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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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venerdì 19 ottobre 2012

ESSERE TROTSKISTA AL GIORNO D'OGGI di Nahuel Moreno




di Nahuel Moreno


Pubblichiamo, ringraziando Riccardo Orru per la eccellente traduzione, un breve testo del celebre trotskista argentino Nahuel Moreno, confidando che anche i lettori di diverse tendenze politiche sappiano superare pregiudizi identitari e vedere, in questo testo, una lezione fondamentale del trotskismo, ovvero l'esigenza di una lotta politica condotta non soltanto sul livello nazionale. Un fatto di grande attualità anche oggi, posto che le sinistre politiche dei Paesi PIIGS dovrebbero ritrovare forme di coordinamento nel confronto con Bruxelles e la Trojka, a partire da un manifesto dei Paesi euromediterranei per una diversa politica economica e sociale in ambito europeo, superando lotte meramente nazionali contro le politiche neoliberiste in atto - La Redazione


In un reportage realizzato nell`agosto del 1985 e che fu pubblicato per la prima volta nel 1988 (profilo biografico Cuadernos de Correo Internacional), Moreno definiva così il significato dell’essere trotskista:
"In linea di massima, significa difendere le posizioni di principio del socialismo e del marxismo. E’ sostenere che i trotskisti oggi sono gli unici difensori, secondo il mio criterio, della naturale impostazione marxista.
Iniziamo con il capire cosa significa essere marxista. Non possiamo farne un culto, come fatto con Mao o con Stalin. Essere trotskista oggi non significa essere d’accordo con tutto quello che disse Trotsky, senza criticarne la posizione o superarla, come con Marx, Engels o Lenin, perchè il marxismo pretende di essere scientifico e la scienza insegna che non ci sono verità assolute. Questo è il primo punto; essere trotskista significa essere critici, anche del proprio trotskismo.
Per quanto riguarda l’aspetto positivo, essere trotskista significa rispondere a tre chiare posizioni  programmatiche. La prima sostiene che, se il capitalismo è presente  nel  mondo o in un determinato paese, non sarà possibile trovare una soluzione di fondo per alcun problema:  cominciando dall`educazione e dall`arte e passando per problematiche generali, come la fame, la povertà crescente ecc.
A questo, anche se non è esattamente lo stesso, si aggiunge il criterio che è necessaria una lotta senza pietà contro il capitalismo, fino a distruggerlo, in modo da imporre un nuovo ordine economico e sociale nel mondo, che altro non può essere che il socialismo.
Secondo problema: in quei luoghi dove la borghesia è stata espropriata (parlo dell’URSS e di tutti quei paesi che si dichiarano socialisti), non c’è alcuna via d’uscita che non sia  la costruzione di una democrazia operaia. Il grande male, la sifilide del movimento operaio mondiale è la burocrazia, i metodi totalitari che esistono in questi paesi e nelle organizzazioni operaie, i sindacati, i partiti che si dichiarano a favore della classe operaia e che si sono corrotti a causa della burocrazia interna.  Questo è sicuramente il grande merito di Trotsky, che fu il primo ad implementare questa terminologia, oggi universalmente riconosciuta. Tutti parlano di burocrazia, a volte perfino i governanti di quegli stati che noi chiamiamo operai. Quando non esiste una vera democrazia, non si può pensare di costruire il socialismo. Il socialismo non è semplicemente un`organizzazione economica. L’unico movimento che fece questo tipo di analisi è il trotskismo, che fu anche l’unico che sancì  la necessità dell’esito rivoluzionario in tutti gli stati e anche nei sindacati, per la costruzione di una democrazia operaia.
La terza questione, decisiva, è che è (il trotskismo ndt) l’unico sistema coerente con la realtà economica e sociale attuale, dove un gruppo di grandi compagnie multinazionali domina di fatto l’economia mondiale.
A questo fenomeno economico-sociale è necessario rispondere con un’organizzazione e una politica internazionale.
In questa epoca di movimenti nazionalisti che sostengono la necessità di risolvere i problemi all’interno dei propri confini, il trotskismo è l`unico che sostiene la necessità di una soluzione a livello mondiale, inaugurando una nuova fase, il socialismo. Per arrivare a questo, è necessario recuperare la tradizione socialista dell’Internazionale,  che affronti la strategia  e la tattica finalizzata all’eliminazione delle grandi multinazionali e per inaugurare il socialismo, che altro non può essere che mondiale.
Se vi è un’economia mondiale, vi deve essere una politica mondiale, con un’organizzazione dei lavoratori che estenda sia  la rivoluzione su scala internazionale, sia i fondamentali diritti democratici alla classe operaia, per renderla artefice del proprio destino.  Il socialismo può essere applicato solo su scala mondiale.  Tutti i tentativi di creare il socialismo su scala locale o nazionale sono naufragati, perché, essendo l`economia   mondiale, non è possibile trovare una soluzione economico-sociale dei problemi  dentro i confini ristretti di un paese. Per entrare nell’organizzazione mondiale socialista, l’avversario da sconfiggere sono le multinazionali.
Per queste ragioni, la summa dei trotskisti oggi, è che sono loro gli unici che possiedono un’organizzazione mondiale (piccola, debole, tutto quello che volete), però l’unica internazionale esistente, la Quarta, che riprende tutta la tradizione delle Internazionali passate, e che le attualizza di fronte ai nuovi  fenomeni, aggiungendovi  la prospettiva marxista di una lotta mondiale".




mercoledì 17 ottobre 2012

LA COSTITUENTE AUTOCONVOCATA di Norberto Fragiacomo





LA COSTITUENTE AUTOCONVOCATA
di 
Norberto Fragiacomo  


Il governo che ruba ai poveri (aumento dell’IVA, tetto a deduzioni e detrazioni IRPEF, stretta sui permessi previsti dalla legge 104/92 ecc.) per dare ai ricchi si è eretto ad assemblea costituente: dopo aver fatto approvare, a tempo di record, la riscrittura dell’articolo 81, ci riprova adesso con il Titolo V della Costituzione, quello che regola i rapporti tra lo Stato e le Autonomie locali, “riconosciute”, si badi bene, dalla Repubblica (art. 5). Un’altra volata? Vista la capacità di “resistenza” dimostrata, nei mesi scorsi, dal Parlamento, presumiamo che tutto filerà liscio, e degli enti territoriali, di qui a poco, residuerà solo un pallido ricordo.

Certo, l’Italia è amministrata male, ma ad ogni livello, al centro come in periferia, e cancellare (di fatto) le autonomie significa consegnare tutto il potere al direttorio che, per volontà degli investitori esteri, sta mutando la fisionomia del Paese. Abbiamo intuito da tempo l’obiettivo perseguito dalla banda Monti: svendere l’industria ed il patrimonio statali e “americanizzare” la penisola, cioè smontare il welfare pezzo per pezzo, privatizzando ogni cosa, diritti compresi. La volontà popolare (leggi: esito dei referendum sull’acqua) è un ronzio a stento percepibile, di cui nessuno tiene conto: attraverso lo spread comandano la crisi, spacciata per una colpa collettiva, e l’esigenza di ridurre un debito pubblico che, malgrado le terapie intensive, sta opportunamente aumentando. Ci aspetta il famigerato fiscal compact, sinonimo di miseria nera, e in questa congiuntura la scelta di annichilire ogni contropotere appare pienamente funzionale agli scopi del governo.

