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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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mercoledì 18 aprile 2012

Finanziamento pubblico ai partiti: le urla rauche dell’antipolitica, di Riccardo Achilli


Sul tema del finanziamento pubblico ai partiti si agitano discussioni enormi, spesso prive di dati di fatto, non di rado demagogiche, sia fra i sostenitori di tale sistema che fra i suoi detrattori. È spiacevole che tale situazione si verifichi, e che non vi sia una riflessione seria ed oggettiva su tale tema, che è strettamente legato alla forma della stessa democrazia, cui la particolare forma partitica (ivi comprese le sue modalità di finanziamento) è legata.
Il finanziamento pubblico ai partiti italiani fu introdotto nel 1974, dalla c.d. legge-Piccoli (dal nome dell’allora segretario della Dc) con il consenso quasi unanime di tutte le forze politiche di allora, sulla base dell’idea che un finanziamento regolare, garantito dallo Stato, avrebbe evitato ai partiti il ricorso a forme di finanziamento occulto da parte di lobby non trasparenti. Naturalmente la storia successiva del nostro Paese si è incaricata di smentire il fatto che il finanziamento pubblico, di per sé, se non assistito da efficaci meccanismi di controllo, trasparenza e sanzione, sia un rimedio contro il finanziamento occulto di lobby (ad iniziare dallo scandalo-Lockheed del 1976 per arrivare alle odierne sgomitate dei partiti di volta in volta al Governo, ad esempio per piazzare propri uomini alla guida delle Fondazioni bancarie, ed è meglio non aggiungere altro).
L’argomento dei tre segretari della maggioranza trasversale, i famosi ABC, secondo cui l’abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti condurrebbe ad un peso rilevante delle lobby, è però vera, da un certo punto di vista. Negli USA, dove non esiste finanziamento pubblico, ed i partiti sono sostanzialmente soltanto delle macchine organizzative, che fra l’altro hanno il compito di raccogliere i fondi privati destinati ai candidati alle varie elezioni, il lobbysmo è esplicito, manifesto e dichiarato: gli spalloni delle singole lobby, nel modo più legale e trasparente, presidiano i palazzi del potere e intrattengono regolari relazioni con gli esponenti politici, al fine di orientarne le politiche, e esponenti delle lobby stesse passano senza problemi dalla loro professione alla politica e viceversa (ed a volte sono anche eletti alla presidenza, si pensi a Bush, per ovvi motivi legato agli interessi dell’industria petrolifera).
Con il risultato che la democrazia USA è affetta da fenomeni che considero patologici, come l’esasperato personalismo che nasce dallo scolorirsi del ruolo dei partiti, che anziché essere, come lo intendiamo in Europa, i luoghi dell’elaborazione di una visione del mondo e di una sintesi politica in grado di dare rappresentanza ad interessi di classe, in una mediazione democratica, sono semplici macchine organizzative, con una semplice traccia generale di impostazione politica, che nella sua genericità consente posizioni individuali, dei singoli membri, fra le più diverse e contrastanti. Individualismo leaderistico in cui l’immagine del candidato prevale sui programmi, e che, in contesti non anglosassoni, ma ad esempio latini, darebbe luogo all’emergere di leaderismi populisti e peronisti (d’altra parte Berlusconi è il prodotto, nonché in buona misura l’artefice, della svolta individualistica e leaderistica che ha avuto la politica italiana).
Si tratta di un sistema politico in cui le probabilità di vittoria elettorale dei singoli candidati vengono correlate, nel dibattito politico e giornalistico, all’entità dei finanziamenti raccolti e del patrimonio personale, e quindi in cui, per forza di cose, gli strati sociali più poveri ed emarginati, che non possono contribuire, sono tagliati fuori dai giochi. Ed infatti, come sottolinea Averill (2008) soltanto il 48% di chi si trova al di sotto della linea ufficiale di povertà va a votare, a fronte del 77% di chi guadagna più di 50.000 dollari all’anno, cosicché gli astensionisti sono generalmente “poor, young, disable, unemployed, black and foreign-born, especially Latino and Asian” (aut. cit.) e stiamo parlando di circa 100 milioni di americani che non votano, anche se ovviamente non si può negare l’effetto disincentivante esercitato dall’obbligo di iscriversi alle liste elettorali per poter votare. Di conseguenza, i grandi interventi di politica sociale e redistributiva possono verificarsi soltanto in coincidenza con crisi economiche talmente gravi da scuotere i poteri capitalistici forti che dominano la scena politica (e quindi il New Deal di Roosevelt è stato messo in campo soltanto perché c’era da contrastare la Grande Depressione e le politiche liberiste messe in campo dal predecessore di Roosevelt erano miseramente fallite, e la riforma sanitaria di Obama, peraltro molto rimaneggiata rispetto agli intenti originari, è stata messa in campo in coincidenza con una nuova enorme crisi del capitalismo globale. Peraltro, la sopravvivenza della riforma è minacciata dai poteri forti, che sono riusciti ad ottenere che la Corte Suprema si pronunci in merito). Come dice Schudson (1998) “i partiti politici (statunitensi, nda) sono minacciati dalla crescita esponenziale dei gruppi d'interesse, dalla crescita dei loro uffici operativi a Washington, e dal fatto che si relazionano direttamente al congresso e alle agenzie federali. (I gruppi di interesse) che guardano a Washington cercano aiuti finanziari e morali dai cittadini comuni. Siccome molti di questi si focalizzano su un ristretto numero di questioni o anche solo su un singolo problema, generalmente di enorme peso emotivo, ne deriva un enorme impoverimento del dibattito politico”. Tra l’altro, come testimonia il caso-Abramoff del 2006, neanche la democrazia a stelle e strisce è esente da finanziamenti occulti di lobby opache.
È questa la forma di democrazia che vogliamo? Non credo. I partiti politici, intesi come luogo di elaborazione di una sintesi dei problemi e degli interessi delle classi che rappresentano, sono fondamentali. E non possono quindi essere semplici macchine organizzative, ma luoghi di dibattito politico, possibilmente plurale. Pertanto, il finanziamento pubblico è necessario. Anche perché stiamo parlando di cifre che non sono certo sconvolgenti: fra 1994 e 2008, il flusso di finanziamenti pubblici ai partiti è stato pari a 2,25 miliardi di euro, ovvero circa 150-160 Meuro all’anno. Stiamo cioè parlando dello 0,02% del totale delle spese delle pubbliche amministrazioni nel periodo considerato! Alle elezioni politiche del 2008, il rimborso elettorale è stato pari a 180 Meuro, ovvero circa lo 0,4% della manovra-Monti e lo 0,02% del totale della spesa pubblica di quell’anno. Vogliamo anche aggiungerci il finanziamento ai giornali dei partiti politici e ai grupi parlamentari? Benissimo, arriviamo a 240 Meuro, ovvero la stratosferica percentuale dello 0,022% della spesa pubblica totale.
Ma ovviamente, al di là dell’insignificante impatto che tale voce ha sui conti pubblici, c’è l’aspetto morale, importantissimo, in considerazione del fatto che di quei 2,25 miliardi rammentati, si stima che soltanto 570 milioni avrebbero dovuto effettivamente andare nelle casse dei partiti, e quindi vi è un problema di malversazione nell’uso di quei fondi, che però non si risolve eliminandoli, e quindi facendo il più grosso regalo possibile ai miliardari come Berlusconi, che possono stare in politica, perché possono finanziare la loro attività politica con i loro enormi patrimoni personali, mentre i più poveri ne vengono espulsi, ma si fa riformando, e rendendo più efficace, il sistema del finanziamento stesso.
A tal proposito, il recente rapporto del Consiglio Europeo (scaricabile qui) raccomanda l’istituzione di una revisione indipendente dei bilanci dei partiti, la creazione di una commissione di supervisione e controllo autonoma ed indipendente, l’inasprimento delle sanzioni in caso di utilizzo fraudolento del finanziamento pubblico, forme di riconoscimento della personalità giuridica dei partiti (in ciò innovando e completando anche l’art. 49 della Costituzione) l’abbassamento della soglia al di sotto della quale è possibile fare donazioni anonime, il potenziamento della comunicazione ai cittadini, anche tramite l’obbligo di pubblicazione su Internet dei conti dei partiti.
Devo dire che, almeno dalle indiscrezioni giornalistiche, il ddl proposto da ABC è coerente con tali indicazioni, anche se su alcuni aspetti occorrerebbe più coraggio (in luogo di un semplice congelamento del finanziamento pubblico al partito che commette irregolarità, sarebbe opportuno un irrigidimento anche delle sanzioni penali oggi previste, la raccomandazione della commissione GRECO circa il consolidamento della contabilità dei partiti anche in riferimento alle loro ramificazioni territoriali e locali non sembra essere stato colto, ecc.) .
I problemi veri sono altri, e cioè, ad esempio, il fatto che le attuali leggi di rimborso pubblico delle campagne elettorali discriminano i piccoli partiti (per ottenere il rimborso, per la Camera dei Deputati, occorre avere conseguito almeno l’1% dei voti su base nazionale; per il Senato, almeno il 5% dei voti su base regionale ovvero almeno un rappresentante eletto; analoghi meccanismi valgono per le elezioni amministrative e per le Europee). Questo meccanismo è antidemocratico, perché non si capisce in base a quale criterio un partito al di sotto di tali soglie, che pure ha condotto una onerosa campagna elettorale, non abbia diritto al rimborso. E’ un meccanismo fatto proprio per eliminare i piccoli partiti da una scena politica dove il “bipolarismo” viene stupidamente e continuamente esaltato, come se fosse il mantra di tutti i nostri guai.
Altro problema è la legge sulla par condicio (legge 28/2000), che consente l’accesso gratuito o sussidiato ai canali radiotelevisivi, in campagna elettorale, soltanto ai partiti che sono rappresentati in Parlamento, o hanno almeno due rappresentanti nel Parlamento Europeo. Con il risultato che, poiché la comunicazione televisiva diviene sempre più strategica per determinare gli esiti elettorali, i new comers sull’arena politica, che non hanno cioè propri rappresentanti in Parlamento, non godono di tali benefici. Con una ovvia sperequazione, lesiva del principio di democrazia sostanziale (piccolo inciso: le riforme in Italia si fanno soltanto sull’onda dell’emotività del momento, evidenziando la rozzezza della cultura politica di questa Repubblica delle banane; in questi giorni tutti si concentrano sulla riforma del sistema di finanziamento dei partiti, sulla scia dei fatti di Lusi o di Bossi; nessuno però parla di come rendere efficace la par condicio, che, come sappiamo, viene sistematicamente violata dai principali partiti, in campagna elettorale, in base a chi, in quel momento, detiene la maggioranza dei componenti nel Cr della RAI, o in base a normative sul conflitto di interesse ridicole ed inapplicate).
In sintesi, anziché richiedere l’azzeramento della contribuzione pubblica ai partiti, con la bocca che trasuda della bava del populista che nuoterebbe libero nelle praterie di una politica de-partitizzata (forse il fatto che un ex fascista come Fini sia in prima linea nel chiedere l’abolizione del finanziamento pubblico dovrebbe far riflettere anche i populisti di sinistra), con rischi enormi per la forma stessa della attuale democrazia, sarebbe meglio preoccuparsi di rendere trasparente e sanzionabile tale sistema, di reclutare e formare una classe politica moralmente più degna di quella odierna, di rendere più fruibile il finanziamento pubblico e l’accesso mediatico in campagna elettorale anche ai partiti in start up ed ai piccoli partiti, che hanno il diritto di competere all’interno di un’arena politica in cui le condizioni sono uguali per tutti.
Non sono un ingenuo, quindi so benissimo che, nonostante le belle intenzioni e le proposte apparentemente sensate, sperare che la casta conceda più democrazia e più trasparenza reale nella gestione dei rimborsi elettorali è come sperare nella settimana dei tre giovedì. La riforma dei privilegi non potrà mai essere fatta dai privilegiati. Solo noi compagni possiamo farla. Tuttavia, noi oggi non abbiamo la possibilità di riformare il finanziamento a tutti i partiti. Possiamo però cominciare da noi, dai nostri partiti, lottando perché una sinistra come si deve, dalla parte del Lavoro e non del Capitale, riduca le sue spese all’essenziale, a cominciare dalla paga dei dirigenti politici, che deve essere agganciata al contratto dei proletari. Nell’attesa di ripulire tutto il Parlamento, avremo almeno ripulito la parte che più ci interessa: quella su cui ci sediamo noi.
Naturalmente, a differenza dei Grillo, noi non restituiremo allo Stato borghese la quota risparmiata sulle nostre paghe e su tutto il resto della nostra attività. Non saremo così stupidi da lasciargli raddoppiare la corruzione a destra, coi soldi che non è riuscito a infiltrare a sinistra per comprarla. Noi non abbiamo grilli per la testa. I soldi sottratti allo Stato dei padroni e risparmiati sulle paghe dei nostri dirigenti, li useremo per casse di resistenza per la lotta senza tregua della nostra classe contro il Capitale.

