Fra la fine
del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo i governi europei provano ad
alleviare la condizione miserevole della classe lavoratrice, creando un primo
embrione di Stato sociale: in Italia Giolitti fa propri i risultati ottenuti
dal c.d. socialismo municipale dando impulso ai servizi pubblici locali, mentre
si affermano forme primitive di previdenza e assistenza agli “ultimi”.
Nel
ventennio fra le due guerre si fanno passi avanti (e locali dietrofront) a
livello continentale, ma è nei “trenta gloriosi” che il modello giunge a
maturazione, assicurando ai lavoratori e alle loro famiglie un tenore di vita accettabile,
diritti adeguati e – assieme ad essi – una cittadinanza non soltanto sulla
carta. Le ragioni di questa evoluzione sono molteplici, e la geopolitica gioca
un ruolo centrale; tuttavia l’attivismo e il consenso raccolto fra le masse
dalle formazioni d’ispirazione marxista sono potenti fattori di trasformazione socio-economica
tanto nella prima quanto nella seconda metà del secolo.
Sin dal
principio però le forze socialiste prendono a differenziarsi:
“programma minimo” e “programma massimo”, concepiti inizialmente come una sorta
di continuum, assurgono a strategie inconciliabili di partiti in serrata competizione
fra loro. I riformisti sostengono che sia possibile influire per via elettorale/parlamentare
sulle politiche nazionali, “conquistando” lo stato dall’interno e conducendolo
per mano verso il traguardo socialista; all’opposto, i massimalisti (e poi, con
ben altra coerenza, i comunisti di Lenin) ritengono indispensabile una spallata
rivoluzionaria per mutare drasticamente una
volta per sempre lo stato delle cose. Al netto degli inevitabili
opportunismi il disaccordo è su metodi e tempistica, non sull’obiettivo – che
resta per tutti l’edificazione di una società egualitaria, comunista.
Per un
certo periodo la Storia sembra voler dar ragione a entrambi i contendenti:
ovunque diritti e protezioni sociali si accrescono, anche se quasi mai a costo
zero. In ogni caso persino nell’opulento Occidente il Capitale si schiera sulla
difensiva e si rivela pronto a fare concessioni: dimentichi della lezione
marxiana, molti osservatori s’illudono che il presente sia destinato ad
eternarsi.
Gli anni
’80 segnano però una cesura netta: il disgraziato crollo del muro è lo squillo
di tromba della riscossa capitalista. Di fronte al precipitare improvviso degli
eventi i partiti socialisti e comunisti d’Europa provano perlomeno ad eternare
se stessi, ponendosi al servizio dei nuovi (e vecchi) dominatori: come afferma
il detto, “se non puoi batterli unisciti a loro” – e proprio questo fanno
laburisti inglesi, comunisti italiani, socialdemocratici tedeschi ecc.
Sotto i
colpi di controriforme dissimulate ma sferzanti lo Stato sociale si atrofizza e
inizia ad agonizzare: la freccia del tempo ha invertito la sua direzione, e la
sovrastruttura viene prontamente adeguata. Una parte per il tutto: la Grecia
odierna, dove Efialte Tsipras cancella pensioni e residui di diritti proprio mentre,
sotterrato ogni pudore, si vanta di aver cacciato un pugno di privati dagli
ospedali. La “Sinistra” fa il lavoro sporco e ci piglia pure per i fondelli…
Tutto
questo per dire: ha senso oggidì contrapporre un programma minimo, cioè
riformista, ad uno massimalista-rivoluzionario? La domanda è meno oziosa di
quanto appaia, perché numerose formazioni politiche della sinistra “autentica”
(esclusi cioè, in Italia, PD e LeU) sembrano credere che conseguendo un buon
risultato elettorale sia possibile “negare la negazione”, vale a dire
reintrodurre riforme migliorative.
Ragioniamo:
una proposta realmente riformista –
cioè non dettata dal sistema – deve presentare oggi un nocciolo di contenuti
minimi, che di seguito elenchiamo. Anzitutto, si tratta di restituire ai
lavoratori i diritti loro sottratti, se non di potenziarli. Corollario: la
libertà d’azione delle multinazionali operanti in Italia (Amazon, Eaton ecc.)
va fortemente limitata e il loro ingresso subordinato al rispetto di regole
cogenti - le sanzioni debbono essere puntuali, efficaci e appropriate.