Ma quali modificazioni apporta, in sostanza, la riforma al testo attualmente vigente? Per scoprirlo, diffidando delle semplificazioni giornalistiche, siamo andati a vedere il sito Leggi Oggi.it, che pubblica, con commenti, una versione del disegno di legge costituzionale (la stesura definitiva? Parrebbe di no: nel primo comma dell’articolo 117 c’è un “oppure”, tra due formulazioni più o meno analoghe, che è indice di provvisorietà).   
Il nuovo articolo 100 introduce il controllo preventivo di legittimità sugli atti della Regione e quello successivo sulla gestione dei bilanci, investendone la Corte dei Conti (nello specifico, la sua Sezione regionale di Controllo). Si tratta di un’innovazione particolarmente rilevante, che rafforza – rispetto non solo alla visione pseudofederale accolta nel 2001, ma anche alla soluzione prescelta dall’Assemblea Costituente – la vigilanza delle istituzioni centrali sull’Ente regionale. La norma, e le logiche che la ispirano, fanno in qualche modo da premessa agli interventi successivi.

La materia del contendere è, evidentemente, la titolarità dei poteri di spesa: non sorprende, pertanto, che ad essere interessate dalla riforma siano pure le Regioni a statuto speciale, la cui autonomia “in materia finanziaria si svolge nel rispetto dell’equilibrio dei bilanci econcorrendo con lo Stato e con gli altri enti territoriali ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea (art. 116)” – un elegante giro di parole per dire che detta autonomia viene soppressa, perché incompatibile con il divieto di indebitarsi (art. 81) e le letterine BCE trasfuse in trattati capestro. Tanto per ribadire il concetto, l’articolo 117primo comma, spalanca di nuovo le porte all’interesse nazionale – invero, solo formalmente espunto dalla legge costituzionale 3/2001 – ribattezzato “unità giuridica ed economica della Repubblica”. Non inganni l’endiadi: ciò che sta cuore al governo sono i risparmi, che verranno garantiti da leggi dello Stato. Un interesse nazionale così pervasivo e, in fondo, discrezionale rappresenta lo strumento ad hoc per disinnescare futuri conflitti tra la capitale e la provincia: basterà un richiamo all’unità per mettere a tacere le regioni.

Coerentemente con questa impostazione si estende a dismisura l’ambito della legislazione esclusiva statale (art. 117, secondo comma): non sarà più consentito alle regioni intrattenere rapporti internazionali, neppure con i territori contermini (l’esperienza pre-Titolo V di Alpe Adria non sarebbe quindi ripetibile), mentre, così come avevamo previsto, si riforma la coppia armonizzazione dei bilanci pubblici-coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, che l’aggiustamento primaverile (l. cost. 1/2012) aveva temporaneamente separato. Tra unità, coordinamenti e controlli occhiuti la supremazia statale diventa a prova di bomba, ma l’estemporaneo legislatore non si ferma qui, e mette in saccoccia anche quelle materie (norme generali sul procedimento amministrativo, livelli minimi generali di semplificazione amministrativa) che, non essendo menzionate nel testo in vigore, avevano generato contenzioso. Maggiori preoccupazioni desta, in chi scrive, l’attribuzione in esclusiva, allo Stato, di “disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche” (lett. g), “porti marittimi e aeroporti civili, di interesse nazionale, grandi reti di trasporto” (lett. t) e “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia” (lett. v). Per quanto riguarda il pubblico impiego, si va verso un appiattimento verso il basso, che non terrà conto delle particolarità regionali: sarà da vedere se residuerà una competenza in capo alle Regioni autonome (il Friuli Venezia Giulia ha, ad esempio, potestà primaria in materia), costrette a passare sotto le forche caudine dell’articolo 116 di nuovo conio; il riferimento agli aeroporti potrebbe preludere all’accorpamento/cancellazione di scali (es.: Ronchi dei Legionari, vicino Trieste), con pesanti conseguenze sull’utenza ed il territorio, mentre una gestione accentrata delle reti di trasporto peggiorerà situazioni già oggi al limite dell’insostenibilità (da triestino, so bene che l’Italia ferroviaria termina a Mestre, e i pendolari non saranno certo beneficiati da uno Stato micragnoso e senza soldi). Di cattivo augurio, poi, quel richiamo alla produzione d’energia: vorrà dire che si impianteranno rigassificatori senza tener conto della volontà espressa dalle popolazioni, e magari si farà retromarcia sul nucleare, calpestando gli esiti di unreferendum? Forse no, ma il sospetto è legittimo, vista l’allergia del governo c.d. “tecnico” alla sovranità popolare.

Novità anche a proposito della legislazione concorrente, che sarà esercitata dalle regioni all’interno di una cornice piuttosto angusta: mentre prima allo Stato spettava “la determinazione dei principi fondamentali”, ora si precisa che lo “Stato, nelle medesime materie, disciplina i profili funzionali all’unità giuridica ed economica (rieccola!) della Repubblica stabilendo, se necessario, un termine non inferiore a centoventi giorni per l’adeguamento della legislazione regionale”. Viste le circostanze, ha ancora senso parlare di legislazione concorrente, o faremmo meglio a definirla (meramente) attuativa? Fatto sta che le regioni perdono i porti locali ed anche il turismo, che ben difficilmente verrà sviluppato da un’autorità centrale distante e poco consapevole di problemi e peculiarità del territorio.
Il quarto comma è una norma di chiusura, nel senso che chiude i conti con la c.d.competenza residuale delle regioni, che viene ricompresa in quella concorrente; il sestoamplia la potestà regolamentare dello Stato centrale. Si costituzionalizza poi l’esperienza dellaConferenza permanente Stato-regioni, che sarà chiamata, in pratica, a dare il proprio assenso alle decisioni governative.
Fin qui le modifiche di sostanza, che non concernono l’articolo 119, già rinnovato dalla riforma di aprile. Invariato risulta pure l’articolo 114 che, riscritto nel 2001 in un’ottica “federale”, sopravvive come una suggestiva rovina, o una beffa alle istanze autonomiste: dopo l’entrata in vigore della legge, mettere sullo stesso piano Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato – come elementi costitutivi della Repubblica, dotati di pari dignità - sarà lecito solo ai retori più impudenti (che in Italia, peraltro, mai sono mancati né mancheranno).

Due parole di conclusione. La riforma del 2001 è stata fatta in fretta, per motivi politico-elettorali, e la sua attuazione si è rivelata problematica – quella odierna risolve le difficoltà tagliando con l’accetta, e svuotando di significato la previsione dell’articolo 5, ad esclusivo vantaggio dell’autorità centrale. Regioni e Comuni vengono sterilizzati non perché covo di ladroni (le vicende Fiorito, Formigoni ecc. valgono al più come casus belli, convenientemente enfatizzato dai media) o per il loro cattivo funzionamento, ma per il semplice fatto che rappresentano ostacoli sulla strada della normalizzazione economico-finanziaria imposta dalla troika. Punto.
Questa controriforma in senso centralista avrà però un risvolto positivo: il voto favorevole e senza tentennamenti che arriverà dai gruppi parlamentari del PD - si accettano scommesse - farà cadere la maschera di sinistra indossata da Pierluigi Bersani in vista di primarie (truffaldine per l’elettorato progressista) che solo assumendo pose “comuniste” può sperare di aggiudicarsi.
L’eterno alternarsi sulla scena di questi arlecchini ci ha proprio stufato: visto che non hanno il coraggio di opporsi a politiche distruttive se ne vadano tutti in vacanza in Africa, e ci risparmino questo desolante spettacolo pieno di stranezza e di furia, che non significa niente.



lunedì 15 ottobre 2012

Omaggio a Gigi Meroni


di Enrico Pellegrini



Uno dei più grandi talenti calcistici che l'Italia abbia mai avuto.