lunedì 16 aprile 2012

L'AUTUNNO ANTICIPATO DEL PREMIER di Riccardo Achilli




                                  L'AUTUNNO ANTICIPATO DEL PREMIER
                                                        di Riccardo Achilli


In concordanza con questi giorni di ritorno di un freddo autunnale in piena primavera, il Governo Monti inizia la sua strada verso il declino inevitabile. Dopo la luna di miele dei primi 100 giorni, evaporatasi l'ilusione mediatica del probo tecnico che sarebbe riuscito nell'impresa di cacciare via il Governo dei puttanieri (in realtà scaricato dalla stessa borghesia e dagli stessi poteri forti che lo avevano precedentemente sostenuto, e che non ritenevano più Berlusconi all'altezza, e con la sufficiente forza politica, per compiere il massacro sociale che ha potuto fare Monti), i nodi vengono dolorosamente al pettine, manifestando lo scollamento del Paese reale dal governo-Monti, e i primi risultati degli errori gravi che sono stati commessi.
Mentre i primi sondaggi non manipolati iniziano a dire le cose come stanno realmente, smontando le percentuali trionfalistiche di consenso (66%, 57% ed altre menate) di cui Monti si faceva forte (il sondaggio Euromedia del 12 aprile dà infatti la popolarità di Monti ad un più esiguo 47%) l'uomo contribuisce a scavare ulteriormente il fossato che lo divide dal Paese, che come tutti i Paesi di cultura latina, attribuisce più importanza alla caratura umana che a quella intellettuale. Mentre il conteggio dei suicidi legati alla crisi economica raggiunge i 23 morti soltanto fra imprenditori, liberi professionisti e commercianti, e supera i 50 casi relativamente ai lavoratori dipendenti, ai pensionati ed ai disoccupati, senza contare altri 5 tentativi, soltanto dall'inizio del suo Governo ad oggi, Monti, rinchiuso in un contesto dove gli applausi erano assicurati (ovvero fra il personale della protezione civile cui questo Governo ha appena regalato una discutibile e pericolosa riforma, che assegna a tale ente poteri inauditi, ed addirittura superiori alle amministrazioni locali, anche in materia di appalti e contratti, con tutti i connessi rischi di derive di corruzione e malaffare che già si sono appalesati attorno alla Protezione civile stessa) si abbandona a battute di pessimo gusto, irrispettose delle sofferenze del Paese reale (“io sono un volontario chiamato a salvare l'Italia”, ed amenità di questo stile). Per carità: nessuno si aspetta “pietas” da un amministratore della cosa pubblica, ed il Nostro avrebbe facile gioco a ricordare che nel 2009/2010, cioè prima di lui, i suicidi motivati da cause economiche, secondo l'Istat, ammontano a 385. Tuttavia la freddezza e l'indifferenza dimostrate, di fronte ad una simile tragedia, sono davvero insopportabili, e rappresentano anche un grave errore politico, che riduce ulteriormente il consenso, ed aumenta le tensioni sociali.
Nel frattempo, la strategia economica fa acqua da tutte le parti. Il pesantissimo sacrificio sociale imposto in nome del rispetto di una teoria economica astratta, e che quando è stata applicata ha prodotto risultati di lungo periodo disastrosi per la competitività d'insieme del sistema economico, oltre che disastri sociali immediati (vedi i risultati dei Chicago boys in Cile, gli effetti della reaganomics o delle politiche della Thatcher) è già sotto l'esame impietoso dei mercati. Lo spread con i Bund torna più o meno sugli stessi livelli a cui erano all'inizio del Governo-Monti, segnalando la perdita di fiducia degli investitori circa le prospettive di risanamento del bilancio pubblico italiano. La pesante recessione prevista per il 2012 (che oscillerà fra un -1,6% ed un -2,2% di PIL) avrà ovviamente effetti negativi sui saldi di finanza pubblica, rendendo impossibile, a bocce ferme, rispettare gli obiettivi di disavanzo e debito prefissati dal Governo nel DEF. Le previsioni, che scontavano per i 2012 un rapporto fra deficit strutturale e PIL dello 0,6%, ed un rapporto fra debito pubblico e PIL del 119,5%, si basavano su una previsione di crescita del PIL 2012 dello 0,6%. Ben più realisticamente, l'Ocse prevede, proprio a causa degli effetti del ciclo sui conti pubblici, lo stesso disavanzo/Pil del governo ma un debito pubblico/Pil al 120,5%. Tali previsioni sono però ancora ottimistiche, essendo basate su una riduzione stimata del PIL pari a soltanto lo 0,5%.  Con una contrazione prevista dell'1,6% (previsione FMI, più aggiornata di quella dell'Ocse) si arriverebbe ad un deficit/Pil, in termini strutturali (cioè al netto degli effetti del ciclo, che è l'indicatore rilevante ai fini del rispetto del patto di stabilità), dello 0,8%, ed un debito pubblico/Pil addirittura al 125,3%, con una forte crescita rispetto al consuntivo 2011. Evidentemente, la stessa ripresa dello spread si tradurrà in un peso aggiuntivo di interessi sui titoli pubblici alle prossime aste, alimentando ulteriormente il debito.
Tutto ciò comporterà la necessità di una manovra aggiuntiva in estate (nonostante le ripetute assicurazioni pubbliche di Monti, per cui non sarebbe stata necessaria una manovra di aggiustamento), per rispettare i vincoli del fiscal compact, ovvero il pareggio di bilancio entro il 2013, in termini strutturali, e la riduzione di un ventsimo dell'extra debito rispetto alla soglia del 60%. Ma l'ulteriore manovra finanziaria non farà altro che appesantire ulteriormente la recessione, provocando ulteriori effetti endogeni sui saldi di finanza pubblica, richiedendo quindi un'altra manovra, e così via, in una spirale che, se non si rimuoveranno i vincoli del fiscal compact, e non si tornerà ad una possibilità di utilizzo attivo del bilancio pubblico in funzione del ciclo, sarà senza fine e senza salvezza (tra l' altro, un articolo di dicembre scorso dello stesso blog anticipava tale situazione senza sbocco delle politiche liberiste di Monti.

Il fallimento della politica economica non si limita alle manovre di finanza pubblica. L'intervento sul mercato del lavoro, che la borghesia italiana sogna già dalla fine degli anni novanta, si traduce in un pasticcio che delude tutti, non soltanto i lavoratori, che si vedono poco garantiti, ma persino Confindustria, che voleva l'abrogazione dell'art. 18 almeno rispetto ai licenziamenti economici, e che adesso si ritrova con una riformulazione dell'art. 18 che non soltanto prevede la possibilità teorica del reintegro, ma che addirittura, con l'obbigo imposto al giudice di verificare “la manifesta infondatezza” del licenziamento economico, appesantisce e rende ancora più lunghi e bizantini i processi di lavoro, alle spese delle imprese stesse.