Accetterebbero secondo voi le corporation questo cambio di paradigma, lo
accetterebbe la UE che sancisce, nei fatti, un insindacabile diritto delle
grandi imprese alla delocalizzazione? Punto due: per ricostruire lo Stato
sociale bisogna accordare all’intervento e agli interessi pubblici l’incondizionata
preminenza su quelli privati. Pensate che una politica siffatta avrebbe il
plauso di grandi gruppi assicurativi e fondi d’investimento? Senza scendere in
ulteriori dettagli, i due indirizzi citati e molti altri sarebbero riassumibili
in un semplice motto: attuiamo la Prima parte della Costituzione del ’48 – vi
pare un boccone digeribile per i finanzieri che già l’hanno bollata come
“socialista”? Ancora: i principi fondanti del nostro ordinamento, ispirati alla
solidarietà sociale, sono evidentemente incompatibili con i trattati europei,
che magnificano concorrenza e produttività (=sfruttamento) - e lo stesso vale
per la democrazia, che non può tollerare lo spadroneggiare di tecnocrati al
soldo di lobby fameliche. Quindi è necessario uscire dall’Unione Europea: è
immaginabile una pacifica risoluzione per mutuo dissenso? Il rifiuto
dell’imperialismo, poi, è un dogma per ogni marxista, ortodosso o meno che sia:
dire addio alla NATO ne sarebbe l’ovvia conseguenza, visto che l’alleanza è uno
strumento nelle mani dell’elite finanziaria globale, principale sponsor (con le
cattive e con le buone) dell’ondata migratoria in atto. Siete dell’avviso che i
militari a stelle e strisce e i loro pupari farebbero buon viso a cattivo
gioco?
Reputo
inutile proseguire con l’elencazione: ci siamo capiti, spero. Il riformismo è
un’opzione politica praticabile se la controparte è disponibile alle
concessioni; ma al giorno d’oggi – a differenza di cinquanta o cent’anni fa – mancano sia gli spazi di manovra che gli
interlocutori. Bernstein, Turati, Attlee e compagnia non conoscevano mr. Spread: al momento attuale non dico
la realizzazione, ma la semplice presentazione di un “programma minimo” degno
di questo nome provocherebbe un’aggressione finanziaria dall’esterno (se non
qualcosa di peggio) i cui connotati sarebbero quelli di una guerra lampo senza
prigionieri.
Dunque
nella presente situazione un programma minimo (ossia riformista) non può
esistere, se non convertendosi automaticamente in un “programma massimo”, vale
a dire rivoluzionario: questo perché le istanze dianzi citate possono acquisire
concretezza solamente a seguito di un drammatico
ribaltamento dei rapporti di forza, inconcepibile per via elettorale. A
contesto immutato anche un (poco verosimile) trionfo della c.d. sinistra
antagonista non darebbe frutti: l’esempio di Syriza è illuminante. La Storia
non condannerà Tsipras per essersi arreso a forze preponderanti e spietate,
pronte a servirsi di qualsiasi mezzo di indebita pressione, ma per aver
accettato – per meschina ambizione personale – di riciclarsi come loro pedina,
tuttavia il dato significativo resta il primo: contrastare il nemico accettando
la sfida sul suo terreno equivale a un inglorioso suicidio.
Come ho già
scritto in passato, nel XXI° secolo per avere riforme decenti è necessario fare
prima la rivoluzione: mi rendo conto che l’impresa è proibitiva, ma di
scorciatoie non ne vedo proprio. Ogni opzione alternativa serve al massimo a sciacquarsi
la coscienza, a potersi dire: ho assistito senza essere connivente. Dixi et salvavi animam meam (ma non la
vita né il futuro, purtroppo).
Quale
marginale utilità riconoscere allora alle elezioni del 4 marzo, che pure si
risolveranno in una disfida fra tre schieramenti devoti al sistema? A parer mio
(so di ripetermi: chiedo venia), esse offrono un limitatissimo diritto di
tribuna, che andrà sfruttato appieno per veicolare un franco messaggio di
rottura con l’esistente.
Ricoprendo
io il (non) ruolo di mero spettatore, posso soltanto augurarmi che qualche
compagno sia all’altezza del compito, e che le voci sostenute dal raziocinio
non vengano soffocate dalla caciara di quanti – e sono moltissimi – confondono
il marxismo con un vacuo collage di frasi fatte innaffiate da un buonismo
cretino e fuori luogo (come quello che predica la lotta all’ergastolo anziché
ai crimini).
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