Ala destra di Como, Genoa e Torino,Gigi Meroni è ricordato dai suoi avversari come una via di mezzo tra Garrincha e Best. Nel 1967 a San Siro, con un grande pallonetto tirato sbilanciato dal limite dell'area e finito precisamente nel “sette” della porta nerazzurra, interruppe il record di imbattibilità (tre anni) detenuto dalla “Grande Inter” di Herrera.
Morì il 15 ottobre 1967 investito da un'auto. Più di 20.000 persone parteciparono ai suoi funerali, e il lutto scosse la città. Dal carcere delle Nuove di Torino alcuni detenuti raccolsero soldi per mandare fiori. La stampa sembrò per un attimo perdonare la bizzarria contestata in vita (i capelli lunghi, la barba incolta), ma la Chiesa si oppose al funerale e criticò aspramente don Francesco Ferraudo, cappellano del Torino calcio, per aver celebrato il funerale di un "peccatore pubblico" con riti religiosi. Meroni infatti conviveva in una mansarda di corso Re Umberto a Torino con la sua ragazza di origine polacca, Cristiana Uderstadt, che all'epoca era ancora ufficialmente la moglie (anche se in attesa di annullamento del matrimonio) di un regista romano. Il quotidiano torinese La Stampa (di proprietà della famiglia Agnelli, come la Juventus) si unì alle richieste dei prelati, e si raccolse un movimento d'opinione per chiedere provvedimenti disciplinari contro il sacerdote.

Gigi Meroni non era però soltanto un campione di calcio (uno dei pochi “senza macchia” dei disastrosi Mondiali del ’66), ma un vero e proprio artista, sia per lo straordinario talento pittorico, sia per il modo anticonformista di concepire la vita. Emblematica del personaggio è una sua passeggiata per il corso di Como con una gallina al guinzaglio. Gianni Brera, nel suo necrologio, lo definì un «simbolo di estri bizzarri e libertà sociali in un Paese di quasi tutti conformisti». Il suo funerale suscitò, appunto, scandalo per via del sacerdote che celebrò le esequie di un così "grande peccatore". Tra i suoi "peccati" da "ricordare": quello di convivere con Cristiana, di avere posizioni politiche anarchiche e di non credere assolutamente in nessun Dio. 
GIGI MERONI! Indimenticabile...


IL CONCETTO DI POTERE PER I CINESI di Riccardo Achilli




IL CONCETTO DI POTERE PER I CINESI
di Riccardo Achilli

Dalla fondazione della Cina attuale, cioè dal regno di Qin Shi (221 a.c. - 206 a.c.) fino al ventesimo secolo, le monete in uso erano circolari, con un foro quadrato nel mezzo. Nella simbologia del Tao, il cerchio è il Cielo, il quadrato la Terra. Se accettiamo l'idea ovvia che una moneta è un simbolo del potere politico ed economico, il fatto che il Potere sia stato, per quasi tutta la storia cinese, associato ad una immagine di Assoluto, di Universo nel suo insieme, dovrebbe farci riflettere profondamente sul significato che i cinesi danno al potere, evitando quindi di assegnargli un epiteto di assolutismo, sulla base dei nostri criteri occidentali-illuministici.
A differenza di noi occidentali, abituati sin dai tempi greco-romani ad associare il potere politico agli individui che lo detengono (infatti nelle monete romane di epoca imperiale figurava sempre l'effigie del volto dell'imperatore allora in carica) per il cinese il potere è un concetto meno personale, più astratto, coincidente con un'idea di assoluto. Se anche vi è un imperatore personale, o un Grande Leader, come Mao, egli infatti altro non è che il fu-mu (padre e madre) in uno Stato concepito come una grande famiglia, in cui i sudditi sono i figli che devono rispetto. Non esiste il monarchismo individualizzato tipico della cultura occidentale, che porta Luigi XIV ad affermare "l'Etat, c'est moi". Molto più semplicemente, se la famiglia anagrafica è il microcosmo in cui l'individuo vive la sua vita, la famiglia statuale è il suo macrocosmo, ed ingloba tutto quanto. Per cui, esattamente come nella sua famiglia anagrafica, il cittadino dovrà venerare l'autorità dei genitori e degli avi, nella famiglia statuale egli dovrà obbedire agli ordini superiori dei suoi leader.
Da questo punto di vista, i concetti di rappresentatività e di controllo popolare sull'operato del Governo, cari alla democrazia liberale occidentale, sono semplicemente privi di senso per un cinese. Che senso ha controllare o pretendere rappresentatività dai propri genitori? Esattamente come in una famiglia, ogni individuo vive esclusivamente in funzione del ruolo che occupa, ed il rispetto assoluto per le gerarchie e per i ruoli diviene la base stessa che dà significato all'esistenza individuale. Rieccheggia in pieno l'insegnamento di Confucio: come afferma uno studioso di Confucio come Piero Corradini: "l'uomo potrà realizzare se stesso e i suoi valori soltanto nella società ed il fine ultimo della vita umana viene considerato in funzione dell'attività che ogni singolo svolge nella sua posizione sociale che, pur se suscettibile di miglioramento, è sempre, al momento, fissa e ben determinata." 
Poiché il confucianesimo non elabora una dottrina metafisica, la società sarà l'immagine dell'intero cosmo, ed il ruolo disciplinato ed ordinato dell'individuo nella società è fondamentale proprio perché corrisponde al suo ruolo nell'intero universo, e quindi al suo stesso significato essenziale. Da questo punto di vista il significato di "autoritarismo", nell'accezione di noi occidentali, è insensato. E' forse autoritario un padre? Forse, ma comunque e sempre per il nostro bene.
A differenza di ciò che si potrebbe pensare superficialmente, il confucianesimo non contempla un meccanismo sociale rigido ed ingessato. Al contrario, per il suo studio, i suoi meriti intellettuali, la sua devozione ed abnegazione assoluta alle gerarchie ed agli interessi superiori dello Stato, l'individuo può migliorare, evolvere, divenire una sorta di "santo laico", il "junren". Da ciò, deriva che nella mentalità cinese la meritocrazia ha un ruolo molto più forte che da noi. Il funzionario, la vera spina dorsale di una società che, per mantenere la  sua unità nonostante un territorio sterminato e distanze geografiche siderali, nonostante centinaia di etnie e religioni diverse, nonostante le pressioni disgregatrici esterne, si è sempre affidata al ruolo accentratore, autoritario (e quindi unificante) della burocrazia, viene selezionato, anche dai ceti contadini ed operai più poveri, con esami severi. E questo sia in epoca imperiale che in epoca moderna.  l'ambizione assume quindi un connotato diverso da quello occidentale: non è la legittima volontà di dispiegare appieno tutte le potenzialità dell'individuo, come la intendiamo noi, è bensì la capacità dell'individuo di agire per il bene dell'intera collettività: per Confucio l'uomo deve fare e "fare per niente". La pace e la prosperità del popolo e del Paese si realizza soltanto se ciascuno compie disinteressatamente il proprio dovere.