La delusione di Confindustria, rispetto a tale versione della riforma, è stata così cocente che in un goffo tentativo di placare gli animi imprenditoriali Monti, sostituendosi indebitamente ai giudici, che hanno l'obbligo di interpretare le norme, si è lanciato in una interpretazione autentica del dispositivo, annunciando che i reintegri saranno del tutto eccezionali (ma le imprese sanno bene che ciò che conterà sarà l'interpretazione giurisprudenziale di tale norma, non quello che dice Monti).
Stendo poi un pietoso velo sul gigantesco pasticcio della vicenda degli esodati, con un Governo incapace persino di fornire cifre inattaccabili sull'entità della platea, ed ovviamente incapace di indicare una via d'uscita, ma è opportuno comunque segnalare che, oggi, la ministra Fornero addebita alle imprese la colpa di tale situazione, e ciò è sintomatico della rottura del cordone ombelicale con la borghesia, in un contesto in cui persino i sindacati, su tale tema, hanno magicamente ritrovato l'unità contro il Governo. La pubblicazione, da parte della CGIA di Mestre, di un elenco di imprenditori che si sono suicidati, e la dichiarazione esplicita del segretario della CGIA, Bortolussi, secondo cui il sistema è sordo alla disperazione delle piccole imprese, è una dichiarazione di guerra esplicita: la piccola borghesia produttiva non è rientrata nei ranghi dopo la fine delle proteste dei Forconi, ma continua a stare sulle barricate; e sebbene sia evidente che il grande capitale finanziario e industriale stia cercando di scaricare la piccola borghesia, accomunandola al proletariato fra i soggetti che devono pagare la crisi (e anche qui, per inciso, l'insegnamento di Marx, secondo cui la piccola borghesia viene scaricata sistematicamente dal grande capitale, alla cui alleanza organica aspira, quando le cose si mettono male, è attualissima) le imprese con meno di 50 addetti producono il 53% del valore aggiunto extragricolo dell'economia italiana. E persino un semplice sciopero di padroncini di bisarche può mettere in crisi un colosso come la Fiat. L'ostilità sempre più manifesta della piccola borghesia, e delle sue strutture di rappresentanza come la CGIa di Mestre, è un pericoloso segnale di allarme per la tenuta del governo-Monti.   
L'isolamento crescente del Governo inizia a trovare una sponda anche nelle figure politiche più legate agli interessi borghesi. Napolitano, al di là delle battute di spirito fatte ieri, ha lanciato un monito che può essere letto come una prima presa di distanza da Monti: nei giorni scorsi, proprio in corrispondenza con l'annuncio della risalita dello spread verso quota 400, Napolitano ha infatti richiamato vigorosamente il Governo sull'esigenza di prendere misure per la crescita. Il decreto-liberalizzazioni, peraltro più volte rimaneggiato in sede parlamentare, sarebbe infatti l'unica misura che, nelle intenzioni di Monti, è mirata alla crescita. Tuttavia la teoria economica sa bene, oramai da decenni, che i cambiamenti negli assetti dei mercati, rendendoli più concorrenziali, di per sé stessi non garantiscono maggiore crescita, se, come appare prevedibile in molti dei mercati “liberalizzati”, ciò porterà soltanto ad una maggiore concentrazione oligopolistica, a detrimento del rapporto qualità/prezzo del servizio erogato agli utenti
(cfr. http://bentornatabandierarossa.blogspot.it/2012/01/introduzione-il-modello-di-mercato.html) e, comunque, anche nel migliore dei casi, eventuali effetti positivi sulla crescita si manifestano soltanto in tempi lunghi, mentre invece c'è bisogno di stimoli nell'hic et nunc. Lo stesso decreto fiscale, ancora in via di discussione, non sembra essere decisamente a favore dello stimolo alla crescita, poiché, quand'anche contenesse (ed è tutto da verificare) meccanismi di restituzione del ricavato dalla lotta all'evasione fiscale, tale effetto è controbilanciato, in termini di impatto sul ciclo economico, dalla congerie di tagli a deduzioni e detrazioni fiscali, che finiranno inevitabilmente per aumentare la pressione fiscale. L'aumento generalizzato dell'IVA, poi, comporterà un ulteriore danno alla crescita, comprimendo ulteriormente consumi già oggi catatonici.
La crescente difficoltà di navigazione del Governo-Monti si riflette anche nell'attegiamento sempre più rissoso dei partiti della maggioranza, che ne avvertono il clima di crescente isolamento, e, complici anche le imminenti elezioni amministrative, diventano sempre più nervosi e ribelli. La bagarre sulla rateizzazione dell'IMU, con il Pdl che ha, unilateralmente, e contro il parere governativo, presentato una modifica parlamentare per aumentare le rate dell'imposta, trovando l'immediata opposizione del Pd, è il segnale superficiale di una crescente tendenza dei partiti della maggioranza a smarcarsi dalla linea di politica economica del Governo, che sinora avevano seguito disciplinati come soldatini. Segnale preoccupante, perché stavolta, a differenza delle volte precedenti, il partito che si smarca dalla inea non sembra disposto a scendere a compromessi. La possibile apertura di uno scontro fra i partiti della maggioranza potrebbe allargarsi anche rispetto alla spinosissima questione del finanziamento pubblico, rispetto alla quale la mediazione governativa sembra esser stata respinta, e le posizioni, fra l'asse Alfano-Bersani-Casini che ha presentato una proposta molto debole, e che sostanzialmente difende il finanziamento, e Fini che dall'altro lato spinge per la sua totale abolizione, ed ha utilizzato le sue prerogative istituzionali per bloccare l'emendamento al dl fiscale che introduceva la bozza del trio ABC, si divaricano in un modo che può facilmente portare ad una guerra senza quartiere, con conseguenze ovvie anche sulla tenuta dell'esecutivo.
In sintesi, fallimento delle politiche e crescente isolamento, non solo dal Paese ma, cosa ancor più pericolosa, dai poteri forti del capitalismo italiano, stanno disegnando per questo governo un'estate fredda, più simile all'autunno. Monti afferma di non essere attaccato all'incarico che ha? Meglio per lui, perché la sua esperienza politica sembra in procinto di entrare in una pericolosa zona-Cesarini.

 

domenica 15 aprile 2012

DIVENTA CIO' CHE SEI!



                                

                                         di Carlo Felici
                                


Mentre la situazione italiana peggiora di giorno in giorno, soprattutto a causa delle crescenti difficoltà di un'economia per niente agevolata dalle recenti misure governative che hanno piuttosto una valenza alquanto recessiva, tanto da essere notata persino dai cinesi, con i quali Monti non sembra aver fatto che un “buco nell'acqua” (ed è davvero un peccato date le crescenti potenzialità di un mercato di centinaia di milioni di acquirenti, molti dei quali ormai assai ricchi), mentre i suicidi per disperazione da fallimento o da perdita e mancanza di lavoro si moltiplicano, la consorteria di partiti che sostengono questo governo, non fa altro che manovrare per conservare disperatamente le proprie rendite di posizione.
In Italia la democrazia è finita nella voragine nera del debito e nel commissariamento del nostro Paese da parte della BCE, di fatto subiamo una dittatura che umilia tutti i cittadini, continuando ad imperversare lo strapotere monopolistico dei soliti gruppi in ambito mediatico e pubblicitario, perdurando spese militari da guerra “infinita” ed essendo falcidiato anche con ulteriori gravosissime tasse, il potere d'acquisto dei salari e delle pensioni.
E' una situazione tra le peggiori che l'Italia abbia vissuto dal dopoguerra in poi.
E' una contingenza che non trova alternative politiche in tale sistema bloccato e rigidamente controllato dai “padroni dei partiti” che rimandano alle “calende greche” una riforma elettorale che, a parole, sembrano tutti invocare, ma nei fatti, risulta assai scomoda per chi si è abituato a gestire e consolidare il proprio potere controllando candidature e collegi elettorali, come fa un “padrino” con i suoi “mandamenti”.
Un sussulto di dignità ci è sembrato, in tale disperante contesto, il “Manifesto per un nuovo soggetto politico, per un'altra politica nelle forme e nelle passioni” che ha trovato l'immediato sostegno di molti esponenti della sinistra italiana che sono del tutto insoddisfatti che oggi, in Italia, non vi sia più una vera proposta di istanze concretamente popolari e condivisibili per un popolo che ormai non si sente più rappresentato da quasi nessuno dei politici in lizza.
Tra i primi firmatari figurano Paul Ginsborg, Luciano Gallino, Pietro Bevilacqua, Livio Pepino, Stefano Rodotà, Marco Revelli e Guido Viale.
Il ragionamento complessivo verte sulla crisi delle teorie dello sviluppo e sembra ricalcare i concetti che sono stati messi in risalto da Latouche. Si rileva la crisi irreversibile del capitalismo, ormai giunto all’ultimo stadio, un concetto del tutto assente nella elaborazione culturale della Terza Internazionale, mentre marxianamente si ritiene necessario sviluppare una rinnovata coscienza di classe che parta proprio dai processi di proletarizzazione dei ceti medi, per approdare ad una rivoluzione pacifica fondata sull’ecologia.
Sul piano politico, la questione ha messo in fibrillazione varie forze e vari personaggi, in particolare quello la cui popolarità è cresciuta maggiormente nell'ambito della sinistra negli ultimi tempi, e si è ipotizzata, proprio mediante il suo contributo di nuovo leader della sinistra, la nascita di una sorta di “quarto polo”, con funzione aggregante anche rispetto a personaggi e forze politiche come De Magistris e l'IDV, che pur non appartengono alla storia tradizionale della sinistra, ma che possono egualmente contribuire ad un processo di rinnovamento profondo del fare politico.
Manco a dirlo, dopo pochi giorni, passata solo la parentesi pasquale, è arrivato puntualmente il “guaio giudiziario” per Vendola.
Non è la prima volta che un politico di spicco entra nel mirino di certe indagini giudiziarie e ne subisce un danno rilevante di immagine, per poi magari scoprire, come nel caso dello sventurato De Turco, che non vi era nulla di cui essere imputati, salvo però avere subito immancabilmente l'umiliazione del carcere e della gogna mediatica.
Sinceramente auguriamo a Nichi Vendola una sorte migliore di quella toccata al compagno Ottaviano Del Turco, anche se continuiamo a chiederci come mai esista un sistema giudiziario che, prima ancora di sapere se effettivamente uno è colpevole, lo sbatte in galera e gli rovina la vita oltre che la carriera politica.
Anche questo è un deficit pauroso di libertà e di democrazia per un Paese con un livello di inciviltà ormai incontenibile.
Noi comunque possiamo, vogliamo e dobbiamo dare un contributo, etiam spes contra spem, alla costruzione di un aggregato politico che possa almeno “battere un colpo” nel cimitero della democrazia italiana.
Uno degli intenti più interessanti e condivisibili del manifesto è sicuramente rappresentato dal seguente passaggio: “I due livelli – la democratizzazione della vita pubblica del paese e la fondazione, anche a livello europeo, di un soggetto collettivo nuovo, si intersecano e ci accompagnano in tutto il manifesto.”
Questo infatti lascia preludere la possibilità, in particolare, di accogliere finalmente delle autentiche istanze radicali e socialiste che trovino contemporaneamente rappresentanza sia in Italia che in Europa, collegandosi con tendenze ad esse analoghe ed omogenee e superando le ambiguità di partiti che ancora stentano ad inserirsi e a perseguire politiche coerenti, rispetto a ciò che sottoscrivono in Europa.
In particolare ci riferiamo al PD che, mentre firma e sottoscrive il Manifesto di Parigi, contemporaneamente disattende completamente i suoi principi, votando la fiducia ad un governo di destra, come quello Monti, che mette in atto proprio quelle politiche ritenute fallimentari dallo stesso Manifesto, sottoscritto da altri leader socialisti europei che si propongono seriamente di cambiarle
Noi crediamo che le associazioni socialiste maggiormente attive e rappresentative oggi in tutto il territorio nazionale, come la LDS, il Network per il Socialismo Europeo, il gruppo di Volpedo e il Movimento di Azione Laburista, debbano convergere su un percorso comune che contribuisca alla nascita, alla formazione e alla crescita di questo nuovo soggetto che sia in grado di dialogare con il Partito Democratico, ma che, altresì, rappresenti un aggregato politico del tutto autonomo, capace di proporsi nel panorama politico con le sue istanze innovative, incentrate sui migliori valori della tradizione socialista e democratica italiana ed europea.
Non basta però la politica “associativa” né possono essere sufficienti gli incontri ed i dibattiti per delineare nuovi strumenti e nuove convergenze politiche, è necessario piuttosto, come è specificato con chiarezza nel manifesto, un nuovo forte intento che provenga dalla opinione pubblica perché “la ‘poesia pubblica’, per utilizzare la frase del poeta americano Walt Whitman, deve entrare nella storia della Repubblica.”
Le esperienze del mondo giovanile, messe in moto soprattutto grazie all'azione di SEL e di Nichi Vendola, come “le fabbriche di Nichi”, i “bollenti spiriti” “giovani in tilt”, vanno sicuramente in questa direzione e non possono che essere incrementate.
La “nuova narrazione” deve poter permeare il tessuto sociale di un Paese fortemente ripiegato su se stesso, restituendo ad esso, fantasia, coraggio, spirito di iniziativa e soprattutto una nuova dimensione collegiale e partecipativa del fare politico. Le migliori forze sindacali che si sono recentemente messe in gioco, come la FIOM, devono poter trovare una valida sponda politica con cui dialogare e concertare un piano di lotta e di affermazione dei diritti per una rinnovata civiltà del lavoro.
Noi, per questo, pensiamo che la Lega dei Socialisti, mediante la sua prossima assemblea nazionale, debba porsi come obiettivo immediato l'accoglimento delle istanze del manifesto per la nuova sinistra, sottoscriverlo ed offrire il suo impegno collettivo per realizzare presto le sue istanze.
Il manifesto inizia con una frase significativa: “non c'è più tempo”, ed è vero, non c'è più tempo per rincorrere ambiguità, per stare con una gamba a destra e una a sinistra, non c'è più tempo per restare in partiti dove la passione è sostituita dal sotterfugio, dai tatticismi e dalla ricerca spasmodica di prebende, non c'è più tempo per indugiare e farsi rappresentare ancora da chi fino a ieri era in schieramenti del tutto opposti. Non c'è più tempo per restare in mezzo al guado.
Il dado è tratto e non possiamo farne un minestrone, riducendoci ad ingredienti del suo condimento.
Il tempo delle decisioni improcrastinabili è arrivato, non possiamo indugiare ancora.
Siamo nella condizione di proseguire o perire, e certamente non in quella di restare a guardare o a vegetare.
Il Socialismo Italiano attende un'opera concreta e determinata che si dispieghi in ampi orizzonti, nazionali, europei e globali e che soprattutto esca dalle sabbie mobili del passato e della stagnazione politica in altri soggetti che non rappresentano né vogliono rappresentare istanze socialiste.
Werde, der du bist!” “Diventa ciò che sei!” Perché, nell'era del neoliberismo globalizzato che riduce gli esseri umani e la natura a merce per fini di profitto, noi non possiamo che “diventare ciò che siamo”: esseri a cui nulla di veramente umano sarà mai spiritualmente estraneo oppure materialmente alieno.

