccidere per non essere uccisi, mentre il tasso di analfabetismo tocca il 33% della popolazione di 15 anni e più, con punte del 47% nelle province più militarizzate, come il Kivu. 

I profughi interni al Congo generati dalle guerre e sradicati: un problema irrisolvibile


Lo sradicamento dalle comunità tradizionali, dovuto alla fuga o all’arruolamento in qualche gruppo armato, toglie braccia preziose all’agricoltura, in un Paese in cui milioni di persone sono denutrite, spezza i legami sociali tradizionali, creando centinaia di migliaia di emarginati, che si urbanizzano in bidonville, senza opportunità di lavoro decente, e divengono a loro volta vittime e reclute per ogni sorta di criminalità. La tradizionale autorità degli anziani e dei genitori, che teneva insieme la struttura sociale tribale, viene meno, in favore di un crescente individualismo ed opportunismo, che a sua volta alimenta la criminalità e la corruzione. L’aver vissuto per anni in un clima di morte e violenza educa alla via delle armi come unico metodo per risolvere i problemi.
Le istituzioni pubbliche sono poco autorevoli agli occhi dei cittadini, poiché ancora macchiate da nepotismo e corruzione. D’altra parte, non vi sono avanzamenti significativi verso una democratizzazione del Paese. Joseph Kabila è ancora al potere, dopo 11 anni, ed è stato rieletto nel 2011, in una tornata elettorale con forti sospetti di brogli, dopo essersi ritagliato una nuova Costituzione ad hoc, ed aver costruito il suo supporto su legami etnico-tribali e su una incredibile rivalutazione storica del colonialismo belga. L’Esercito nazionale è fragilissimo, a causa della lunga pratica di integrare al suo interno, ad ogni accordo di pace, i gruppi ribelli, facendo sì che oggi, esso sia un mosaico costituito da più di 80 gruppi armati, che hanno mantenuto la loro autonomia.
Questo sventurato Paese paga, in definitiva, tutte le tragedie tipiche dell’Africa: imperialismo, sfruttamento di risorse naturali ricchissime, miseria, guerre e violenze, malattie, corruzione ed autoritarismo, nepotismo tribale, sradicamento dei legami sociali tradizionali in nome di una modernità dai risvolti negativi, ingiustizia sociale. In fondo, paga per un processo di decolonizzazione che ha disegnato sulla carta uno Stato inesistente, facendolo sorgere artificiosamente da un insieme conflittuale di più di 200 etnie, imponendogli forme statuali e politiche occidentali, assolutamente inadeguate per la tradizionale cultura di clan e di etnia, ed una influenza imperialistica successiva devastante. Paga, come tutta l’Africa, per essere stato gettato nel capitalismo senza averne le strutture sociali e di classe, finendo quindi per trasformarsi in una mera terra di conquista per interessi economici esterni, con la fragilissima piccola borghesia formatasi in epoca coloniale, incaricata di svolgere il ruolo di borghesia compradora.
Oggi, la struttura sociale di questo Paese appare come una piramide, al netto delle poche aree in cui ancora resistono i tradizionali legami etnici e di clan. Al vertice di tale piramide si situano i leader militari dei vari gruppi armati, a loro volta organizzati su base etnica, e la ristrettissima borghesia compradora che occupa i ranghi politici e dell’amministrazione. Alla base, si colloca un proletariato, occupato soprattutto nell’industria estrattiva ed alimentare e nell’agricoltura, che non ha una borghesia nazionale contro la quale misurarsi, poiché i centri di controllo dell’economia sono localizzati al di fuori del Paese e dello stesso continente, e che quindi non ha modo di acquisire coscienza di classe, ed un enorme sottoproletariato, alimentato dalla guerra, sradicato dal suo modo di vita tradizionale, ma al tempo stesso non inserito in alcun modo di produzione alternativo, abbandonato all’assistenza internazionale nei campi profughi oppure ad una vita di stenti e lavoretti precari nelle bidonvilles, e quindi privato di qualsiasi identità sociale. I vertici militari dei gruppi armati hanno distrutto il modo di produzione tradizionale, sostituendolo non con rapporti sociali di produzione più avanzati, ma con una mera economia di rapina, basata sullo sfruttamento predatorio delle risorse delle aree sotto il controllo della banda armata. 

Ancora oggi, i gruppi armati imperversano in tutto il Paese


In questo modo, la società congolese si ritrova impantanata in una terra di mezzo: sradicata dal suo modo di produzione tradizionale, ed impossibilitata a tornarvi, ed al tempo stesso privata della possibilità di evolvere verso modi di produzione moderni, poiché dominata da aristocrazie guerrigliere e funzionariali che la mantengono all’interno di modi di produzione basati, per utilizzare i termini dell'analisi di C. Moffa (1993), sul conflitto interetnico per il controllo e lo sfruttamento delle risorse del territorio, in cui, all'interno dei rapporti fra clan, si riproducono forme di sfruttamento fra una aristocrazia dominante, definita su base etnica, ed i clan dominati e depredati. Tale modo di produzione basato sul conflitto interetnico per  lo sfruttamento delle risorse del territorio è poi mescolato all'imperialismo esterno, con gli stessi soggetti (i capi militari dei gruppi armati a base etnica, ed i loro addentellati nella borghesia urbana compradora) che fungono da sfruttatori dei clan sottomessi, e da cinghie di trasmissione degli interessi imperialistici. 

Il proletariato congolese schiavizzato nelle miniere del Kivu, per il guadagno delle multinazionali



Tale particolare forma assunta dal modo di produzione africano, come dimostra sempre Moffa, è la  radice di un sottosviluppo persistente, e dal quale non sembrano esservi vie d'uscita, poiché impedisce qualsiasi evoluzione ed ammodernamento dei rapporti sociali di produzione. Questa situazione senza sbocchi è in larga misura il frutto dell'imperialismo occidentale. E non ci sono aiuti allo sviluppo, o carità da parte delle Ong, che possa compensare il popolo congolese per essere stato derubato della sua storia e del suo futuro. 

Questa tragedia è stata motivata dalla avidità di minerali preziosi, fra i quali il coltan che serve per costruire i nostri personal computer



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