La stessa forma di ragionare dei cinesi è plasmata dal metodo confuciano: a differenza dell'occidentale, che parte dal generale (la teoria) per arrivare al particolare (l'applicazione pratica) il cinese parte da un'immagine concreta per indurne una teoria generale. Ciò peraltro mi ricorda alcuni episodi molto divertenti: durante il mio master, uno dei miei compagni era cinese. Quando i tipici docenti italiani esponevano le classiche lezioni cattedratiche di teoria generale, egli era solito interromperli chiedendo "e allora? In pratica?" Facendoli imbestialire non poco.
Ciò però significa anche che il cinese, proprio per l'abitudine a non ragionare in termini di schemi teorici generali, tende a non utilizzare lo schema dialettico hegeliano: non arriva ad una sintesi come negazione della negazione di una tesi. Al contrario, in ottemperanza al principio confuciano dell'armonia, cercherà sempre il "giusto mezzo" fra tesi ed antitesi, spesso arrivando ad una posizione che fa astrazione della tesi e dell'antitesi iniziali. Lo stesso maoismo teorico è impregnato di questa cultura (inconscia, ovviamente, perché ufficialmente il maoismo rigettava il confucianesimo, in quanto dottrina socialmente tradizionalista e conservatrice). Tutta l'elaborazione maoista sulle contraddizioni, per cui si differenziano le contraddizioni fra popolo ed avversari di classe e le contraddizioni interne al popolo, queste ultime gestibili anche in termini tattici (si veda l'iniziale alleanza fra Mao ed il Kuomintang in funzione anti-giapponese) esprime la ricerca di un punto mediano che in qualche modo smussi la dialettica estrema fra tesi ed antitesi. Molto più consapevolmente, la dirigenza comunista post-maoista ha  esplicitamente  fatto riemergere il confucianesimo dall'inconscio collettivo cinese, cui era stato confinato da Mao, per farne la base dell'istruzione scolastica, sin dalle elementari.
Questa visione del potere, imperniata sul collettivismo che prevale rispetto all'individualismo, sul familismo, sulla costante ricerca del punto mediano di armonia sociale, comporta ovviamente due aspetti, che noi occidentali, con la nostra mentalità, tendiamo a vedere in modo denigratorio, se non addirittura ad utilizzare come sintomi di un presunto "tracollo" imminente del sistema cinese: il paternalismo e la corruzione. Il sistema di potere cinese è paternalista. Lo è sempre stato, proprio perché è concepito come una famiglia. Non esistono però soltanto gli aspetti negativi (scarsa libertà individuale, sacrifici individuali imposti dallo Stato, come ad esempio quelli legati all'adesione a programmi obbligatori, quali quello sul controllo delle nascite o altro, compressione degli spazi per la contestazione e la critica, ecc.) Ha anche effetti positivi, che costruiscono legami di comunità molto più solidi che da noi. In epoca maoista, i cinesi erano organizzati per piccole comunità: la danwei (unità di lavoro) nelle fabbriche, la comunità rurale nelle campagne: queste unità comunitarie di base erano certo il luogo del controllo politico/ideologico del partito, ma anche il luogo della solidarietà, del mutuo soccorso, dei servizi sociali di base (poiché ogni danwei o comune rurale aveva la scuola, l'ospedale, l'asilo, negozi, servizi, ecc.). 

Ancora oggi, in nome di questo paternalismo che noi occidentali esecriamo, ogni cittadino può andare alla locale sezione del partito comunista per esporre problemi di vita quotidiana e chiedere aiuto. Ogni funzionario di base del partito è tenuto ad assicurarsi che i cittadini "siano felici". Fa parte dei suoi obblighi. Ora, nel paradiso occidentale, faccio fatica a vedere il cittadino che si reca alla locale sezione del PD o del PDL per lamentarsi di una bolletta che non riesce a pagare, oppure un attivista di base di tali partiti che fa il giro del quartiere per chiedere ai cittadini se sono felici o se hanno qualche angustia che possa essere risolta dal partito. 
Ancora oggi, le imprese occidentali che investono in Cina sono stupite di sentirsi rivolgere, dai loro lavoratori cinesi, richieste per avere un asilo-nido, una abitazione, il trasporto da casa all'azienda, o la scuola per i figli. Per l'individualismo occidentale, è invece normale regolare il rapporto fra lavoratore e datore di lavoro esclusivamente sulla base di un salario monetario, che poi il lavoratore, nella sua libertà, può spendere per mandare a scuola i figli oppure per ubriacarsi all'osteria. Ciò fa sì che il senso di comunità, di solidarietà e di legame interpersonale, in Occidente, si sia perso, segnando di fatto un arretramento culturale rispetto al tanto vituperato paternalismo cinese. Con enormi danni, ovviamente, per i più deboli, per gli oppressi, e anche per la stessa sinistra politica, la cui malattia degenerativa dipende proprio dall'individualismo crescente, che si è imposto dopo il declino della cultura del '68 (ed anzi, tale cultura conteneva inconsapevolmente i germi di questo individualismo, nella sua ricerca di libertà intesa come auto-realizzazione del Sè: con l'invecchiamento e l'integrazione nel sistema della generazione del '68, tale germe è diventato la pianta velenosa del rampantismo degli anni Ottanta).
Venendo al tema della corruzione, anche questo è distorto, se visto con occhi occidentali. Intanto, per ciò che si è detto, il fattore unificante fondamentale della Cina, che le ha permesso di rimanere unita nonostante le enormi spinte centrifughe e centripete che avrebbero facilmente potuto disintegrarla, è stata la burocrazia. La Cina è da sempre uno Stato burocratico, dai madarini imperiali ai funzionari di partito odierni. La burocrazia ha infatti unificato lo Stato, conferendogli autorità, stabilità, legalità. Però la burocrazia è una classe che non si riproduce generando valore aggiuntivo, poiché è esterna al ciclo di produzione. La sua forma di riproduzione (in un sistema fondamentalmente meritocratico come quello cinese, in cui si accede al funzionariato tramite esami) è, quindi, esattamente basata sulla corruzione, come forma, da un lato, di sfruttamento delle classi produttive, e dall'altro di affermazione del suo potere nella società. Potere necessario a tenere insieme un Paese immenso e profondamente diversificato come la Cina. 
La corruzione è infatti esistita da sempre, era endemica nella Cina imperiale come in quella attuale, e diversi episodi sanguinosi e radicali della storia cinese, quelli cioè in cui l'armonia sociale confuciana si è momentaneamente spezzata, possono essere interpretati anche (benché non solamente) come necessarie fasi di lavacro sociale, nel momento in cui la corruzione raggiungeva livelli oramai eccessivi e socialmente distruttivi. Ad esempio, la fase di instabilità e violenza che va dalla rivolta del Loto Bianco del 1774 alle rivolte degli Hui e dei Miao del 1873, una fase in cui le vittime delle violenze furono il doppio rispetto ai morti della prima guerra mondiale, fu legata anche all'eccessivo livello di corruzione della burocrazia. La stessa Rivoluzione Culturale di Mao, con i suoi strascichi di violenza, fu anche un modo per sovvertire le posizioni di potere acquisite da una burocrazia corrotta. La strage quotidiana e silenziosa perpetrata dai vertici comunisti attuali, mediante la condanna a morte di centinaia di funzionari e dirigenti di partito accusati di corruzione, è la guerra che si sta combattendo oggi. In sintesi, per quanto sia odioso, occorre riconoscere pragmaticamente che la corruzione, in quanto forma di riproduzione sociale della mezza classe dei burocrati, è un male necessario ed inevitabile in un Paese che per sua natura può essere tenuto insieme proprio dalla burocrazia dello Stato. E che la storia cinese ha elaborato sanguinosi anticorpi per ricondurre la corruzione entro limiti fisiologici, quando diviene eccessiva e pericolosa per la stessa tenuta dello Stato.