Per firmare il manifesto

sabato 14 aprile 2012

MADAME LAGARDE CI VUOLE MORTI? di Norberto Fragiacomo






Ai lettori più smaliziati la notizia, occhieggiante dalla pagine online di Repubblica, non è potuta sfuggire: il Fondo Monetario Internazionale ci vuole morti anzitempo – se non per il nostro bene, nel superiore interesse della tenuta dei conti pubblici.
L’articolista riporta alcuni brani del Global Financial Stability Report, in corso di pubblicazione, che vale la pena leggersi (o rileggersi): “se l’aspettativa di vita media crescesse di tre anni più di quanto atteso ora entro il 2050, i costi (per i bilanci statali) potrebbero aumentare di un ulteriore 50% (…) i rischi collegati alla longevità, se non affrontati in modo tempestivo, potrebbero avere un ampio effetto negativo su settori pubblici e privati già indeboliti, rendendoli più vulnerabili ad altri shock e potenzialmente minando la stabilità finanziaria e la sostenibilità fiscale, complicando gli sforzi fatti in risposta alle attuali difficoltà fiscali: serve perciò una combinazione di aumento dell’età pensionabile di pari passo con l’aumento dell’aspettativa di vita, più alti contributi pensionistici e una riduzione dei benefit da pagare”, e servono “strategie per condividere i rischi con il settore privato e gli individui”, anche perché “le stime sono state fatte su previsioni che hanno in passato sottovalutato quanto le persone avrebbero vissuto” (il grassetto è nostro).
Al netto dell’ipocrisia – di cui è intrisa la frasetta “sebbene l’aumento della vita media sia molto desiderabile e abbia aumentato il benessere individuale” – siamo a un passo da quel Malthus che, due secoli orsono, scorgeva in carestie, pestilenze e guerre provvidenziali rimedi contro la crescita incontrollabile della popolazione. Anzi, forse siamo già oltre (vedremo tra un attimo il perché).
Il piano “ufficialmente” architettato dal FMI per fronteggiare l’allungamento dell’aspettativa di vita nei Paesi sviluppati (tra cui l’Italia) è ad acta: si tratta di rinviare il più possibile i pensionamenti, innalzando altresì la contribuzione a carico dei lavoratori e stimolando gli stessi, in seguito al disimpegno statale, a ricorrere a forme di previdenza privata sostanzialmente obbligatorie. Pensioni magrissime, pagate a caro prezzo e, soprattutto, “godute” per un lasso di tempo limitato – ed è proprio questo il punto centrale su cui, comprensibilmente, si preferisce glissare.
La clausola “segreta” è così sintetizzabile: ferma restando l’esigenza che le “risorse umane” siano attive (o perlomeno disponibili) fino a tarda età, sarà il caso di intervenire, senza troppi clamori, per accorciare la speranza di vita, in modo che i benefici da riconoscere a soggetti ormai “rottamati” non costituiscano un eccessivo aggravio. Si potrebbe replicare che, in fondo, la questione diviene secondaria nel momento in cui le istituzioni pubbliche consegnano la patata bollente al “settore privato” (ed agli “individui” - vale a dire alle famiglie, costrette a prendersi cura, come un tempo, dei propri vecchi), ma l’obiezione non tiene conto della logica predatoria che anima il capitalismo finanziario, determinato a drenare risorse dalla società senza concedere nulla in cambio.
Paranoia? Contadinesco realismo: chi sa come funzionano le polizze sanitarie private negli USA, e quale sia l’atteggiamento degli assicuratori di fronte all’evento dannoso (per essere chiari, alla malattia), non può avere dubbi sulla natura fisiologicamente antisociale di un sistema finalizzato non alla protezione dell’individuo, bensì al profitto. Se si lesinano i soldi per le cure ad un malato di cancro, perché mai bisognerebbe preservare le persone comuni da taluni rischi legati all’invecchiamento? Chi potrà permetterselo camperà fino a 120 anni, gli altri è opportuno che tolgano il disturbo a 70 scarsi, magari all’indomani del pensionamento.
Cinismo da caricatura, osserverà qualcuno, incredulo; ma, signori miei, il Capitale è cinico per definizione, dal momento che valuta l’essere umano (non facente parte di quell’elite di cui il FMI è strumento) esclusivamente in base alla sua capacità produttiva.
Non siete ancora convinti? Spalancate gli occhi, prima che sia tardi, e riflettete su un dato. Dopo la fine dell’URSS, la terapia shock imposta alla Russia da Banca Mondiale, FMI e Stati Uniti vincitori comportò, insieme alla svendita del Paese (attuata dal traditore Eltsin) a società estere e ai loro poco raccomandabili prestanome, l’azzeramento di ogni forma di sostegno pubblico alla popolazione: la speranza di vita per i maschi crollò da 64 (1990) a 57 anni (1994), mentre per le donne il calo fu di “soli” tre anni. Tutta colpa della crescita del consumo di superalcolici (per disperazione), come ci è stato suggerito dai media? Se crediamo alla favola delle incubatrici di Kuwait City possiamo anche prestar fede a queste panzane – ma rimane il fatto che nella Russia finalmente “democratica” e “riformista” degli anni ’90 si consumò una delle maggiori tragedie collettive della storia recente [1].
Ovviamente, se mai era esistita, la questione pensionistica a metà del decennio poteva dirsi risolta…
Qualcosa del genere sta ora avvenendo in Grecia dove, come ci viene assicurato da testimoni oculari, negli ospedali pubblici mancano persino le garze, figurarsi le medicine. Assisteremo fra breve ad un cospicuo decremento degli abitanti? Aspettiamo i numeri del prossimo censimento; per adesso rileviamo che nel Paese mediterraneo il tasso di suicidi è aumentato del 40% nei primi cinque mesi del 2011 [2]. Anche nella Russia di fine ventesimo secolo togliersi la vita era diventato “di moda”.
Ora, se di fronte a simili risultati il Fondo Monetario – coautore delle ricette somministrate ai due Stati europei – persevera nella vecchia impostazione, riesce difficile parlare di “colpa”, sia pur cosciente. Siamo in un’ipotesi di quello che i giuristi definiscono “dolo eventuale”, o – più verosimilmente – ci troviamo alle prese con una precisa intenzione, che emerge, per di più, dalle poche righe riportate in apertura.
D’altra parte, nessuno si è mai commosso per la perdita di una risorsa umana obsoleta.


[1] Tra il 1989 e il 2002 la Russia ha perso 1,8 milioni di abitanti e, nonostante gli sforzi del Presidente Putin, la discesa non si è interrotta neppure nel periodo successivo, caratterizzato da un minimo di benessere in più. Si osservi che tra il 1971 e 1991 l’incremento medio annuo era stato di 1,77 milioni di individui. Davvero si crepava di fame in URSS?