Queste brevi note possono quindi servire, mi auguro, per contestualizzare le caratteristiche di un sistema politico/sociale che non è né migliore né peggiore del nostro, e per far vedere in diversa luce le tante sciocchezze dette sulla Cina, con le lenti di ingrandimento della nostra cultura occidentale. Ci lamentiamo dell'autocrazia cinese? Però nelle nostre società occidentali, per fasce crescenti della popolazione, sta venendo meno la libertà sostanziale, quella cioè che ci libera dalle esigenze elementari della sopravvivenza dignitosa, perché la nostra libertà è basata sull'individualismo, seme del liberismo, mentre i cinesi ragionano in termini di comunità. Ci lamentiamo del paternalismo del sistema politico cinese? Però, anche nelle fasi economiche prospere, le nostre società sono caratterizzate dalla solitudine e dall'emarginazione e comunque siamo schiacciati, come direbbe Marcuse, in una unidimensionalità produttore/consumatore che non abbiamo scelto e che ci è stata imposta. E poi è anche difficile accusare gli altri di paternalismo da parte di una civiltà che ha prodotto Mussolini e Berlusconi. Ci lamentiamo della corruzione del sistema burocratico cinese? Pur senza avere l'esigenza di tenere unito, con la burocrazia, un Paese sterminato di un miliardo e mezzo di abitanti, anche noi abbiamo una diffusione della corruzione non certo invidiabile.



domenica 14 ottobre 2012

IL CINEMA INTELLETTUALE DI SERGEJ ĖJZENŠTEJN




IL CINEMA INTELLETTUALE DI SERGEJ ĖJZENŠTEJN.
Il capitale di Karl Marx e Ulisse di James Joyce. Progetti non realizzati.

di Francesco Lupinacci


Sergej Ėjzenštejn, regista sovietico, nel 1928 lesse il grande romanzo, rivoluzionario dal punto di vista letterario, dello scrittore James Joyce, Ulisse. Dalla sua forma frammentata, apparentemente disordinata nella frase, colse le basi di un vero e proprio linguaggio visivo fatto di oggetti, colori che, connessi fra loro, gettano le tracce di un senso erotico disincantato, pressante e profondo della mente umana. L’attenta lettura provoca stimoli visivi dovuti alla strisciante associazione articolata tra forme longilinee (sesso maschile) e forme arrotondate (sesso femminile), così come le spiega Sigmund Freud ne L’ interpretazione dei sogni.
Sostantivi e aggettivi collocati anche a distanza fra i periodi, vengono associati e talvolta accompagnati da odori e colori, quali il violetto, l’indaco, l’arancione, il rosso stimolando la sensualità e lasciando emergere il richiamo al sesso, al corpo femminile socialmente mercificato, il rapporto conflittuale e problematico del protagonista Bloom con la figura Femminile, a partire dalla Madre. Tutto questo emerge in misura più o meno cosciente agli occhi del lettore e, da queste basi, si rinforza l’elaborazione teorica di Ėjzenštejn su un nuovo tipo di montaggio cinematografico volto a risvegliare le vibrazioni sensoriali dello spettatore. Un montaggio che richiamando tutti gli aspetti del pezzo di montaggio e della composizione delle inquadrature (oggetti e soggetti, forme geometriche, diagonali, angoli acuti e retti, il costume dei personaggi, il tipo di luce, il filtro dell’obiettivo, la sovraesposizione o la sottoesposizione, le distorsioni prodotte da un obiettivo grandangolare quale il 28 mm e da un teleobiettivo quale il 310 mm) avessero un impatto multisensoriale sullo spettatore. Una forza penetrante che ne stimolasse e risvegliasse la psiche.
Nasce in Ėjzenštejn il concetto di montaggio armonico o sovratonale, un montaggio che non ‘accorda’ le inquadrature sulla base di un tono univoco, quali un soggetto, una forma o un colore dominanti, ma che proliferasse di vibrazioni complesse: sovratoni visivi e uditivi. Il risultato suscitato dalla lettura di Ulisse di James Joyce, non è “io vedo”, né “io odo”, ma l’ intreccio inscindibile e sovratonale tra vista e udito (oltre all’olfatto): io sento. Nel 1929 il sonoro non era stato introdotto in Unione Sovietica e Sergej Ėjzenštejn partì per l’Europa e gli Stati Uniti per studiarne le prime forme nel cinema e per studiare da vicino gli effetti del capitalismo avanzato per il suo futuro film Il Capitale. L’introduzione del sonoro avrebbe completato la sua teoria dei sovratoni. Mancava il colore; con esso, soprattutto oggi, un autentico montaggio sovratonale, ne sarebbe fortemente arricchito. Ma l’ Ulisse di Joyce non è solo un’opera che colpisce i sensi; essa scava nell’inconscio, nella materia dell’uomo e della donna, nei loro rapporti con la società capitalistica: le calze trasparenti che avvolgono le cosce femminili, osservate con apparente calma da un uomo distinto, sono strettamente riferite al loro prezzo e al negozio d’acquisto: 3 scellini e 11 pence da Sparrow in George’s street. Dunque l’Ulisse è un’opera che, attraverso la fisiologia risale all’intelletto ed elabora tale commento intellettuale: Corpo femminile, Corpo Umano ridotto a Merce. Dunque dal sovratono fisiologico si risale allo stimolo intellettuale. Dall’impatto emotivo al pensiero. Il secondo per mezzo del primo, fino ad intrecciarsi. E allora Sergej Ėjzenštejn giunge al montaggio costruito sui sovratoni intellettuali, che elabora durante la realizzazione di due suoi film: Ottobre e La linea generale. Il vecchio e il nuovo. Sull’onda di questi due film basati su legami associativi tra inquadrature di oggetti, figure e movimenti indipendenti dalla trama, emergono significati politici e sociali. Volendo estremizzare l’aspetto sperimentale sviluppato in questi due film, Ėjzenštejn aveva progettato, tra il 1927 e il 1928, il film tratto da Il capitale di Marx per insegnare all’operaio a pensare criticamente e ad apprendere il metodo di pensiero marxiano. Suo malgrado, non riuscirà a realizzare né Il Capitale né il film Ulisse. Per la trasposizione in film de Il capitale non riuscirà ad ottenere finanziamenti né in Occidente, né nell’URSS.



Dedicato al Dottor Franco Geppino Leone.

sabato 13 ottobre 2012

NEOCENTRALISMO E COMPITI DI UN PRESIDENTE DI REGIONE di Norberto Fragiacomo




NEOCENTRALISMO E COMPITI DI UN PRESIDENTE DI REGIONE
Verso le elezioni 2013 in Friuli Venezia Giulia
di Norberto Fragiacomo

E’ difficile dire se la situazione di un’Italia zeppa di lestofanti alla Fiorito sia seria; di certo è disperatamente grave, e quando il centro sta male, anche la periferia soffre.
La crisi ce l’abbiamo in casa, tra imprese che licenziano o delocalizzano e negozi che chiudono, ma è opportuno tenere a mente qualche dato statistico: il debito pubblico del sistema Italia, che ammontava a 1.899 miliardi di euro al 31 dicembre 2011, ha toccato, sei mesi dopo, quota 1.972,9 (+3,9%), pari al 124% ca. del prodotto interno lordo (PIL). A titolo di raffronto, si consideri che il debito era aumentato, nel biennio precedente, di complessivi 115 miliardi. Per quanto riguarda le spese per interessi, gli esborsi sono stati pari a 74 miliardi circa nel 2009, a poco meno di 72 miliardi nel 2010 ed hanno raggiunto il picco nel 2011 con 77,5 miliardi, a causa – evidentemente – della danza macabra dello spread. Il saldo primario– cioè la differenza tra le entrate delle amministrazioni pubbliche e le loro spese al netto degli interessi sul debito – è stato positivo sia nel 2010 che nel 2011, ma ciò che davvero conta, ai fini del futuro rispetto (a partire dal 2014) del principio del pareggio di bilancio (art. 81 Cost.) e del fiscal compact è il fabbisogno complessivo – vale a dire la necessità di ricorrere al debito – che in un anno è sceso da quasi 68  miliardi a 61 miliardi e mezzo (dati MEF), comunque moltissimi.
Questi numeri ci raccontano una semplice verità: per riportare, in un decennio, il debito pubblico al 90% del PIL (il 60% è fantascienza alla Philip Dick) le c.d. riforme strutturali, ad altissimo impatto sociale, e le “potature” operate nell’ultimo anno e mezzo non bastano, sono soltanto – dolorosissime - punture di spillo. Abbassare il debito, a valori correnti, a 1431,1 miliardi (90% del PIL) significa recuperare 541 miliardi, cioè 54 miliardi all’anno circa, in aggiunta alle manovre “ordinarie”, ma solo dopo aver portato il fabbisogno a zero.
Mission impossibile? Pare proprio di sì, anche perché non si è tenuto finora conto del denominatore, ossia del PIL, che, anziché salire, si sta contraendo per effetto delle infinite manovre depressive: Moody’s prevedeva, in agosto, un decremento tra l’1,5 e il 2,5% per il 2012, e crescita zero, o addirittura negativa (-1) per l’esercizio successivo.
Prendiamo per buoni questi calcoli, che pure ci sembrano ottimistici: adesso abbiamo tutti gli strumenti per imitare Malevic, e dipingere un quadr(at)o nero.
In sintesi: Mario Monti e il suo governo non ci stanno conducendo in salvo, anzi. Per motivi ideologici, più che per considerazioni di natura “tecnica”, l’attuale esecutivo ha imboccato risolutamente una delle due strade consigliate dagli economisti borghesi, quella del rigore – e, come ci insegna la Storia del ‘900, il rigore soffoca la crescita. Studiosi premi Nobel come Krugman e Stieglitz suggerivano un’altra via, che passa per la spesa pubblica, ma non si è voluto ascoltarli: peccato, perché, se il denominatore/PIL spicca il volo, la famigerata percentuale si abbassa naturalmente, senza necessità di ganasce sociali e sacrifici insostenibili; inoltre, investitori avveduti e senza preconcetti potrebbero dar fiducia ad un’economia dinamica.
Al di là dei giudizi di merito, le politiche montiane hanno prodotto finora una serie di effetti innegabili, che meritano almeno di essere citati.
Il principale è l'accantonamento del federalismo, e l’avvento di un nuovo centralismo, ben più accentuato ed invasivo di quello della c.d. Prima Repubblica. Non si tratta solo dell’introduzione del pareggio di bilancio (art. 81) o dell’altrettanto frettolosa riscrittura del Titolo V, che sembrano una giustificazione a posteriori: l’ingentissimo taglio di risorse, a partire dal 2011 (manovre estive Tremonti), ha di fatto bloccato l’attività di Regioni ed Enti locali, i cui margini di manovra sono stati annullati; contemporaneamente, si è assistito all’accendersi di un conflitto istituzionale senza precedenti, con il Governo centrale che impugnava ogni norma finanziaria delle amministrazioni regionali e viceversa. La partita non è aperta, dal momento che la Corte Costituzionale - mostrando più realismo politico che scrupoli giuridici - ha avallato e continua ad avallare, in pratica, le decisioni governative. C’era una volta il principio di sussidiarietà verticale (art. 118, 1° comma, Cost.): scordatevelo, non esiste più. Estinto, come i pacifici brontosauri.
Con questa situazione, sommariamente descritta, la Regione Friuli Venezia e i suoi enti locali si trovano a fare i conti.
L’ultimo salasso – che non sarà affatto l’ultimo! – si chiama disegno di legge di stabilità per il 2013, sceso in pista in coppia con il decreto legge 95. Insieme i due provvedimenti cavano altro sangue agli enti territoriali; si effettua anche un taglio di 1,5 miliardi di euro alla sanità pubblica, che valeva, nel 2011, 110 miliardi. La nostra regione, dunque, è toccata due volte: sia sul fronte delle entrate correnti che su quello, specifico, della spesa sanitaria, che dal 1997 è a carico esclusivo dell’amministrazione regionale.
Secondo una primissima quantificazione la perdita di gettito per effetto delle manovre fin qui varate ammonterebbe a mezzo miliardo di euro, poco meno di 1/10 del bilancio del Friuli Venezia Giulia. Già si annunciano ricorsi, tra cui – particolarmente fondato, per via della peculiarità sopra descritta – quello sui tagli alla sanità: resta il fatto, però, che i recenti orientamenti della Consulta non suggeriscono alcun ottimismo. La situazione dei Comuni regionali non è ovviamente migliore, senza parlare delle Province, a rischio soppressione.
Una cosa è sicura: nel prossimo futuro presiedere una regione o dirigere un ente locale sarà un compito arduo ed ingrato. Detto questo, interroghiamoci su cosa potrà e dovrà fare il prossimo presidente del Friuli Venezia Giulia, all’esito di una compagna elettorale in cui forze politiche poco responsabili non mancheranno di impugnare l’insidiosa bandiera della secessione.
Iniziative di “resistenza” individuali non sono attuabili: nel nuovo modello centralista la Corte dei Conti vigilerà su ogni singolo atto, e un allentamento della pressione sui cittadini sarebbe pagato, dal politico idealista o avventato, con gravose sanzioni pecuniarie ed un sostanziale ostracismo (incandidabilità per dieci anni da qualsiasi carica pubblica!). La cancellazione, ormai certa, dell’autonomia non potrà, in ogni caso, essere contrastata solo per via giudiziaria: è indispensabile che il nuovo “governatore” cerchi l’appoggio degli amministratori locali e delle altre regioni per costituire un fronte compatto di opposizione a scelte regressive e platealmente dannose per le comunità. Opposizione politica, intendiamo - quella cioè che la stragrande maggioranza di partiti e parlamentari ha rinunciato a fare – capace di aggregare anche le forze sindacali e i movimenti espressi dalla società civile. Il governo Monti ed un suo eventuale clone politico godranno sempre dell’appoggio delle tecnocrazie (FMI, BCE, Commissione Europea) e della simpatia di chi controlla i mercati: il cammino è dunque in salita, ma un mutamento dell’impostazione politica è necessario, a pena di recessioni decennali e crescere della miseria e dell’ingiustizia sociale.
Questo non implica un rifiuto di gestire il presente: al contrario, dagli amministratori si pretenderanno competenza ed impegno eccezionali, oltre che un’onestà a tutta prova.
Il bilancio della nostra regione, che negli ultimi anni chiudeva a 5,5 miliardi di euro ca., non è riscrivibile a piacere: senza contare le rigidità, almeno 2,2 miliardi annui sono destinati alla sanità, mentre 8-900 milioni servono al funzionamento del sistema delle autonomie, finanziato integralmente dalla Regione. Crisi o non crisi, queste risorse non si toccano, perché costituiscono le condizioni irrinunciabili del patto sociale.
Devono essere altresì salvaguardati l’assistenza (si pensi alle case di riposo, già oggi una nota dolente) e, più in generale, il welfare, rilanciata – nei limiti del possibile – l’economia, con incentivi alle imprese legati a garanzie di buon lavoro ed interventi adeguati nei settori della cultura e del turismo: realtà storico-archeologiche importanti come Aquileia (sito UNESCO) non vanno abbandonate al degrado, bensì valorizzate, e questo vale anche per numerosi musei in condizioni pietose. Infine la scuola, preoccupazione di ogni socialista e comparto strategico: l’elevato costo dei libri, la fatiscenza degli edifici, il difficile accesso agli studi universitari per i ceti (sempre) meno abbienti e la mancanza di un reale collegamento con il mondo dell’impresa e della scienza sono altrettanti problemi da risolvere.
Quanto al personale della regione e dei comuni, non è il caso di fare demagogia spicciola: il primo è stato abbondantemente sfoltito nell’ultimo anno (-8,8%), e gli enti devono spesso arrangiarsi con un pugno di dipendenti mal pagati ma coscienziosi. Basta angherie, che aggravano soltanto la crisi e la disperazione dei cittadini. Che fare, dunque? Proseguire nell’opera di razionalizzazione dei costi, favorendo l’accorpamento dei piccoli Comuni e – per quanto riguarda la Regione – rimotivare i lavoratori, garantendo prospettive di carriera ai meritevoli, in una logica finalmente meritocratica e non clientelare. La creazione di due grandi province (Friuli e Venezia Giulia) in luogo delle quattro attuali consentirà, inoltre, cospicui risparmi.
Per gli altri settori si cercherà di fare il possibile, utilizzando al meglio ed oculatamente i pochi mezzi a disposizione, che – temiamo – diminuiranno nel tempo; quanto alla politica, un’opera di moralizzazione e contenimento dei costi è improcrastinabile, e passa attraverso l’eliminazione di benefici che, in tutta Italia, trasformano un munus in una posizione di privilegio.
Un candidato che condivida questa visione e sia in grado non solo di promettere (a chiacchierare sono buoni tutti) ma, grazie alle sue provate capacità e competenze, di realizzare quanto indicato avrà il nostro pieno sostegno; astenersi perditempo e chi, giocando furbescamente con le parole, pretende libertà di licenziamento come premessa a nuovi contratti nominalmente a tempo indeterminato.
Di simili personaggi la “sinistra” ne ha candidati parecchi, in anni recenti – e farebbe meglio a non vantarsene.