[2] Nel periodo 2007-2009 la crescita era stata del 17%.


giovedì 12 aprile 2012

IL COLLO FLESSIBILE DEL MOSTRO SPREAD di Norberto Fragiacomo






IL COLLO FLESSIBILE DEL MOSTRO SPREAD
 
di
Norberto Fragiacomo  



Dalle onde dei canali mediatici rispunta il lunghissimo collo del mostro spread, e il pubblico italiano, colto alla sprovvista, è preso dal panico. Lo sbigottimento è comprensibile: pareva che, dopo una fiera lotta, gli esorcismi di Mario Monti avessero ricacciato la bestia negli abissi, e invece eccola che torna a levarsi, superando la fatidica quota 400 (punti di differenziale).
Cosa succederà adesso? E’ presto detto: ci sarà, a breve, l’ennesima manovra “lacrime e sangue” (nostro) – la quarta in meno di un anno, senza contare le controriforme che stanno demolendo, pezzo dopo pezzo, l’edificio scricchiolante del welfare italiano. Ingiustificato allarmismo? Mica tanto: la sensazione di déjà vu è fortissima.
Lo scorso anno, in primavera, alle indiscrezioni fatte filtrare dall’Europa su una manovra correttiva dei conti pubblici (la prima!), il “nostro” Tremonti reagì con un’alzata di spalle: la situazione italiana è pienamente sotto controllo, non c’è bisogno di alcuna correzione… i cittadini possono dormire tranquilli. Infatti rimasero in letargo, ma il risveglio estivo fu assai brusco. Cos’era capitato, nel frattempo? Semplice a dirsi: si era “misteriosamente” destata una creatura di cui la stragrande maggioranza degli italiani nemmeno sospettava l’esistenza - lo spread, cioè il differenziale tra il tasso di interesse pagato ai possessori del BTP decennale e quello garantito dal Bund tedesco (sempre a 10 anni). Inutile inquietarci pel fatto che la Germania viene considerata “misura di tutte le cose”, ed esempio di affidabilità: le ragioni stanno scritte nella storia, nostra e loro. La questione vera è che la crescita dei tassi comporta un aggravio per il bilancio statale, e soprattutto espone il Paese al ricatto dei (grandi) creditori stranieri, che – con la scusa degli “alti rischi” legati ai titoli in vendita – possono imporre all’emittente ogni genere di condizioni, e persino determinarne la politica interna. Insomma, non ci fosse stato, lo spread sarebbe convenuto crearlo – o modificarlo geneticamente, trasformando un indicatore abbastanza innocuo (e perciò poco noto alla cittadinanza) in un’efficace e temutissima arma di pressione psicologica. Come dicono i giuristi, “valga il vero”: dall’inizio dei tempi fino agli ultimi mesi del 2008 il differenziale riposa quietamente sotto i 100 punti (+ 1% sui titoli tedeschi); poi, tra l’autunno e l’inverno, si arrampica fino a quota 150, ma in primavera ridiscende, e al principio del 2010 – mentre in Grecia imperversa la crisi - è ormai ritornato al punto di partenza. Seguono alti e bassi (tocca i 200 punti nell’autunno 2010, ma all’arrivo della bella stagione è di nuovo a cuccia, sotto quota 130), finché, ai primi di maggio, lo scenario muta radicalmente, e parte una vertiginosa scalata, che i media raccontano in diretta con enfasi e strilli. Improvvisamente lo spread lo conoscono tutti, emerge dai discorsi al bar, divora le prime pagine – e finisce per giustificare qualsivoglia imposizione, qualsiasi scelta. Diventa “il giudizio dei mercati”, un’entità forse metafisica ma sempre in mezzo a noi, e che mostra predilezione per i sacrifici cruenti. La manovra di giugno-luglio 2011 non soddisfa, anche perché verrà cancellata e riscritta innumerevoli volte: al principio di agosto, il differenziale sfiora quota 400, e allora tocca porre mano ad una nuova stangata, cortesemente “richiesta” dai Draghi della BCE. Per una decina di giorni le acque paiono calmarsi, ma è settembre nero: i balbettii di Berlusconi, tra l’altro in perenne lite col suo ministro delle finanze, non tranquillizzano più i mercati (cioè banche d’affari e fondi di investimento), e la belva si scatena, conquistando, a novembre, la vetta 500. Il destino dell’esecutivo è segnato: troppo pasticcioni per seguire le indicazioni alla lettera, gli avventurieri del centro-destra vengono sostituiti dai c.d. “tecnici”, uomini di fiducia delle banche d’affari americane e delle istituzioni finanziarie sovranazionali. Al cavaliere vengono addossate più colpe di quante ne abbia (e sono già tantissime); quelle restanti sono suddivise “equamente” tra noi cittadini, che avremmo vissuto – tutti – al di sopra delle nostre possibilità. Napolitano ci mette la faccia, l’aria grave e la retorica delle grandi occasioni: il professor Monti salverà l’Italia, ma al prezzo di austerità e rinunce. In sottofondo, il solito ritornello: there is no alternative.
La ruota incomincia a macinare pensioni e diritti, ma lo spread non si concede settimane bianche: ci osserva dall’alto del suo collo flessibile, controllando che le “misure di risanamento” decise dalla BCE vengano messe in pratica e che i partiti, già abbondantemente screditati, non sollevino obiezioni di sorta. Per quasi due mesi, dopo l’avvicendamento, il pressing speculativo non si allenta: trattasi tuttavia, per l’esecutivo, di “fuoco amico”, che serve ad ammorbidire le critiche – di per sé blande - provenienti prima da una destra senza futuro (parlamentari e capetti ex AN allontanati dalla greppia) e successivamente dalla c.d. “ sinistra” parlamentare. Una volta chiaro che la nuova maggioranza è solida, e che si possono massacrare i pensionati impunemente, la tensione cala, e lo spread con essa: da febbraio la discesa sembra inarrestabile, e a metà marzo siamo sotto i 300 punti. Allarme rientrato? A sentire i giornali radio, pare proprio di sì: assillati da mille altre preoccupazioni (sta per passare la controriforma del lavoro, e l’IMU si staglia all’orizzonte), gli italiani quasi si scordano del mostro in agguato. Lui, però, (e chi lo tiene al guinzaglio) non si dimentica di noi, e nell’ultimo spicchio di quaresima riprende a ruggire, oltrepassando – è notizia di questi giorni – la soglia dei 400 punti.
Sarà di sicuro un caso, ma l’arrampicata ha acquistato velocità dopo che si erano diffuse voci [1] su una prossima manovra aggiuntiva, la cui necessità è stata negata da Monti Monti. Oramai, agli orecchi allenati, queste rassicurazioni suonano come una condanna capitale: il premier copia le dichiarazioni del quasi omonimo Tremonti, con la differenza che lui, forse, la sa più lunga. Tocca al semisconosciuto ministro Catania, a Ballarò (10 aprile), smentire diplomaticamente la smentita, dopo aver osservato che eventuali decisioni non dipenderanno dal governo e che, comunque, “senza la cura Monti saremmo come la Grecia , o peggio”. L’argomento Grecia, si sa, chiude ogni discussione – e non dubitiamo che, vista la sua collaudata efficacia, sarà adoperato senza parsimonia, nei mesi a venire. Bisogna d’altra parte ammettere che, per quanto ripetitiva (è basata su tre frasi da noi citate, più qualche svogliato richiamo a “riforme”, “flessibilità” e “crescita”), la strategia comunicativa dei montiani è eccellente, poiché pone l’interlocutore di fronte all’alternativa secca tra penitenza ed ira di Dio.
Attendiamoci, dunque, l’ennesima correzione dei conti pubblici: dopotutto, come ricordava qualche commentatore economico tempo fa, le istruzioni della BCE non sono state eseguite fino in fondo. C’erano gli stipendi dei funzionari pubblici da tagliare, “se necessario” – e proprio da questa misura si ripartirà, per “tranquillizzare i mercati” (altra formula molto in voga).
Nella vicina Slovenia i salari pubblici sono stati appena ridotti del 7%, in Spagna Rajoy aveva già provveduto: non crederemo mica che la nostra sia una penisola felice! In un secondo momento, pagheranno dazio i lavoratori privati (mai penalizzare le categorie tutte insieme: divide et impera, consiglia il saggio), poi di nuovo i pensionati, e così via.
Il risultato sarà la paralisi economica, cioè la Grecia , che sostengono – con sovrano sprezzo del ridicolo – di voler evitare.
Lo spread, allungando e piegando il collo a comando, veglierà sull’attuazione del piano; e se all’utile si può unire il dilettevole (cioè l’occasione di guadagni facili per gli speculatori [2]), tanto meglio. In effetti, sarebbe interessante confrontare le oscillazioni del differenziale BTP-Bund con il calendario delle emissioni dei Titoli di Stato italiani [3], ma avendo ben presente che le cifre (milionarie) che si possono intascare sfruttando accortamente la tempistica sono spiccioli a paragone delle opportunità che si stanno aprendo grazie alla devastazione dello Stato sociale: acqua, sanità, previdenza ed istruzione “privatizzate” hanno un valore incalcolabile – sempre ammesso che, in futuro, impiegati, operai e pensionati possano permettersi un letto d’ospedale.
Gridiamo al complotto? Macché: stiamo solo osservando, con crescente mestizia, la realtà che abbiamo sotto gli occhi – una realtà in cui gli investitori planetari non hanno alcuna esigenza di “complottare” di nascosto, visto che, onnipotenti come sono, possono tranquillamente architettare la loro soluzione finale alla luce del sole.


Trieste, 11 aprile 2012
 


[1] “Raccolte” dal Financial Times nell’edizione del 3 aprile.
[2] Da Repubblica online dell’11 aprile: “Lo spread cala, ma gli effetti della crisi e del martedì nero delle Borse si specchiano nell'asta Bot del Tesoro che ha collocato 11 miliardi di euro con tassi in rialzo. E' andata meglio per le scadenze a breve: sui due mesi sono stati venduti 3 miliardi con rendimento in salita all'1,249%, i titoli a 12 mesi, con scadenza aprile 2013, hanno registrato un tasso quasi raddoppiato al 2,84% dall'1,492%”.
[3] Secondo le informazioni reperibili sul sito online del Ministero, il nuovo balzo verso l’alto ha preceduto di pochi giorni tre aste previste per il 24, 27 e 28 marzo.

mercoledì 11 aprile 2012

IL NON INCORAGGIANTE DECLINO DEL PAGANESIMO PADANO di Riccardo Achilli






Non vi è dubbio alcuno sulla durezza del colpo inferto alla Lega con le vicende giudiziarie recentemente emerse. Difficilmente quel partito potrà tornare sui livelli di influenza e potere goduti sinora.


Intanto perché è lo stesso declino politico di Berlusconi a privare la Lega di un interlocutore fondamentale per andare al potere oltre i potentati locali che riesce a gestire autonomamente (c'è una storia ancora da scrivere sull'aiuto determinante, finanziario, mediatico e politico, che Berlusconi diede alla Lega Nord per farla crescere fino a diventare un partito di rilevanza nazionale), poi perché il danno di consenso di un partito nato e sviluppatosi speculando sul declino delle istituzioni e del senso etico e morale delle classi dirigenti politico-amministrative del Paese, è gravissimo ed irrecuperabile.