giovedì 11 ottobre 2012

Lavorare di meno per lavorare tutti: è proprio vero che è impossibile? di Riccardo Achilli


di Riccardo Achilli



Un tema di cui non si parla più, dopo la sepoltura dell’esperimento di Jospin e della Aubry delle 35 ore settimanali, è quello riassumibile con lo slogan “lavorare di meno per lavorare tutti”. La principale obiezione dei liberali a tale idea è che contribuirebbere a ridurre la produttività del lavoro, già molto bassa in Italia rispetto ai concorrenti europei, aggravando la competitività delle imprese.
E’ tuttavia ovvio che in una fase in cui aumenta il bacino dei senza-lavoro, puntare sull’incremento di produttività di chi già lavora è il modo per non riassorbire più i disoccupati, creando quindi un sistema di esclusione perenne dal mercato del lavoro di ampie fasce di popolazione attiva che, allungandosi il periodo di disoccupazione, perderebbe ogni potenzialità personale di rientro nel circuito lavorativo.
Andando poi ad osservare con maggiore attenzione la critica principale che si fa alla riduzione dell’orario di lavoro per aumentare l’occupazione, notiamo che, in realtà, il problema competitivo che affligge l’economia italiana non è la produttività del lavoro, quanto invece la produttività totale dei fattori, ovvero il rendimento complessivo che tutti i fattori produttivi forniscono alla crescita, e che dipende dalle condizioni di contesto in cui i fattori produttivi stessi forniscono il loro contributo.
I dati Ocse ci dicono, in effetti, che, nel periodo 2000-2010, mentre il PIL italiano cresceva ad un tasso medio annuo dello 0,3%, l’input di lavoro è cresciuto più lentamente del PIL (+0,2%) mentre l’input di capitale è aumentato in misura molto più significativa rispetto alla crescita (+0,7%). Anche se misurato in un periodo più lungo (1995-2010) l’input di capitale cresce più rapidamente di quello del lavoro (rispettivamente, +0,7%, contro +0,4%, a fronte di una crescita media dello 0,9%).
Quindi, per garantire un determinato percorso di crescita, come quello manifestato dalla nostra economia, l’esigenza di immissione di capitale supera quella di immissione di lavoro. In altri termini, il capitale è meno produttivo del lavoro[1]. D’altra parte, la produttività del lavoro cresce più rapidamente rispetto alla produttività totale dei fattori: fra 1985 e 2010, la prima cresce, in termini reali, del 28,8%, la seconda del 10,8% (dati Ocse). Quindi il problema non è che il lavoratore italiano sia di per sé poco produttivo, ma che il contesto in cui opera ne abbassa significativamente l’apporto al processo produttivo: la bassa produttività del capitale ne è la spia evidente, e dipende da fattori quali il sottodimensionamento cronico di gran parte del nostro tessuto produttivo, accompagnato da sottocapitalizzazione e da modelli di governance padronali poco idonei a supportare qualità ed innovazione, dalla modestissima quota di spesa di R&S sul PIL, soprattutto di parte privata (e dall’assenza di meccanismi di collegamento efficaci fra ricerca pubblica ed imprese), dall’estensione anomala di forme di economia irregolare o criminale, dall’inadeguatezza delle infrastrutture di trasporto e dal permanere di un digital divide in alcune aree del Paese, dai tempi elefantiaci della pubblica amministrazione. Tutti questi elementi riducono la produttività totale dei fattori, incidendo prima e soprattutto sul rendimento del capitale investito, e poi su quello del lavoro, la cui produttività è resa più bassa dalla bassa produttività del capitale (per rendere l’idea, utilizzando una metafora estrema, è ovvio che un’ora di lavoro effettuato con un tornio a controllo numerico abbia una produttività superiore ad un’ora di lavoro effettuata con un tornio manuale; è evidente che la produttività del lavoro non può prescindere dalla produttività potenziale del capitale, che nel caso del tornio numerico è più alta rispetto a quello manuale).
Tra l’altro, negli anni più recenti, la produttività totale dei fattori è in evidente rallentamento, mentre quella del lavoro rimane stabile, se non in lieve crescita: fra 2000 e 2010, la prima diminuisce del 5,3%, mentre la seconda aumenta dell’1,9%. In altri termini, negli ultimi 10-12 anni, in Italia, il lavoro è stato talmente produttivo da più che compensare il tracollo della produttività del capitale!
Abbandoniamo quindi l’argomento sciocco secondo cui una riduzione dell’orario di lavoro per far crescere l’occupazione sia ostacolata da un presunto gap di produttività del lavoro, lasciando tale argomento ai padroni che vogliono imporre un neo-fordismo di ritorno. E cerchiamo di capire se realmente tale strategia sia sostenibile. Mettiamoci nell’ipotesi peggiore, cioè la più costosa per il sistema, quella in cui, per assurdo, si ipotizzi una riduzione dell’orario di lavoro per tutti gli occupati, ed in quantità tale da liberare spazio per assumere tutti i disoccupati, ufficiali e nascosti (è naturalmente una ipotesi artificiosa, che serve solo per evidenziare l’onere sistemico massimo).
Ipotizziamo in un primo momento che, per non incidere sulla competitività, la riduzione dell’orario sia pagata soltanto dai lavoratori (rimuoveremo questa ipotesi subito dopo). E facciamo, per assurdo e per motivi prudenziali, l’ipotesi che si intenda dare lavoro all’intera platea di disoccupati (ipotesi fantascientifica, anche in condizioni di piena occupazione un tasso frizionale di disoccupazione esisterà sempre, ed ovviamente è anche necessario per evitare di andare oltre il punto del NAIRU[2], poiché, contrariamente a quanto affermano i tifosi di ogni tipo di peronismo, l’inflazione è una bomba piazzata sotto i piedi delle stesse condizioni di equità sociale e distributiva). Ciò significa che, fra disoccupati ufficiali e nascosti, dai dati Istat al 2011 emerge che occorrerebbe dare lavoro a 3,64 milioni di persone. La retribuzione oraria media lorda di un lavoratore nel 2011 (dirigenti esclusi) è di 15 euro all’ora, equivalente ad una retribuzione media lorda di 24.363 euro annui (Istat). Moltiplicando tale dato per il numero complessivo di ore lavorate da impiegati, quadri ed operai nel 2011, si ottiene un monte-retribuzioni complessivo pari a 549,9 miliardi di euro.
L’immissione al lavoro di tutti i 3,64 milioni di disoccupati, ufficiali o nascosti, ovvero un incremento occupazionale del 16,1%, mantenendo invariato il monte-retribuzioni complessivo pagato dai datori di lavoro, costerebbe al lavoratore medio, su 13 mensilità, una riduzione di stipendio pari a 260,12 euro al mese. a ciò vanno aggiunti altri costi, come ad esempio il costo della formazione del neo-assunto da parte dell’impresa: poiché la formazione professionale per gli adulti costa, al settore privato, circa 4 miliardi all’anno (dato Isfol) se tale costo fosse fatto pagare ai lavoratori, comporterebbe una ulteriore riduzione di circa 12 euro sul loro stipendio mensile. Considerando altri costi di coordinamento e di tipo organizzativo per l’immissione di nuovi occupati, alla fine si arriverebbe ad un sovraccosto di 20 euro al mese. Sommati ai 260 euro di cui sopra, sarebbero circa 280 euro mensili cui l’occupato medio dovrebbe rinunciare per una politica di pieno impiego basata sulla riduzione del suo orario di lavoro.
A livello sistemico, il costo del pieno impiego sarebbe di 95,4 miliardi/anno. Se fosse lo Stato a pagare tali 95,4 miliardi, lasciando quindi immutati i salari dei lavoratori, pur a fronte di una riduzione del loro orario di lavoro di un 16% medio (equivalente, posto che l’orario di lavoro settimanale medio degli italiani è di 37 ore, ovvero di 7,4 ore su una settimana di cinque giorni, ad una situazione in cui si lavorano 7,4 ore dal lunedì al giovedì, e nel giorno di venerdì si lavora solo per un’ora e mezza circa) occorrerebbe considerare che lo Stato risparmierebbe 3,5 miliardi all’anno di indennità di disoccupazione e mobilità (perché se lavorano tutti, tali voci non esistono più) e guadagnerebbe 63 miliardi di euro in più da contributi sociali ed imposte sul reddito. In sostanza, circa 66 miliardi fra minori spese e maggiori entrate, per cui il costo complessivo massimo (si ricordi che stiamo considerando il caso, del tutto fantascientifico, che la riduzione dell’orario di lavoro comporti l’assunzione di tutti i disoccupati, ivi compresi quelli nascosti) di tale operazione sarebbe pari a meno di 30 miliardi all’anno. Sarebbe cioè pari all’1,9% del PIL, oppure al 3,8% del totale delle uscite del conto economico consolidato di tutte le amministrazioni pubbliche. Farebbe, certo, aumentare il deficit di bilancio, ma comporterebbe anche un incremento di PIL, a produttività del lavoro vigente (e ovviamente ridotta in ragione della riduzione media dell’orario di lavoro), pari al 13% (ma non considero gli ulteriori effetti sul PIL derivanti dall’aumento della domanda per consumi derivante dal pieno impiego). Il deficit/PIL, a regime, cioè dopo un shock temporaneo dovuto all’aumento dei costi non immediatamente compensato dalla crescita del PIL (che ha sempre un lag di ritardo) passerebbe dal 3,9% del 2011 al 5,1%, senza considerare gli effetti di incremento della domanda per consumi, ed al 4,5% considerando anche l’incremento del PIL indotto dalla maggiore domanda per consumi.
I calcoli sopra esposti non sembrano quindi indicare niente di drammatico o di irreparabile sul versante dei costi pubblici di un sistema di riduzione dell’orario di lavoro seguito da un incremento assoluto di occupazione finanziato dallo Stato; i costi per il bilancio pubblico sarebbero alti, ma in sostanza non terribili (mentre andrebbero forse esplorati altri potenziali effetti perversi, ma anche molto controversi e quindi non certi, legati ad una possibile riduzione della propensione ad investire in innovazione di processo, qualora il rapporto capitale/lavoro nei processi produttivi fosse completamente sovvertito a favore del secondo).
Naturalmente, poi, per la finalità di evidenziare il massimo costo possibile per il sistema, cioè lo scenario “peggiore”, i calcoli di cui sopra sono stati fatti nell’ipotesi semplicistica che vi sia un rapporto diretto, meccanico, fra riduzione dell’orario e aumento dell’occupazione, mentre nella realtà vi sono professioni che richiedono specializzazioni molto specifiche e “incorporate” nello specifico lavoratore, che non possono quindi dare luogo ad un suo affiancamento con un lavoratore equivalente (si pensi alle professioni artistiche, creative, artigianali, ai mestieri di altissima qualificazione, le professioni svolte su incarichi intuitu personae, ecc.) e quindi per tali categorie professionali sarebbe assurdo prevedere una riduzione dell’orario (anche perché spesso sono esercitate da free lance e consulenti senza orario di lavoro contrattuale) potendo concentrare l’esperimento di riduzione dell’orario di lavoro soltanto sulle professioni operaie e su quelle impiegatizie più standardizzate e ripetitive, con un minore onere per il sistema, in termini di costo della riduzione dell’orario di lavoro. Ma naturalmente questi argomenti sono tabù: siamo sotto la cappa del liberismo più ortodosso!    



[1] Ovviamente si trascura per semplicità l’ovvietà secondo cui il capitale è, in termini di valore intrinseco, costituito da lavoro indiretto.
[2] Not-accelerating inflation rate of unemployment, ovvero il tasso di disoccupazione minimo, al di sotto del quale l’inflazione accelererebbe. 

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