Infine perché dietro le dimissioni di Bossi, che però prontamente si è fatto nominare Presidente del partito, si cela una guerra interna devastante, fra l'eterno emergente Maroni, che appare come l'unico in grado di trarre vantaggio dallo scandalo, e che oggi cerca di sfruttare la sua rendita di posizione, inveendo direttamente contro il cerchio magico che ha consentito ad un Bossi gravemente minato dalla malattia che lo ha colpito dal 2004 di rimanere in sella, chiedendo le dimissioni, uno ad uno, di tutti i componenti di questo cerchio. Non si scorge ciò di cui ha bisogno un partito in crisi per riprendersi realmente, ovvero un'idea di svolta politica, ma solo una furiosa lotta per la sopravvivenza fra colonnelli, nessuno dei quali ha la capacità comunicativa di creare un rapporto diretto con la base che aveva Bossi.


Nelle macerie di un potere che sfugge di mano, crolla l'impalcatura buffonesca e folkloristica sapientemente costruita per intrattenere e distrarre un popolo terrorizzato dalle minacce incombenti della globalizzazione, ed in cerca di richiami identitari (non importava molto se storicamente fondati o totalmente inventati) e di modelli neo-medievali di economie comunitarie a circuito chiuso, dove la ricchezza prodotta non esce, se non per essere scambiata, ed in cui il processo di accumulazione e riproduzione del capitale e del lavoro rimane fortemente localizzato e territorializzato. Un curioso misto di economia neomedievale derivante dal pensiero di Miglio, ammiratore di Otto Brunner, disprezzo per il diritto internazionale e ritorno all'antagonismo radicale fra amici e nemici, dove i nemici sono coloro che non appartengono alla comunità locale, in una distorsione del pensiero di Carl Schmitt, rifiuto della globalizzazione associato a idee antisolidaristiche e autoritarie degne del peggior nazionalitarismo di destra.


Finisce anche il mito della “questione settentrionale”, occorre dire colpevolmente rafforzato dallo stesso centro-sinistra, che per interessi di bottega elettorale lo ha ampiamente scimmiottato e messo al centro dell'agenda politica (come dimenticare l'enfasi posta sulla questione settentrionale, in termini assolutamente non dissimili da quelli della Lega, del secondo Prodi, come dimenticare che l'impostazione generale del federalismo fiscale fu varata dal Governo Prodi, e solo successivamente ripresa e portata a termine dal centro destra).


Fra i detriti di una retorica leghista messa in sordina dal clamore delle inchieste, emerge che la “questione settentrionale” è in realtà una questione nazionale, in parte dipendente dalle modalità coloniali con cui l'Italia si è formata sotto lo stivale dei Savoia, ed è lo stesso impasto di reciproca diffidenza (per non dire disprezzo) ed autoreferenzialità che caratterizzano i rapporti fra società civile e classi dirigenti, da Bolzano fino a Pantelleria. Il cittadino trevigiano onesto che paga le tasse viene maltrattato dallo Stato, in termini di qualità dei servizi pubblici erogati, esattamente come l'onesto cittadino palermitano. Anzi, forse il primo beneficia di una qualità lievemente migliore di una pubblica amministrazione che ancora conserva tracce dell'efficienza austroungarica.


La corruzione politica ed amministrativa non ha significative differenze di intensità fra Milano e Bari. L'unica differenza è che, per ragioni storiche, il cittadino del Nord è abituato ad un rapporto maggiormente critico rispetto ad una società meridionale ancora connotata da alcune delle logiche notabiliari borboniche (salvo poi insorgere in un colpo solo, quando la misura è colma, in moti ribellistici la cui violenza ed intensità è generalmente sconosciuta al Nord).


Anche il mito dell'assistenzialismo meridionale pagato dal Nord che lavora è finalmente assordato dalle polemiche, e non, purtroppo, dalle analisi fatte da eminenti studiosi come Adriano Giannola, che dimostrano, dati alla mano, come del cosiddetto assistenzialismo meridionale abbia beneficiato soprattutto l'economia settentrionale, che ha potuto godere dell'afflusso massiccio di manodopera a basso costo, sradicata dalla sua terra proprio dalle politiche assistenzialistiche che non creavano sviluppo nel Mezzogiorno, e che è stata uno dei principali motori dello sviluppo industriale del Nord. Secondo Giannola, se quantificassimo il valore economico delle risorse umane emigrate dal Sud verso la nascente industria del Nord, tale valore supererebbe di 2-3 volte il valore dei flussi finanziari destinati al Mezzogiorno dall'intervento straordinario negli anni cinquanta, sessanta e settanta.


Le stesse politiche di sviluppo del Mezzogiorno hanno consentito alle imprese del Nord di fare enormi affari, nel business degli appalti per le infrastrutture, nonché in quello degli incentivi pubblici alle imprese e della programmazione negoziata, che ha industrializzato alcune aree del Sud incentivando a fondo perduto imprese private del Nord (Fiat, Olivetti, Riva, Rovelli, Moratti, Marcegaglia) oppure creando circuiti di subfornitura, operanti in condizioni semi-schiavistiche, per la produzione di componenti assemblate a basso costo negli stabilimenti del Nord (specie nel tessile-abbigliamento, nel calzaturiero, nella chimica di base o in alcuni casi nella componentistica meccanica).


Senza parlare dello scandalo bancario: le grandi concentrazioni bancarie, propiziate dal centro sinistra negli anni novanta, hanno cancellato il circuito bancario meridionale, mettendolo sotto il controllo dei gruppi creditizi settentrionali, e generando la situazione attuale, in cui le banche del Nord drenano l'ancora ingente risparmio delle famiglie del Sud, per investirlo nel sistema economico delle regioni centro settentrionali (i dati Bankitalia ci dicono che per ogni euro di raccolta di risparmio prelevata al Sud, le banche investono, in impieghi destinati al Mezzogiorno, soltanto 72 centesimi; il resto va a Nord).


Tuttavia, il mito leghista del Nord che lavora per mantenere assistenzialisticamente il Sud non è stato zittito dalla ragionevolezza delle analisi e dalla obiettività dei dati, ma è stato tacitato da uno scandalo giudiziario, dai video su youtube del Trota che prendeva i soldi dal conto corrente del partito, dalle malizie da provincialismo benpensante sui rapporti personali fra Bossi e la Rosy, e questo dimostra il livello infimo di coscienza politica e sociale che affligge questo Paese. Tuttavia, la caduta degli dèi padani è stata sufficientemente ritardata da regalarci un federalismo fiscale che di federalista non ha niente, e che serve soltanto per decurtare i trasferimenti finanziari dello Stato verso regioni ed amministrazioni locali del Mezzogiorno, abbandonando a sé stesse quelle regioni che, per via del loro ritardo di sviluppo, non hanno una base imponibile tale da poter compensare con il gettito fiscale regionalizzato il taglio dei trasferimenti statali, e che quindi dovranno ridurre anche significativamente livello e qualità dei servizi pubblici essenziali erogati ai cittadini. Un federalismo fiscale concepito in ossequio alla “economia a circuito chiuso” neomedioevale, mirata a mantenere la ricchezza prodotta entro le mura della micro-comunità locale.








La triste verità è che il fenomeno leghista è lo specchio fedele del declino del Paese, ed in specie del settentrione.


Un Nord Italia che è cresciuto impetuosamente tramite il volano del commercio estero, e quello meno nobile della corruzione e dell'affarismo illegale (è lo stesso Berlusconi a ricordarci, con la sua consueta goliardia, che nella “Milano da bere” degli anni Ottanta, per lavorare gli imprenditori dovevano presentarsi con i soldi in bocca negli uffici del Comune, alimentando un enorme circuito affaristico/clientelare) ad un certo punto ha iniziato ad avere paura della globalizzazione che lo aveva arricchito, perché oramai, alla svolta fra anni Ottanta ed anni Novanta, aveva perso competitività rispetto ai concorrenti stranieri.


Si potrebbe tracciare una vera e propria correlazione statistica fra caduta della competitività internazionale dei sistemi produttivi del Nord e andamento della curva elettorale della Lega nord: nel periodo 1970-1985, l'export dell'economia del Nord cresce ad un tasso medio annuo del 21%; fra 1985 e 1994, negli anni dell'affermazione e consolidamento del fenomeno leghista, tale crescita è scesa al 9% medio annuo, segnalando una riduzione della capacità di penetrazione commerciale sui mercati esteri da parte delle imprese settentrionali. Discorso analogo vale per l'occupazione: negli anni 1980-1989, le unità di lavoro, nell'Italia del Nord, crescono ad un tasso medio annuo dello 0,6%. Negli anni 1990-1995, ovvero gli anni dell'affermazione del fenomeno leghista sulle ribalta nazionale, l'occupazione settentrionale diminuisce al tasso medio annuo dello 0,4%.


Anche l'altro circuito di arricchimento, ovvero i legami affaristico/clientelari con il circuito politico locale, a partire dagli anni Novanta si esaurisce, ed ancora una volta a causa di un vincolo esterno legato alla globalizzazione: la crisi valutaria della lira legata alla speculazione internazionale del 1992/93 ed i nuovi vincoli alla gestione della finanza pubblica indotti, ancora una volta dall'esterno, ovvero dal Trattato di Maastricht del 1992, spezzano il legame fra economia e politica, che aveva generato l'esplosione del debito pubblico, andando a costituire una importante causa della rimozione della precedente dirigenza politica operata tramite Tangentopoli.


E' quindi evidente che il leghismo è frutto della paura di perdere le posizioni di ricchezza e benessere acquisite, paura legata ad un globalizzazione che non è più fonte di sviluppo per l'economia settentrionale, ma che, per la perdita di competitività del modello industriale settentrionale (sia di quello basato sulla grande industria del Nord Ovest che di quello fondato sul modello distrettuale di impresa diffusa del Nord Est) e per l'estinzione imposta dall'esterno del tradizionale ciclo di crescita basato su corruzione e consociativismo, diviene la causa di una perdita di ricchezza e di un incremento della disoccupazione. E la risposta della Lega è una risposta difensiva e regressiva, non una risposta in grado di riattivare un percorso di ripresa della competitività e di consentire ad una società smarrita ed impaurita di avere un colpo di reni: la risposta è semplicemente quella di chiudersi nelle sacre mura della propria comunità locale, cacciare via gli immigrati, incolpati di togliere i posti di lavoro (sempre meno numerosi), difendere a denti stretti la ricchezza prodotta (a ritmi sempre meno floridi) dal prelievo fiscale esterno alla comunità. La storia insegna che il declino corrisponde sempre a soluzioni difensive dettate dalla paura. Paura che poi si coniuga bene con il securitarismo, con la criminalizzazione degli immigrati, con le ronde padane, altrettanti fenomeni compensatori di una strisciante insicurezza ed ansia che pervadono una società confusa ed incapace di reagire alla sua crisi di identità e valori.




E come declina l'economia, nel Nord viene progressivamente meno anche il tessuto connettivo sociale e culturale, una tendenza assecondata, ancora una volta, da un vertice leghista sempre più volgare, truce ed aggressivo, con uno scadimento del linguaggio politico, e lo spegnimento di qualsiasi capacità di analisi, fino al gossip familiare da rivistone scandalistico del Grande Capo Umberto con il suo Discendente Trota, e ad una crescita delle evidenze del malaffare e della corruzione interna al partito di cui però nessuno si cura, fintanto che il bubbone non esplode. L'alleanza con Berlusconi, un tempo assai indigesta al leghismo più puro perché Berlusconi rappresenta il prototipo del grande capitale legato alla globalizzazione, e visto quindi come fonte di rovina dalla piccola borghesia e dal proletariato, diviene un elemento da accettare senza nemmeno tapparsi più il naso, perché garantisce un ritorno di potere e di influenza politica.


Il declino economico, sociale e culturale che sorregge il fenomeno leghista è però ampiamente una responsabilità della sinistra.


Non si può essere indulgenti su questo punto. La Lega ha una base di consenso interclassista che include il dentista e l'avvocato o il piccolo imprenditore al pari dell'allevatore e dell'operaio. Molti elettori della Lega della prima ora votavano, o erano addirittura iscritti, al PCI ed alla CGIL.


La sinistra ha lasciato che una parte importante della sua classe di riferimento fosse attratta dalle false promesse di protezione localistica ed egoistica della Lega. Il motivo è del tutto ovvio: il PCI e la CGIL, dalla svolta berlingueriana, corrispondente, in ambito sindacale, a quella di Lama nel congresso dell'Eur del 1980 e portata a termine da Trentin, abbandonò ogni velleità di difesa degli interessi di classe, imborghesendosi in un rapporto con la Dc (nella parentesi del compromesso storico) e poi con il grande capitale (adottando una piattaforma programmatica sempre più liberista) fino a sposare la globalizzazione come fenomeno inevitabile, con cui convivere (ed addirittura foriero di progresso).



Il centro-sinistra prodiano, strategicamente alleato con il grande capitale bancario e con la grande industria, non ha fatto che acuire l'imborghesimento della sinistra italiana. Consegnando importanti quote del proletariato del Nord, private di un partito di riferimento e di una educazione di classe adeguata, alle sirene neomedievali del leghismo, le uniche a criticare gli effetti socialmente distruttivi della globalizzazione, e le uniche, oggi, a criticare il Governo neoliberista di Monti, ancora una volta ampiamente difeso da PD e CGIL.


Le modalità del crollo del leghismo non sono incoraggianti, perché tale fenomeno politico crolla non per una crisi, indotta da sinistra, dei suoi valori fondanti e della sua linea politica, ma da una serie di scandali giudiziari probabilmente anche pilotati in modo da zittire una componente critica nei confronti della svolta neoliberista in atto.


Quindi ancora una volta la sinistra non è stata protagonista, con il risultato che la base proletaria del leghismo, abbandonata a sé stessa è oramai derubata di ogni residuo di coscienza di classe da decenni di indottrinamento bossian/berlusconiano, sarà molto probabilmente nuovamente intercettata da qualche altra forma di populismo di destra.


Ancora una volta, è urgente ed indispensabile che un soggetto genuinamente di sinistra sappia intercettare tale proletariato, ricucendo un rapporto basato su valori di sinistra di coesione, solidarietà, unità, giustizia sociale, proponendo quindi una soluzione offensiva, generosa e coraggiosa, e non la soluzione difensiva, egoistica ed impaurita proposta dalla Lega, per uscire dalla crisi.


Ancora una volta, occorre dolorosamente constatare che tale soggetto di sinistra non esiste.

lunedì 9 aprile 2012

I fatti del Mali: alcune prime evidenze




di Riccardo Achilli


Sebbene gli eventi del Mali di queste ultime settimane siano ancora avvolti da molta nebbia, e quindi sia impossibile fare un'analisi approfondita, alcuni elementi di evidenza stanno emergendo, ed in qualche misura sono paradigmatici della piega che gli eventi stanno prendendo, nell'Africa sahariana, dopo che la fase più intensa dei sommovimenti della Primavera Araba nel Maghreb sembra essersi esaurita.
Appare intanto evidente che la destabilizzazione del Mali è il diretto frutto della guerra civile libica, una guerra civile alimentata, sostenuta ed utilizzata come alibi per mettere le mani sulle risorse petrolifere di quel Paese da parte di Gran Bretagna, Francia e USA, al fine di sostituire con un imperialismo forte l'imperialismo debole dell'Italia, che in luogo delle bombe all'uranio impoverito usava gli intrecci affaristici fra Berlusconi e Gheddafi per cementare il suo potere. Per essere chiari: la storia del ribellismo tuareg, e più in generale dei popoli berberi, è antica tanto quanto quei popoli stessi; già Massinissa si ribellò ai cartaginesi, e il suo discendente Giugurta lo fece con i romani. Nel Mali indipendente, quindi dal 1960 in poi, con la rivolta scoppiata a Gennaio di quest'anno siamo arrivati alla quarta sollevazione. Tuttavia, a differenza delle rivolte passate, che sono state sistematicamente sconfitte, quest'ultima sembra aver avuto successo, con il nord del Paese che è oramai de facto in mano agli indipendentisti tuareg, che hanno già dichiarato unilateralmente la nascita del loro nuovo Stato (personalmente simpatizzo molto con le istanze indipendentistiche dei tuareg, peraltro).
Un fattore importante di tale vittoria è proprio collegato con la fine della Jamahiriyah. Gheddafi aveva infatti svolto un ruolo importantissimo di arbitro della stabilità del Mali. Nel caso della rivolta del 2007-2009, come in quelle precedenti, aveva di fatto gestito tutta la fase negoziale che portò al cessate-il-fuoco, ed al contempo, per controbilanciare la delusione dei tuareg, aveva ospitato nel suo Paese migliaia di guerriglieri indipendentisti, nella maggior parte dei casi arruolandoli nell'Esercito libico, e nutrendoli con l'illusione di un futuro Stato del Sahara indipendente. L'interesse di Gheddafi era evidente: i tuareg, nella loro vita di migranti, si spostano anche nella Libia meridionale, per cui ogni iniziativa diplomatica tesa ad evitare la formazione di uno Stato tuareg indipendente, ed al contempo a far credere ai tuareg che il regime libico era loro amico, serviva a tutelare la stessa integrità territoriale della Libia.
Con la guerra civile in Libia e la fine di Gheddafi, nessuno è più in grado di svolgere un ruolo di mediazione su scala regionale. Inoltre, migliaia di tuareg che avevano combattuto nell'Esercito lealista libico, con la sconfitta di Gheddafi, sono fuggiti dalla Libia, immersa da mesi nel bagno di sangue della “caccia al negro” e dalla caccia all'amico di Gheddafi” scatenata dal CNT. Sono fuggiti portandosi dietro addestramento militare ed armi, anche pesanti, dagli arsenali libici, divenendo quindi pericolosissimi per lo scalcinato Esercito governativo del Mali.
E' quindi evidente che le potenze occidentali che hanno voluto far cadere Gheddafi si trovano oggi, un po' come i tradizionali apprendisti stregoni, a dover gestire la patata bollente della secessione tuareg nel Mali del Nord, che rischia di avere effetti destabilizzanti su tutta l'area. Infatti, istanze indipendentistiche, a volte anche organizzate militarmente, sono presenti in tutta l'area in cui vivono popolazioni tuareg, quindi anche in Niger (Paese peraltro fondamentale per le sue riserve di uranio e petrolio, e dove è già in atto da anni una guerriglia tuareg di bassa intensità), in Libia, in Algeria ed in Ciad. Poiché i tuareg sono di etnia berbera, i richiami etnici e storici rischiano di dare un ulteriore incentivo ed un supporto politico, morale (ed anche in qualche caso militare) anche all'indipendentismo berbero in altre aree (Dal Polisario in Sahara Occidentale agli indipendentisti cabili in Algeria).
In sostanza, il successo della rivolta tuareg nel Mali del Nord rischia di far esplodere tutta l'Africa nord occidentale, con conseguenze imprevedibili, anche in termini di crescita dell'islamismo fondamentalista. Le reazioni dei Paesi occidentali “democratici”, che in teoria dovrebbero avere a cuore l'autodeterminazione dei popoli, sono infatti tutte negative, ad iniziare dalla Francia, che esercita ancora un controllo postcoloniale importante in tale area. Il Ministro degli Esteri Juppé dichiara infatti che “ci sono due opposte fazioni fra i tuareg. L'MNLA vuole l'indipendenza dell'Azawad, il che è per noi inaccettabile, perché siamo impegnati a mantenere l'integrità territoriale del Mali. Poi c'è un'altra fazione, Ansar Dine, che è legata strettamente con Al Qaeda nel Maghreb islamico”. Questa seconda affermazione di Juppé è peraltro indimostrata, anche se la correlazione fra Ansar Dine ed Al Qaeda viene da questi venduta, per ovvi motivi strumentali, come un fatto certo. La campagna di diffamazione dei mass media francesi nei riguardi dell'indipendentismo tuareg è così violenta che Andy Morgan, del Think Africa Press, ha accusato Agence France-Press di aver rilanciato acriticamente, e senza alcuna verifica, il ritratto fatto dal Governo del Mali dei ribelli, accusati di essere “predoni”, “trafficanti di droga”, “mercenari di Gheddafi”. Senza uno straccio di prova, la stampa francese ha infatti rilanciato l'accusa rivolta all'MNLA da parte dell'ex Presidente maliano Toumani Touré, di aver ucciso a sangue freddo, ad Aguelhok, uomini disarmati appartenenti all’Esercito del Mali. Tra l'altro, tale indimostrato episodio costituirebbe la prova, secondo la Francia, di un’alleanza dell’MNLA con AQMI. Infatti, si sostiene che, siccome gli uomini sono stati legati e uccisi con un colpo di pistola alla nuca, e che AQMI uccide in questo modo i suoi prigionieri, allora l'MNLA è alleato di AQMI. L'infantilismo e l'insussistenza di un simile ragionamento non valgono la pena di essere commentati. Tra l'altro, il massacro di civili inermi del Nord condotto dall'Aeronautica governativa il 23 Febbraio, documentato da testimonianze indipendenti da parte del personale di Médecins Sans Frontières, non ha ricevuto alcuna attenzione mediatica: guai a mettere in difficoltà l'amico Toumani Touré.
Soltanto l'imminenza delle elezioni presidenziali suggerisce a Sarkozy prudenza, ed impedisce un intervento militare francese, sul modello di quelli fatti nel 2008 in Ciad e nel 2011 in Costa d'Avorio, per soffocare l'indipendentismo tuareg. Il tentativo di soffocare il diritto all'indipendenza dei tuareg viene così condotto con mezzi politico-diplomatici: l'ECOWAS (la comunità degli Stati dell'Africa Occidentale), una creatura dei francesi (il primo presidente di tale organizzazione fu il dittatore del Togo, Eyadéma, ex ufficiale della Legione Straniera, amico personale di De Gaulle, che prese il potere nel suo Paese spodestando ed uccidendo personalmente l'ex Presidente Olympio, che aveva guidato il processo di indipendenza) ha infatti subito emanato un comunicato molto duro, in cui sostiene nuovamente il presunto legame fra i ribelli tuareg ed Al Qaeda, chiede che l'integrità territoriale del Mali sia garantita, e chiede ai ribelli stessi di cessare immediatamente ogni ostilità. A dimostrazione della totale organicità dell'ECOWAS alla politica neocoloniale francese, l'ambasciatore francese presso l'ONU, Gérard Araud, ha immediatamente chiesto che il Consiglio di Sicurezza adotti la posizione dell'ECOWAS. Gli stessi Stati Uniti sono subito scesi in campo, bloccando ogni aiuto al Mali (e facendo quindi pagare per l'ennesima volta alle popolazioni civili il prezzo delle decisioni di politica estera dell'amministrazione USA, avventuriere e sbagliate, sbagliate già dal momento in cui Obama sostenne lo spodestamento di Gheddafi). Il Washington Post, il più reazionario giornale statunitense in materia di politica estera, peraltro anche sensibile agli interessi geo strategici francesi, poiché fra i proprietari figura la Lazard, storica banca d'affari franco-statunitense, ha scritto che, poiché la Francia non vuole intervenire militarmente, sarebbe necessario un intervento militare della NATO diretto a “fermare i ribelli tuareg”.
In questo quadro, si capisce anche perché il colpo di Stato militare che, il 22 Marzo, nel bel mezzo della ribellione tuareg nel Nord del Paese, ha esautorato il Presidente del Mali Amadou Toumani Touré sia stato immediatamente condannato in modo generalizzato dall'intera comunità internazionale, ed i militari golpisti siano stati quindi costretti quasi immediatamente a dimettersi, lasciando l'incarico di guidare il Paese al portavoce del Parlamento, Traoré, per un breve Governo di transizione in vista di elezioni molto incerte. Il colpo di Stato dei militari è in realtà motivato essenzialmente da un risentimento che strisciava da anni fra gli strati bassi e intermedi dell'Esercito governativo, a causa delle paghe molto basse, dei livelli modesti di equipaggiamento ed addestramento, che espongono i militari a gravi rischi nel corso delle periodiche operazioni contro le ripetute ribellioni tuareg, e per motivi etnici: le etnie non tuareg presenti nell'Esercito non hanno mai digerito il fatto che, a seguito degli accordi di cessate-il-fuoco del 2008, molti tuareg siano stati reclutati nelle Forze Armate. Tuttavia, tale colpo di Stato, motivato ufficialmente dai golpisti con l'inefficienza dell'ex Presidente nel contrastare l'indipendentismo tuareg, si è in realtà tradotto in un enorme regalo ai ribelli. Il caos in cui è precipitato il Paese nei giorni successivi al putsch ha infatti aiutato gli insorti a conquistare le principali città dell'Azawar (Gao, Timbuctù, Ansongo) ed a ottenerne una secessione de facto. L'intera comunità internazionale si è quindi mossa concordemente per chiedere l'immediato ripristino del Governo pre-golpe (ivi compresa la Cina, che nel business minerario e petrolifero del Niger ha grossi interessi, e che teme molto che il successo dell'indipendentismo tuareg nel Mali si diffonda, come un'epidemia, anche ai tuareg che combattono la stessa battaglia nel Niger). Il governo di Toumani Touré (grande amico della Francia e dell'amministrazione Bush), infatti, riuscì a reprimere con successo la precedente ribellione del 2008, anche utilizzando metodi sbrigativi più degni di un despota che di un “soldato della democrazia”, come viene considerato dai suoi amici occidentali.
In realtà, il colpo di Stato dei militari di Bamako ha interrotto un tentativo di repressione dell'indipendentismo tuareg che era in atto non soltanto con armi militari, ma anche con gli strumenti dell'inganno mediatico. Come si è già detto, il tentativo principale di screditare il diritto dei tuareg all'autodeterminazione passa per il tramite di una identificazione di tale lotta con il fondamentalismo islamico di Al Qaeda. Però il fondamentalismo islamico ha una storia di alleanze strategiche molto più importante con gli Stati Uniti che con le popolazioni locali (storia che inizia dal conflitto afghano degli anni Ottanta). Inoltre, la linea politica dell'imperialismo occidentale, nel post-Primavera Araba, non è più quella di sostenere regimi laici amichevoli alla Ben Alì, ma proprio quella di sostenere l'islamismo più o meno moderato (come dimostra il successo di Ennahda in Tunisia, propiziato da generosi finanziamenti da parte della Turchia e di altri Paesi musulmani alleati dell'Occidente, o l'ascesa di Al Qaeda nella Libia post-Gheddafi, con il suo leader locale Belhadj che ha preso il potere, defenestrando i “laici” Jalloul e Jibril, laici che comunque avevano provato a restare al potere promettendo di riscrivere in base alla sharia la Costituzione post-gheddafiana del Paese, con l'aiuto, secondo Thierry Meyssan, degli USA e della Gran Bretagna, cfr. http://www.voltairenet.org/Come-al-Qaida-e-arrivata-al-potere; come dimostra anche l'endorsement che lo stesso senatore repubblicano Mc Cain ha promesso al leader della Fratellanza Musulmana egiziana, candidatosi alle prossime elezioni in contrasto con la Giunta militare, ed anche con i candidati che rappresentano la componente laica della società civile egiziana, come El Baradey).
Pertanto, per la linea politica adottata rispetto al Nord Africa, l'Occidente ha perso qualsiasi diritto a criticare i suoi avversari perché stringono alleanze con l'islamismo o con la stessa Al Qaeda. Inoltre, non vi è alcuna prova seria che il MNLA sia effettivamente alleato con Al Qaeda. Il fatto che la rivolta tuareg sia guidata anche dal movimento islamista Ansar Dine, il cui leader, Ag Ghaly, è stato affiliato ad AQMY, non significa niente. Il MNLA, infatti, si proclama laico e democratico, e persegue un programma finalizzato alla creazione di uno Stato tuareg democratico ed indipendente, ed il suo stesso leader afferma che le tendenze islamiste radicali non appartengono alla cultura del popolo tuareg. Vi sono inoltre numerosi episodi ben testimoniati di contrasti, anche violenti, fra MNLA e Ansar Dine durante la recente ribellione. Ad esempio, lo stesso professor Keenan dell'Università di Londra accredita le versioni secondo cui MNLA e Ansar Dine non sembrano combattere insieme, e sembrano piuttosto muoversi con una elevata autonomia reciproca. L'episodio di Gao, in cui un commando di Ansar Dine ha preso in ostaggio il console algerino, è significativo: l'MNLA si è immediatamente dissociata da tale azione. Nella stessa città di Gao, Ansar Dine avrebbe conquistato una base militare, e ne sarebbe stata scacciata dall'arrivo del MNLA, mentre un locale comandante militare dell'MNLA avrebbe detto, in un'intervista, che “Ansar Dine è qui ma i loro obiettivi ed i nostri sono completamente diversi. Non c'è collaborazione né accordo” (David Lewis, Reuters, 4 Aprile 2012, http://www.reuters.com/article/2012/04/04/us-mali-rogue-idUSBRE8330X220120404 ). Contestualmente, tramite il suo portavoce, Ama Hag Sid'Hamed, l'MNLA ha ordinato a Ansar Dine di abbandonare la città di Timbuctù.
Il sospetto è che, ancora una volta, l'islamismo venga utilizzato dall'imperialismo occidentale come alleato per fare le operazioni sporche, come si è verificato in Afghanistan nel corso della guerra contro gli occupanti sovietici, e come sembra verificarsi anche in Siria, nell'interessato tentativo di far fuori Assad. La storia del leader di Ansar Dine è infatti molto sospetta. Il buon Iyad Ag Ghaly, infatti, nasce come combattente dell'MPLA, movimento indipendentista tutt'altro che jihadista, e dopo la fine della ribellione del 1996 viene assunto dal Governo del Mali,suo precedente nemico, ed inviato in qualità di diplomatico in Arabia Saudita. Quando si scopre che sta intrattenendo rapporti con movimenti islamisti sauditi e con esponenti di al Qaeda, viene richiamato in Patria ma non licenziato. Si perdono le sue tracce e poi, quando a Gennaio 2012 esplode la ribellione tuareg, all'improvviso rispunta fuori dal nulla, annunciando l'improvvisa nascita di Ansar Dine, senza fornire informazioni sui finanziatori di tale operazione. E questa organizzazione nata dal nulla ed in modo improvviso inizia a combattere autonomamente, mettendo in luce capacità militari ed un equipaggiamento bellico di prim'ordine. Chi glieli ha forniti? Tutta questa storia puzza di operazione di intelligence, fatta per portare discredito alla causa indipendentistica dei tuareg, identificando mediaticamente con il jihadismo quella che altro non è che una causa (legittima) di autodeterminazione di un popolo.
La sostanza è che qui c'è un diritto all'indipendenza nazionale, che crea problemi all'imperialismo occidentale, perché foriero di una possibile esplosione di tutta l'Africa nord occidentale, e che è stato gestito male da apprendisti stregoni che, bombardando la Libia, si illudevano di diventare i padroni dell'Africa ed adesso si ritrovano fra le mani una situazione ingestibile, con uno Stato tuareg de facto, un Governo del Mali incapace di reagire ed in preda alle incertezze di una transizione verso le elezioni anticipate dopo un colpo di Stato maldestro, con un Presidente ad intermi (Traoré) che non si sa quanto reale potere abbia nel Paese, con tentativi di attribuzione di una natura jihadista ad un movimento di liberazione nazionale altrettanto maldestri, l'assenza di un soggetto regionale in grado di svolgere un ruolo negoziale, l'impossibilità di un intervento militare dall'esterno che riporti sotto controllo la situazione, perché il principale soggetto che lo dovrebbe sostenere, la Francia, è alle prese con una fase elettorale molto delicata (ma fonti della BBC parlano di circa 3.000 militari dell'ECOWAS pronti ad intervenire contro i tuareg, facendo da braccio armato all'impotente Francia). Ma come dire: chi è causa del suo mal pianga sé stesso. 

 Riccardo Achilli

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